Rabbin Turquoise - Serge Prowizur, 2016, 80 x 80 cm, Acrilico su tela – Vernice satinatafirmato – Collezione privata - Bruxelles

Lunedì



A Gerusalemme le cose succedono con una velocità e un’intensità che altrove non c’è. Prendere un momento per scriverle, magari uscendo all’ultimo minuto da Gerusalemme su uno sgangherato autobus che traballa troppo in fretta (pure lui) verso il sud, impaziente di baciare il deserto prima che entri il sabato, lo Shabbat, e fermi tutto e tutti e tutte, è l’unico modo che conosco per preservare un minimo di sanità mentale. Dunque, eccomi.

Questa settimana è andata così:

Lunedì, alla scuola che frequento per diventare rabbino, mi hanno insegnato una cosa preziosa: rispondere a una domanda (in quel caso si parlava di normativa, ma si può - credo - estendere ad altro: consigli, conforto, informazioni) equivale all’esecuzione del precetto biblico espresso in Deuteronomio 22:1, ossia: “Non guarderai il bue o la pecora del tuo fratello andare perduti e resterai indifferente, ma invece li riporterai al tuo fratello”. Difficile la parola che la Torah usa qui, lehitalem: la si usa molto anche nell’ebraico moderno, proprio per disinteressarsi di qualcosa o qualcuno, ignorarla, restare indifferenti.

L’idea mi ha affascinata subito: in generale fatico moltissimo con le persone che non rispondono, che non si fanno trovare, che non ci sono quando hai bisogno di loro.

Da me stessa esigo presenza, certo con dei limiti: bisogna stare bene noi per primi per poter aiutare un altro, quindi è fondamentale porre dei confini, di tempo, di spazio, di forze.

Ma entro quei confini io ci sono: chi mi cerca mi trova e a chi chiede rispondo.

L’ho sempre sentito importante, proprio perché soffro tanto quando non succede a me, ma lo sento come fondamentale ora che studio per diventare rabbino.

Un rabbino ci deve essere, punto.

A volte scherzo con me stessa o con pochi fidati amici e chiamo le ore che spendo ogni settimana nel tentativo di ascoltare, indirizzare, rispondere, a volte anche dirottare verso chi ne sa più di me, se necessario, “The Rabbi is in”: il rabbino c’è, parafrasando quella meravigliosa vignetta di Lucy dei Peanuts che allestiva un minuscolo stand, un gazebino di strada con sopra un cartello: “The Doctor is in” e da lì dava consigli, ma soprattutto ascoltava... Vi ricordate?

L’idea è che c’è un sapere comune e collettivo, ripeto: nel caso specifico, una sorta di innata e istintiva saggezza normativa, un intuito primigenio che ci diceva come comportarci quasi spontaneamente in maniera gradita al Creatore del mondo.

Questo istinto, con tanti altri, lo abbiamo evidentemente perduto da qualche parte nel lungo cammino che ci ha resi umani cervellotici ed evoluti, e allora chi studia, chi dedica il proprio tempo a “toccare nella Torah giorno e notte” (Giosuè 1:8) ha l’obbligo di restituire quel sapere trovato – ritrovato ai suoi proprietari, cioè a chiunque domandi.

La Torah, nella visione ebraica, appartiene a chiunque e tutti ne possiedono una parte: “Dacci la nostra parte nella Tua Torah”, chiediamo svariate volte al giorno nelle preghiere.


Miriam Camerini