The Rabbi is in


La vasca da bagno del Dottor Zhivago

di Miriam Camerini

Di nuovo in treno, questa volta di lusso vero. Da Firenze a Vienna ho preso un vagone letto singolo (col Covid costano meno) e di quelli belli, con la doccia “in camera”.

Per la prima volta, dopo la Transiberiana in cui dovevi infilare un dito dentro al rubinetto per far uscire l’acqua (col risultato che è impossibile – per esempio – lavarsi le due mani contemporaneamente), dopo il mitico notturno Khiva – Tashkent con l’uomo che tagliava l’anguria e ne distribuiva fette a tutti i passeggeri dello scompartimento aperto, ai miei amici del notturno Vienna – Milano con cui ancora mi scrivo, di viaggi notturni in treno ne ho fatti tanti e belli, anche quello – da favola – fra Berlino e Malmö, col treno sul traghetto in mezzo alla notte sotto la luna piena.

Questa però è la prima volta in cui posso farmi la doccia e sentire contemporaneamente le rotaie sotto i piedi nudi.

A proposito di piedi: ho con me, e leggo illuminata dalla lucina vicino al letto appeso in cima, un libretto di Hermann Hesse che mi ha appena regalato mia zia Mara per Hannuka: si chiama Camminare e la copertina è una bella carta geografica della Svizzera: “Basterebbe questa” ha scritto mia zia come dedica, “...Hesse ci perdonerà”. Dice un sacco di cose che condivido, sull’immaginare la propria vita in ogni casa che si incontra, che si vede illuminata da fuori, pensare a come sarebbe la propria vita in qualsiasi - o quasi - città si visiti.

L’indomani mi sveglio sotto la neve della campagna austriaca, col treno in ritardo di un paio d’ore, il che mi dà il tempo di una seconda doccia oltre che di fare una tale colazione - guardando dal finestrino la campagna innevata - che nemmeno il Dottor Zhivago nei suoi giorni più fortunati.

A Vienna ho giusto il tempo di cercare il mio libro Ricette e Precetti, anzi Rezepte und Gebote - appena tradotto e pubblicato in tedesco – nelle due librerie della stazione centrale: il lock-down rende però impossibile l’acquisto immediato, le librerie funzionano solo su ordinazione: me lo farò mandare.

Riparto per Budapest, sempre con Hesse, sempre sotto la neve. Mangio zuppa e bevo the: oramai sono entrata nel personaggio. A Budapest mi aspetta in stazione la mia amica ungherese con la quale - assieme ad altri - da mesi lavoro al progetto che finalmente per la prima volta domenica vedrà la luce: Talmud on Stage, ossia insegnare il Talmud, testo rabbinico complesso e ostico ai più, tramite esercizi e giochi del teatro di improvvisazione.

Stage / Page fright lo abbiamo chiamato, cioè un modo di superare la paura della pagina tramite la paura da palcoscenico, come dire che un problema ne risolve un altro!

Un dolore al collo che mi è iniziato con qualche passeggiata di troppo al gelo sopra il Monastero di Camaldoli la scorsa settimana mi infastidisce ancora, ma la mia amica Borcsa mi trova un appuntamento immediato con una sua angelica insegnante di yoga e massaggiatrice, la quale mi rimette al mondo in tre quarti d’ora. Emergo dalla luce gentile e soffusa e dagli aromi essenziali del suo studio con tutti i sensi all’erta, in comunione con la natura e il mio respiro.

Uno dei miei più cari e vecchi amici, musicista e compagno di scena da quando eravamo ragazzi vive ora qui e questo è il nostro primo giorno a Budapest assieme dal suo recente trasferimento: l’emozione di fare merenda in un localino natalizio con the e palachinke è stata grande, essere portata da lui in auto al mio massaggio mi ha fatta sentire ancora una volta accudita nei bisogni piccoli e importanti della vita.

La sera ceno da sola, studio per l’indomani e vado a letto serena: la camera è bella e ha una vasca da bagno in mezzo alla stanza, proprio come a casa mia.

Venerdì lavoriamo in teatro tutta la mattina per preparare il workshop di domenica. Siamo io, Borcsa e un ottimo attore, insegnante di improvvisazione teatrale e direttore del teatro che ci ospita.

Poi ci prepariamo a Shabbat, comprando vino kasher, aringhe, salmone affumicato e challot, i pani intrecciati del Sabato, in uno dei tanti negozi kasher del quartiere ebraico di Budapest: vado a portare queste cose nella sala-concerti, negozio di antiquariato e caffè dove ceneremo questa sera per non doverlo fare durante lo Shabbat, cioè quando è proibito trasportare oggetti da una proprietà a un’altra.

Corro a casa, faccio il bagno, spengo il telefono, accendo le candele, respiro. Ahhhh. E’ Shabbat, fate spazio al tempo!

