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Educare alla soggettività. Teologia della liberazione e pedagogia di Paulo Freire
di Stefano Sodaro
Intervento in qualità di presidente dell’Associazione Culturale “Casa Alta” al Convegno “Educare alla partecipazione, praticare la libertà”, promosso dalla Rete di Cooperazione Educativa in occasione del centenario della nascita di Paulo Freire
L’intervento NON è stato rivisto dall’autore
Cittadella, Assisi, 12 settembre 2021
Penso di poter dire così: ci sentiamo oggi più che mai desertificati dall’assenza di teologia della liberazione nel nostro specifico contesto ecclesiale italiano.
Molte e molti di noi ricorderanno bene la passione, quasi una specie di vero e proprio innamoramento, con cui negli anni Ottanta dello scorso secolo si seguiva la convocazione di Leonardo Boff a Roma dal Card. Ratzinger – quel Leonardo Boff che dichiarò di vedere in Paulo Freire uno dei fondatori della teologia della liberazione -, o, prima ancora, il viaggio di Giovanni Paolo II a Puebla, nel 1979. Mi sono riletto il Discorso di questo Papa all’Episcopato Latinoamericano il 28 gennaio 1979 e devo dire, senza troppi timori, che sono delineati chiaramente, in quel testo, i percorsi di circumnavigazione dell’istituzione ecclesiastica centrale rispetto ai fermenti teologici delle “periferie” latinoamericane. Bisogno di riaffermare la cristologia e l’ecclesiologia in opposizione alle nuove elaborazioni teologiche, fino a parlare del “paradosso inesorabile dell’umanesimo ateo”[1].
La grande assise episcopale di Medellin, inaugurata da Paolo VI il 24 agosto 1968, sembrava essere stata archiviata definitivamente[2].
Gustavo Gutierrez, in un Seminario del 1996 svoltosi alla Perkins School of Theology della Southern Methodist University (a Dallas, in Texas), dichiarò che Paulo Freire aveva contribuito in modo significativo all’elaborazione del pensiero che portò alla teologia della liberazione[3].
Il 24 marzo 1980 era stato assassinato Mons. Romero e qualcuno ha scritto «Oscar Arnulfo Romero, o Arcivescovo Romero di El Salvador come è meglio conosciuto, era sia un uomo di idee che un uomo intento a diffonderle. Dato il contesto sociale di El Salvador nel 1980, le sue idee erano viste come rivoluzionarie, una minaccia allo status quo. Non è chiaro fino a che punto le opere del collega latinoamericano Paulo Freire fossero conosciute da Oscar Romero. Tuttavia con le sue azioni ha dimostrato un crescente allineamento con l’affermazione di Freire (1976) che, "mentre il compito del sistema educativo nella vecchia società era quello di mantenere lo status quo, ora deve diventare un elemento essenziale nel processo di liberazione... i problemi fondamentali dell'educazione non sono strettamente pedagogici, ma politici e ideologici”[4].
Torniamo a noi, oggi.
Sì, abbiamo ora Francesco vescovo di Roma – Francesco, niente poco di meno che gesuita latinoamericano (tutte e tutti andiamo con la mente al martirio di p. Ellacuría e dei suoi compagni) -, ma lo scollamento, la distanza tra istituzioni e sensibilità popolari della Chiesa, italiana nel nostro caso e nei nostri giorni, resta profonda, evidente, e non so se incolmabile.
Il prossimo anno, 2022, ricorreranno i cento anni dalla nascita di Ernesto Balducci (padre scolopio) e trenta dalla sua morte. Balducci fu l’unico che – nella compagine cattolica italiana dei primi anni Novanta del Novecento – ebbe il coraggio di parlare delle “caravelle che ritornano” e lo diceva a 500 anni non dalla scoperta bensì dalla conquista dell’America.
Ho netto il ricordo della reazione, in un convegno a Roma di quella stagione temporale, di un cardinale – ritenuto tra i più aperti e addirittura progressista – davanti alla domanda se non fosse il caso di rimettere criticamente in discussione fin dalle radici rinascimentali quell’enorme impresa di evangelizzazione che volle dire anche cancellazione di intere culture.
