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La Notte (o il Sogno) - Battista Dossi, 1534 - Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda - immagine tratta da commons.wikimedia.org


La Notte di Battista Dossi. Fonti iconografiche e letterarie

di Stefano Agnelli





Tra il 1544 e il 1548 Battista di Nicolò Luteri, detto Battista Dossi, fratello minore del più celebre Dosso, dipinse tre allegorie: La notte, L’aurora e Il giorno. Mentre le prime due sono giunte fino a noi, attualmente conservate nella Gemaldegalerie di Dresda, Il giorno non ha avuto altrettanta fortuna, e risulta a tutt’oggi disperso.

La notte è opera davvero unica per l’epoca: presenta infatti al suo interno, la raffigurazione di un gruppo di creature zoomorfe e antropomorfe, quale non v’è traccia alcuna nella pittura italiana, fino a quel momento.

Per trovare un corrispettivo antecedente, bisogna spostarsi nel Brabante d'inizio secolo, e prendere in considerazione la moltitudine di creature deformi e orripilanti che popolano le opere di Hieronymus Bosch. Sappiamo per certo che, nel 1521 Marcantonio Michiel vide diverse opere del pittore fiammingo a Venezia, presso il cardinale Grimani, oltre a quelle oggi conservate a Palazzo Ducale, ma non ci è dato sapere se anche il Dosso le vide. Nel 1521 Battista era rientrato da un anno alla corte degli Estensi, avendo soggiornato a Roma, presso la bottega di Raffaello, dal 1517 al 1520, cioè fino all’avvenuta morte del maestro; notizie di altri viaggi, seppur brevi, non sono giunte sino a noi.

Tuttavia un particolare de La notte, una figuretta umana capovolta, in alto a destra, che pare tutt’uno con un alveare, trova riscontro nel dipinto di Bosch S. Gerolamo penitente, conservato a Palazzo Ducale, che rientra nel novero delle opere del pittore fiammingo forse note al Dosso. Nel pannello veneziano sta infatti una figura quasi microscopica, che sembra essere proprio quella di un uomo conficcato a testa in giù dentro un alveare.

Le fonti che hanno originato le creature de La notte sono più probabilmente altre. Inizierò dalle più antiche. Se consideriamo l’opera nell’insieme, la scena rimanda con buona approssimazione alla descrizione della casa del Sonno, vera e propria divinità minore, fatta da Publio Ovidio Nasone nelle Metamorfosi (libro XI).

Secondo Ovidio, il dio abita una montagna cava “nella quale con i suoi raggi, all’alba, al culmine o al tramonto, mai può penetrare il sole”; dorme in un letto coperto di coltri, ai cui piedi “giacciono alla rinfusa, negli aspetti più diversi, le chimere dei sogni”. Le chimere dunque assumono, nella casa del Sonno, molteplici aspetti, proprio come nel dipinto del Dossi. Qui, ad essere addormentata, circondata da creature multiformi, è una giovane donna – motivo michelangiolesco – mentre il Sonno, concupiscente, la veglia.

La descrizione ovidiana, poi in Stazio (Tebaide, libro X), giunge probabilmente a Battista Dossi attraverso la mediazione dell’Ariosto, anch'egli presso la corte ferrarese. Nel 1516 quest'ultimo aveva dato alle stampe la prima edizione de L’Orlando furioso, dove nel Canto quattordicesimo ritroviamo la dimora del Sonno, in cui, ancora una volta:

 

“Il Sole indarno il chiaro vi mena;

che non vi può mai penetrar coi raggi,

se gli è la via da folti rami tronca:

e quivi entra sotterra una spelonca.”

 

Oltre al motivo del sole che non riesce a penetrare il fitto dei rami, ritorna anche quello della montagna cava, spelonca, o grotta.

Le stesse creature dei sogni sembrano poi modellate sulla scolta del Furioso. Nel Canto sesto, Ruggero viene assalito da una moltitudine di esseri deformi. Alcuni “dal collo in giù d’uomini han forma, /col viso altri di simie, altri di gatti, /stampano alcun con piè caprigni l’orme.” E ancora: “Di questi il capitan si vedea (…) il qual su una testuggine sedea.” Particolare interessante se si considera che una delle figure del sogno, nell’allegoria del Dosso, viene rappresentata sotto forma di un’aragosta, munita di lancia e scudo, mentre cavalca proprio una testuggine.

Accanto alla giovane donna addormentata stanno poi un gallo ed un gufo. Nell’antichità il primo poneva fine con il suo canto al dominio del Sonno. È sempre Ovidio ad informarci che nella casa di questa divinità: “non c’è uccello dal capo crestato che vegli e chiami col suo canto l’aurora” (Metamorfosi, libro XI). Secondo Luciano di Samosata (Storia vera, II), il popolo dei sogni venera tre divinità: la Notte, il Sonno ed il Gallo, il cui tempio si trova presso il porto cittadino.

Il gufo, animale notturno per eccellenza, apre invece, alla luce delle Metamorfosi, un’ulteriore e stimolante prospettiva. Nel libro decimo, infatti, Ovidio racconta le vicende di Mirra che desiderando giacere con il padre, ottiene ciò che vuole con l’aiuto dell’oscurità ma, prima di entrare nel letto, dove si consumerà l’incesto, un gufo l’avverte per tre volte “col suo verso di morte”. Allo stesso modo – libro nono – la sventurata Bibli, che concepisce un insano desiderio per il fratello Càuno, può averlo non tanto con l’aiuto della notte, ma piuttosto con quello del sogno.

Se accogliamo queste indicazioni, la figura del vegliardo, identificata come il dio Sonno, nell’atto di osservare la ragazza dormiente, assume un ulteriore significato: la Notte è desiderata carnalmente dal Sonno, in senso figurale ed allegorico, per portare a compimento la sua opera.

Infine, un’ultima considerazione. Il dio Sonno tiene nella mano sinistra uno stelo terminante con quella che pare essere la capsula di un papavero da oppio. Oltre ad essere conosciuto sin dall’antichità per le sue proprietà stupefacenti, il papavero da oppio, poiché provoca oblio, si trova spesso davanti all’abitazione del Sonno, nei cui pressi scorre anche il fiume Lete, dagli analoghi effetti sulla coscienza. L’allusione all’oppio, da parte del Dossi, è davvero singolare dato che, a partire dal Trecento, era assolutamente vietato farne menzione, in quanto considerato strumento del diavolo.

Ad ogni modo, per un’interpretazione più approfondita de La notte, occorrerebbe quasi certamente mettere in relazione il dipinto con le altre due allegorie che compongono il trittico, e purtroppo, come sopra ricordato, una delle due si è perduta nel corso dei secoli.