Non si può portare (né, ovviamente, usare) il telefono, quindi imparo a memoria la mappa cartacea che trovo nella lobby di un hotel, la lascio lì dov’è e inizio a camminare. In meno di mezz’ora sono al Szerpentin, il locale/negozio di anticaglie varie dove ho appuntamento con Manuel: mi invita a bere una cioccolata calda con zenzero e cannella in un caffè meraviglioso che si chiama proprio Dottor Zhivago, appunto. Gli racconto che non so più dove voglio vivere, che ogni luogo mi sembra un po’ casa e nessuno del tutto. Con lui, qui ora all’entrata dello Shabbat in questo pezzetto di Russia iper-riscaldato con le stufe e i samovar, qui ora nel suo ascolto mi sento a casa quanto non mai.

Vado poi in sinagoga, accolgo lo Shabbat con salmi e preghiere di cui sento un estremo bisogno in questo momento: devo digerire l’enormità e la quantità delle emozioni di questi giorni, farmi dentro un po’ di spazio per i prossimi.

La sera conduco una piccola cena di Shabbat per una quindicina di amiche e amici di amici, assieme a Manuel, nel piccolo negozio-caffè e dopo un concerto di musica classica.

Mangiamo il pesce e beviamo il vino, parliamo e cantiamo.

Cammino fino a casa con uno degli ospiti alla cena, un ungherese che parla un perfetto italiano, non ebreo ed estremamente dotto in ebraismo, tanto sensibile da offrirsi per aprire il portone del mio albergo, che necessita di una chiave elettrica. Gli do la buona notte e salgo felice le scale che girano attorno all’ampio cortile.

Sabato cammino - velocemente e sempre a memoria - verso un’altra sinagoga: la porzione di Torah che si legge oggi è quella in cui Giuseppe finalmente si svela ai suoi fratelli nella commozione e nella paura. Lacrime e gioia sono mescolate che di più non si può, angoscia e rimorso, sorpresa e sollievo: questa è forse la più incredibilmente bella delle parashot (porzioni settimanali di Torah) dell’anno, senza dubbio fra le mie preferite.

Un verso colpisce la mia attenzione questa volta, un particolare a cui non avevo mai posto mente in Genesi 45,15: i fratelli si riconoscono e dopo essersi abbracciati e baciati parlano: l’inizio della vicenda sta nell’odio che i fratelli portano all’arrogante e superbo Giuseppe, tanto che – dice il testo – “non potevano parlargli in pace” (Genesi 37,4): un commento medievale dice che non parlavano affatto, perché sapevano che quando non è possibile parlarsi in pace è preferibile non parlare del tutto, per non mentire.

Le peregrinazioni di Giuseppe, uscito di “casa” una mattina per andare in cerca dei suoi fratelli, per tentare di essere come loro, proprio lui che è così diverso, così sognatore, finiscono quel giorno in Egitto, con Giuda che gli parla nell’orecchio costringendolo finalmente a piangere come tutti gli altri, a esprimere un dolore troppo a lungo soffocato e rimosso. Giuseppe trova i suoi fratelli quando impara a soffrire, gridare, commuoversi e lamentarsi come loro, all’occorrenza, ossia quando la vita lo richiede. Sono felice di aver raccontato davvero ieri sera a Manuel come mi sento, spaesata e confusa, stanca e preoccupata di star sprecando tempo ed energie: è vero in parte, come sempre, ma ieri ci voleva e oggi sto già meglio.

Dopo la funzione siedo in sinagoga a mangiare kugel e bere whiskey con un rabbino americano e due studiosi, i direttori di due università ebraiche locali, un uomo e una donna: parliamo di Giuseppe come se fosse un nostro conoscente e lo studio della Torah è così vicino a tutti noi che non serve altra lingua in comune.

Il pranzo è allegro e intimo, il tempo dello Shabbat ha una consistenza tutta sua, scorre più morbido, senza alcuna altra preoccupazione che il qui e ora, è un tempo che sa di eternità e infatti parliamo anche del seminario che ho tenuto a Camaldoli, sul tempo della redenzione e il Messia nei testi rabbinici. Alla fine di questo “sessantesimo di era messianica”, come il Sabato è definito nel Talmud, celebriamo la havdalà, o separazione fra il tempo sacro e quello della settimana e subito si ricomincia a creare e a distruggere, si riaccendono i telefoni ed ecco ci sono di nuovo testi da consegnare e articoli da mandare in stampa, telefonate a cui rispondere e mail da scrivere, concerti da organizzare e così via. Torno a casa, il mio amico Yuval è appena arrivato da Vienna per insegnare assieme a me, domani, una delle più complesse e suggestive storie di tutto il Talmud babilonese: fino a tarda notte parliamo in camera mia, sono almeno due anni che non ci vediamo ma è come se ci fossimo lasciati ieri. Prepariamo il testo per domani e andiamo a dormire; domenica è il grande giorno: il Talmud sale sul palco.

Le gambe e le voci, gli occhi e le orecchie, tutto è già all’erta, lasciamo solo che il cervello riposi qualche ora e fidiamoci: andrà tutto bene.


Foto di Paola Cazzaniga