La reazione fu – ahimé – terribilmente avversa, la domanda fu interpretata come un’intollerabile provocazione. Me lo ricordo proprio.
Eppure – appunto -, nell’anno del quinto centenario della conquista delle Americhe, pur in piena stagnazione ecclesiale istituzionale, la Chiesa Popolo di Dio anche in Italia discuteva, parlava, denunciava, insomma profetizzava. E oggi? Oggi proprio mentre sulla cattedra di Pietro siede un papa che si chiama Francesco e che, a mio modestissimo avviso, incarna precisamente l’ideale di Chiesa della teologia della liberazione, oggi che fine ha fatto la voce del Popolo di Dio in Italia? In questo momento, in tempo di Covid, di abbandono di un popolo intero a se stesso dopo aver preteso di redimerlo con le armi, ora che dice la nostra Chiesa?
Non dovremmo aver paura nel dire, anche a voce alta, che la teologia della liberazione, nata alla fine degli Anni Sessanta, fiorita negli Anni Settanta, giunta a maturazione negli Anni Ottanta – sempre del Novecento – ed ostacolata in tutti i modi a livello istituzionale negli Anni Ottanta e Novanta è stata un ripensamento complessivo, totalizzante, dell’essere Chiesa, eppure nella fedeltà più convinta ed effettiva alla Tradizione non solo dei Padri, e delle Madri, ma prima di tutto del Popolo d’Israele liberato attraverso la prova dell’Esodo.
È stato un ripensamento – come si diceva alla fine degli Anni Sessanta – “critico”, quando la “critica” non era ancora diventata una parolaccia. Un ripensamento cioè che nasceva dalla prassi e non dalla teoria, un cammino induttivo e non deduttivo, un ascolto prima che una parola, una comprensione delle contraddizioni laceranti e lacerate della realtà concreta, materiale, effettiva.
Oggi proviamo a chiedere in qualche nostra Comunità, magari pure a qualche giovane prete, che cosa sia la teologia della liberazione: se ci va bene otterremo una risposta disinteressata quanto a una “roba da comunisti”, frutto ormai rinsecchito di una visione ideologica abbandonata, secondo molti e molte per fortuna.
Questo quadro sconfortante riceve però un impensato scossone, come si accennava, dalla presenza sulla cattedra episcopale di Roma di un papa non previsto, che segna una brusca soluzione di continuità con l’intorpidimento ecclesiale italiano.
Un papa dall’attitudine decisamente pedagogica, forse ancor prima che pastorale.
Un papa che nel suo avvicinamento ai drammi del mondo sembra davvero riproporre gli insegnamenti di Freire.
Però – credo sia opportuna una problematizzazione, altrimenti scadiamo nell’apologetica, nella monumentalizzazione -, dobbiamo riconoscere che questo approccio non risulta sempre e comunque il migliore e più adatto per quanto concerne il contesto ecclesiale se restiamo fermi alla nozione tradizionale e non freiriana di pedagogia.
Che voglio dire? Siamo ancora in un periodo di emergenza sanitaria, la cui gravità ha segnato senza dubbio la storia: la Chiesa Cattolica, durante l’epidemia, è risultata un po’ ossessionata dalle preoccupazioni pedagogiche, educative, rivolte al proprio Popolo, mentre è rimasta silente sul fronte pastorale.
Ricordate la il martellamento sulla necessità di assicurare un culto esterno anche a costo di officiato esclusivamente da preti e vescovi? Come mai si è avuto questo schiacciamento proprio della pedagogia che Freire chiamerebbe “depositaria” sulla pastorale?
Mi viene in mente il titolo di un famoso volume di Ivan Illich, che ebbe intensi rapporti con Freire durante il suo periodo ginevrino, mentre era consulente del Consiglio Ecumenico delle Chiese: Descolarizzare la società.
Dall’Afghanistan, come sapete, se n’è andato tutto il personale ecclesiastico. Fa pensare. Senza dubbio, per la più che giustificata e condivisibile necessità di sicurezza, ma ugualmente fa pensare. Ora che succede cioè? Che la teologia (cristiana, cattolica) non ha più nulla da dire sull’Afghanistan? Le teologie contestuali – come tipicamente quella della liberazione latinoamericana – non possono ora diventare afasiche, non possono ritirarsi dalla propria autonoma elaborazione “critica”, per appunto, siccome ora non ci sono più preti e suore laggiù.
Forse non è stata una idea brillantissima aver sottratto l’Afghanistan, nel 1950, alla competenza della Congregazione per le Chiese Orientali per affidarla a Propaganda Fide, anche se le Chiese Orientali di oggi, nonostante il Vaticano II, non hanno sempre rapporti distesi con Papa Francesco e lo stesso presbiterato uxorato sembra non poter rispondere positivamente in modo massivo all’interrogativo che poneva Gustavo Gutierrez e che subito vedremo.
Veniamo così allo specifico degli intrecci tra Freire e la teologia della liberazione.
Che cos’è la pedagogia praticata – non semplicemente insegnata – da Freire?
Freire “ha fatto” teologia senza ricorrere ad alcun vocabolario teologico.
Perché la teologia della liberazione è un fare che viene ripensato e rielaborato criticamente dopo che l’azione è stata realizzata, compiuta, posta in essere. L’essere è l’essere dell’atto, del gesto, non l’essere metafisico, astratto, incontaminato.
“Essere” come essere parte di un gruppo, non-essere individui isolati, fieramente autonomi contraddicendo la verità stessa della nostra condizione umana.
La dinamica, tutta e solo ecclesiale direi, tra pedagogia e pastorale richiede così, di nuovo, una diversa investigazione, che non mi pare sia avvenuta.
Pedagogia e pastorale.
Ma che cos’è la “pastorale”? Che cos’è, anche, la specifica “teologia pastorale”?
La “teologia del gregge”, “delle pecore”, che tanto piace a Francesco vescovo di Roma e che ha implicazioni importanti, forse perché insospettate, con la nostra modernità, o meglio postmodernità, si scontra, in apparenza, con la nostra solitudine soggettiva davanti al mondo.
Iniziamo con il riconoscere che le pecore non sono soggetti, sono appunto gregge, entità collettiva. Va bene o va male? La dimensione “gregaria” non può essere ignorata o misconosciuta. La sofferenza delle classi scolastiche in questo tempo terribile non è stata forse “sofferenza di un gregge”? La stessa nostra gente, nel nostro Paese, non ha manifestato forse il “dolore di un gregge”, per dir così?
Ma, in un clima culturale di gigantografia dell’io che continua a dilatarsi, il senso della solidarietà, il senso del “noi” subisce una crisi dalla quale non riusciamo a risollevarci. Persino il meeting di Rimini si è intitolato niente poco di meno che “Il coraggio di dire ‘io’ ”, mentre il coraggio di dire “noi” è di là da venire. Il nostro “noi”, quando va bene, cioè quando non è del tutto assente, è una sommatoria di tanti “io”, tutti di ragguardevoli dimensioni.
Meglio fare un esempio.
Personalmente mi sono occupato a lungo di preti sposati secondo il diritto delle Chiese d’Oriente, in particolare delle Chiese cattoliche d’Oriente. In estrema sintesi: esistono nella Chiesa Cattolica preti legittimamente sposati, che sono stati ordinati dopo il matrimonio secondo il diritto canonico di quelle singole Chiese d’Oriente che sono in comunione con Roma, ad esempio i Melkiti, i Maroniti, gli Ucraini, i Romeni.
È una questione pastorale l’ordinazione presbiterale degli uomini sposati? Senza dubbio sì, anche se il Sinodo sull’Amazzonia non ha avuto, sotto tale specifico profilo, un esito felice, almeno secondo me. L’Esortazione Apostolica post-sinodale Querida Amazonía ha preferito, infatti, non dire nulla ali riguardo, né autorizzare – meno che mai promuovere -, né esplicitamente vietare.
Ecco, questo è uno dei casi in cui pedagogia e pastorale vanno in cortocircuito. In cui, cioè, l’odore del gregge – come dice il Papa – dovrebbe sostituire il profumo dell’incenso, quantunque il secondo sia molto più gradevole. Dal primo si vuole scappare, dal secondo ci si vuole lasciar avvolgere.
Con un’avvertenza, tuttavia.
Il padre della teologia della liberazione, Gustavo Gutierrez, nel suo testo omonimo (ed eponimo) avverte di verificare se il matrimonio concesso ai preti li renderà più vicini alla vita della propria gente. Afferma: con il celibato non ci sono riusciti, speriamo ci riescano con il matrimonio. C’è – cioè – una grande differenza, come aveva sottolineato Christian Duquoc, tra liberazione e progressismo.
In Pedagogia degli oppressi Freire cita esplicitamente, nominativamente, l’esempio di Camillo Torres. Che pastorale e che pedagogia è mai quella di un prete guerrigliero?
«La pedagogia dell’oppresso, come pedagogia umanistica e liberatrice, avrà due momenti distinti. Il primo, in cui gli oppressi scoprono il mondo dell’oppressione e si impegnano nella prassi a trasformarlo; il secondo, in cui, trasformata la realtà oppressiva, questa pedagogia non è più dell’oppresso e diventa la pedagogia degli uomini che sono in processo di permanente liberazione.» (p. 60)
È stata l’esperienza delle Comunità di Base diffuse nell’America Latina a far nascere la teologia della liberazione. Comunità di Base che sembrano lo specchio evangelico, ecclesiale, del progetto pedagogico di Freire.
E ad un certo punto, però, proprio in Pedagogia degli oppressi (a p. 191), si legge un affondo che apre direttamente alla teologia della liberazione – o, se vogliamo e preferiamo, ad una “proto-teologia della liberazione”.
Freire cita parole testuali del grande teologo domenicano Marie-Dominique Chenu: «Molti, sia padri conciliari sia laici informati, temono che, nella considerazione delle necessità e miserie del mondo, ci limitiamo a un’abiura commovente per offrire un palliativo alla miseria e alla ingiustizia nelle sue manifestazioni e nei suoi sintomi, senza che si arrivi all’analisi delle cause e alla denuncia del regime che produce questa ingiustizia e genera questa miseria.»
Oggi però - almeno secondo la mia interpretazione - quella teologia della liberazione, che poi fu ampiamente sviluppata, ha da confrontarsi con almeno tre questioni a mio avviso dirimenti: la questione delle donne, la questione per appunto della soggettività e la questione che potremmo chiamare “istituzionale”.
Alcune cose dobbiamo dircele con franchezza: nonostante il Concilio, nonostante Francesco d’Assisi e Francesco papa, l’ossessione identitaria cattolica incombe ancora, con alcuni risvolti – ad esempio nel dialogo con il Popolo d’Israele – che pensavamo non comparissero più, invece siamo sempre lì.
Credo non sia diffusa molto la coscienza che, quanto meno alle nostre latitudini, l’antisemitismo, anche magari solo accennato od anche magari quasi inconsapevole, è la stura micidiale alle peggiori discriminazioni. Nessuna riflessione teologica è stata elaborata su questo. E così rimaniamo agli esatti antipodi della pedagogia di Freire, dove non c’è alcuna centralità di un “noi” quale somma di tanti giganteschi “io”. Piccola digressione di puro divertimento: non so se avete osservato come anche la lingua parlata si avviluppi, con effetti comici, in questa gigantografia dell’io. Invece di dire “la ragione”, “la causa”, “l’esito”, noi ripetiamo di continuo “quella che è la ragione”, “quella che è la causa”, “quello che è l’esito”, celebrando nella dilatazione di tre parole del tutto inutili il tentativo di trattenere quanto più possibile sulla scena il nostro “io” parlante.
Insisto un momento sui rapporti tra cultura ebraica e brasiliana “all’insegna della teologia della liberazione”, diciamo così[5].
Uno dei documentari più completi sulla repressione dittatoriale iniziata nel 1964 in Brasile è l’opera Cidadão Boilesen del 2009, reperibile anche su youtube[6].
Narra la storia dell’imprenditore di origine danese Henning Albert Boilesen, che fu uno dei maggiori sostenitori del regime dei torturatori militari (si racconta addirittura che desiderava assistere personalmente alle seduta di tortura e che inventò un apposito strumento di tortura, chiamato Pianola Boilesen, per immettere elettricità nei corpi dei torturati). Ebbene, regista di questo documentario è Chaim Litevski[7].
E forse, secondo esempio, è poco nota la figura della psicologa Iara Iavelberg, nata in una famiglia ebrea di San Paolo, che si oppose anche con le armi alla dittatura militare e che trovò la morte, il 20 agosto 1971 (quasi esattamente 50 anni fa), in un assedio dei militari alla casa dove viveva con il suo compagno. Fu detto, dagli stessi militari, che la donna si era suicidata ed il corpo fu restituito alla famiglia un mese dopo, con il divieto di aprire la bara sigillata per verificare se si fosse trattato di suicidio e costringendo così la stessa famiglia a seppellire il corpo nel cimitero nella forma del disonore, con i piedi rivolti verso la lapide. Solo nel 2003 fu possibile darle degna sepoltura, dopo che anche la madre si era tolta la vita pochi mesi dopo la morte della figlia.[8]
Dunque: persone, singole, concrete, con nome e cognome. Bisognerebbe pertanto intendersi sul significato da dare alla parola “soggettività”, ma forse non è così auspicabile giungere ad una definizione. Forse, più che di una definizione ontologicamente chiara e definita di chi sia e cosa sia un soggetto, abbiamo bisogno di un’evocazione errante, baluginante, crepuscolare, della sua vera natura e consistenza, che si addensa attorno ad un nucleo affettivo caldo, incandescente, vivo. Le dinamiche amorose che una teologia della liberazione appassionata ed appassionate rivissuta oggi potrebbe consapevolmente attraversare nel nostro contesto ci mettono molta paura, perché non siamo più indenni dall’impurità, purtroppo addirittura omicida, di amori malati, fanatici, cinici, soprattutto egotici fino alla perversione, come accade nello spaventoso fenomeno degli abusi. Persino – lo sappiamo – una figura come Jean Vanier ne è stata travolta, persino l’ex-segretario di mons. Romero, mons. Jesus Delgado Acevedo, che è stato vicario generale dell’Arcidiocesi di San Salvador con il successore di Romero. [Per inciso, oggi invece abbiamo un vescovo ausiliare di San Salvador che è cardinale e che presiederà il rito di beatificazione di padre Rutilio Grande il prossimo 22 gennaio proprio a San Salvador, anche in questo caso un martire gesuita di una violenza che aspirava a giustificarsi in nome di sacra difesa della patria contro ogni comunismo…]
Il diritto canonico, ad esempio, di cui mi occupo per mia formazione giuridica (laica), continua ad essere del tutto refrattario alle questioni sempre più emergenti ed impellenti degli orientamenti di genere e delle teologie femministe, fino ad addirittura ad inserire la nuova fattispecie criminale dell’attentata ordinazione presbiterale delle donne.
Se entriamo più “tecnicamente” nella questione del ministero ordinato che proprio la teologia della liberazione ha innervato di nuove implicazioni, scopriamo che proprio quel testo del Vaticano II che nomina i preti sposati in Oriente – e cioè il n. 16 di “Presbyterorum Ordinis” (PO 16) – parla, quasi indicando il movimento contrario a quello della “Pastores dabo vobis” (l’Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II del 1992), di un “grex presbytero commisso”, di un “popolo dato al prete”, non di un prete dato esternamente alla comunità, piovuto da chissà dove. Anzi PO 16 sembra quasi stabilire una coincidenza tra la ricezione del presbiterato e la ricezione di un popolo cui dedicare la vita “plene et generose”[9].
Presbyteratus receptio/Gregis commissio: sembra il movimento esattamente inverso alla “Pastores dabo vobis”. Qui è: “Gregem dabo vobis!”. Anzi: siamo sicuri che c’è Qualcuno che “dà il gregge” a qualcun altro o è il gregge “che si dà”? La traduzione del participio passato “commisso” – presente nel passaggio di PO 16 - potrebbe anche rendersi con “impegnato”: dunque un “gregge”, un “popolo”, che si è di propria iniziativa impegnato con un prete, con quel prete determinato, con nome, cognome e storia personale.
Possiamo, alla scuola di Freire, pensare a quel nuovo monachesimo di cui parla spesso, ad esempio, Antonietta Potente, in cui la “consacrazione” non è più separazione ma profondità, non più esclusione ma elezione? È solo una domanda.
Ora: proprio nella Tradizione d’Israele il rabbino è il maestro, l’insegnante, non prima di tutto il liturgo, bensì il riferimento comunitario, la figura che stipula un vero e proprio contratto con la comunità, così come di un contratto ha assolutamente bisogno il matrimonio nel diritto ebraico.
La Legge – con la “L” maiuscola -, il cui dono agli uomini viene ricordato dal suono dello Shofar che si è udito pochi giorni fa nelle Sinagoghe in occasione del Capodanno e che ancora si udrà per Kippur che inizia mercoledì prossimo, è nello stesso tempo pedagogia e pastorale, ma, essendo “somma” pedagogia, relativizza il suo contenuto di ortodossia in ortoprassi. E se parliamo di “ortoprassi” ci avviciniamo intensamente alla riflessione teologica latinoamericana della liberazione.
Il pensiero di Paulo Freire, sempre decisamente comunitario, ci consegna dunque ad una nozione di soggettività che molto assomiglia al contenuto della liberazione che Franco Basaglia praticò nel nostro Paese. Di questa soggettività dobbiamo ricominciare a parlare e quando l’afflato comunitario dovesse risolversi in slogan privi di reciproca dedizione, di reciproca “commissio”, lontani del compromesso più profondo di noi stessi, dobbiamo tornare lì.
A questo Convegno, davanti a questa assemblea di persone, ho una proposta concreta da fare.
Nel 1982 comparve, in tutta l’America Latina, una trasmissione radiofonica di straordinario successo che divulgava la vita di Gesù di Nazaret secondo linguaggio e simbolismi particolarmente vicini agli ambienti popolari e che si intitolava Un tal Jesús.[10] Forse qualcuna o qualcuno di voi la conosce. Autori dei testi, raccolti in tre corposi volumi in lingua spagnola, sono i fratelli José Ignacio López Vigil e María López Vigil. Quei tre volumi hanno la prefazione di Ellacuría e va da sé che gran pare dell’Episcopato latinoamericano, con il Card. Quarracino in testa, condannò duramente la serie.
Ora: di quei tre volumi esiste la versione in spagnolo, ovviamente, in inglese, ma mai sono stati tradotti né in italiano, né in francese, né in tedesco. Perché? Eppure mantengono inalterata la loro vitalità, attualità ed intensità drammaturgica. Dopo 40 anni non potremmo pensare che sia arrivato finalmente il momento di far conoscere anche da noi, nella nostra lingua, un reale capolavoro della letteratura narrativa teologica latinoamericana? Potrebbe essere un’ipotesi di lavoro interessante?
Chiudo con l’estratto da un testo che riporta un dialogo con Freire che mi ha molto impressionato. Sappiamo che Freire si è sposato due volte, prima con Elza e poi, rimasto vedovo, con Ana Maria.
Gli fu ricordato (ora cito letteralmente): “«Elza, la tua prima moglie, disse una volta: «Si ama più volte in modi diversi».» Freire rispose: Ricordo la sera in cui me lo disse e per quale motivo. Fu per me una scoperta. Ampliò la mia possibilità di comprensione e mi sfidò ad una comprensione più critica. Noi, come esseri umani, ci amiamo e così riusciamo a comprendere le potenzialità dell’amore, senza però disamorarci di tutti coloro che abbiamo amato prima. Questo era il senso che lei dava alla frase. Non sempre tutti sono d’accordo o dissentono contemporaneamente. Non ho dubbi sul fatto che molti hanno disapprovato e si sono stupiti venendo a sapere che mi sono risposato. Non mi sono risposato perché m’aveva detto questo, ma attraverso il mio secondo matrimonio comprovo ciò che lei mi aveva detto. Fu quando perdetti Elza, con molto dolore e sofferenza, che compresi come soltanto quando si ama molto si può amare di nuovo. Quando si ama con timore una volta, non ci si riprova di nuovo. Oggi sono sicuro che se Elza ed io non avessimo vissuto un rapporto così profondo, non avrei amato per la seconda volta.»” (in E. Passetti, Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, elèuthera, 1996, pp. 44-45).
Vi ringrazio.
[1] “6.Gli impegni pastorali in questo campo devono essere animati da una retta concezione cristiana della liberazione. La Chiesa ha il dovere di annunziare la liberazione di milioni di esseri umani, il dovere di aiutare affinché si consolidi questa liberazione (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 30); però ha anche il dovere corrispondente di proclamare la liberazione nel suo significato integrale, profondo, come lo ha annunziato e realizzato Gesù (Ivi, 31). “Liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo, che è però, innanzitutto, salvezza dal peccato e dal maligno, nella gioia di conoscere Dio e di essere conosciuto da lui” (Ivi, 9). Liberazione fatta di riconciliazione e di perdono. Liberazione che erompe dalla realtà di essere figli di Dio, che possiamo chiamare “Abba, Padre” (Rm 8,15), in forza della quale riconosciamo in ogni uomo un nostro fratello, il cui cuore può essere trasformato dalla misericordia di Dio. Liberazione che ci spinge, con la forza della carità, alla comunione, la cui sommità e pienezza troviamo nel Signore. Liberazione come superamento delle diverse schiavitù e idoli, che l’uomo si forgia, e come crescita dell’uomo nuovo. Liberazione che nella missione propria della Chiesa non si riduce alla pura e semplice dimensione economica, politica, sociale o culturale, che non si sacrifica alle esigenze di una qualsiasi strategia, di una prassi o di un risultato a breve termine (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 33).”
[2] https://www.celam.org/documentos/Documento_Conclusivo_Medellin.pdf
[3] KIRYLO, JAMES D. “Chapter Seven: Liberation Theology and Paulo Freire.” Counterpoints 385 (2011): 167-93. Accessed September 3, 2021. http://www.jstor.org/stable/42980929.
[4] Dickson, J. (2005) ‘Oscar Romero of El Salvador: informal adult education in a context of violence’, The encyclopedia of pedagogy and informal education. https://infed.org/mobi/oscar-romero-of-el-salvador-informal-adult-education-in-a-context-of-violence
[5] Molto interessante la tesi di dottorato di Janaína de Almeida Teles https://teses.usp.br/teses/disponiveis/8/8138/tde-31012017 140247/publico/2011_JanainadeAlmeidaTeles_VCorr.pdf
[6] https://www.youtube.com/watch?v=V02LDYxEWPg
[7] https://www.youtube.com/watch?v=ZWCTWpOuVtA
[8] http://memoriasdaditadura.org.br/memorial/iara-iavelberg/ ed anche il documentario del 2013 Em busca de Iara, https://canalcurta.tv.br/filme/?name=em_busca_de_iara, opera di Flavio Frederico
[9] 6. Perfecta et perpetua propter Regnum coelorum continentia a Christo Domino commendata] per decursum temporum et etiam nostris diebus a non paucis christifidelibus libenter accepta et laudabiliter observata, ab Ecclesia speciali modo pro vita sacerdotali semper permagni habita est. Est enim signum simul et stimulus caritatis pastoralis atque peculiaris fons spiritualis foecunditatis in mundo. Non exigitur quidem a sacerdotio suapte natura, uti apparet ex praxi Ecclesiae primaevae et ex traditione Ecclesiarum Orientalium, ubi praeter illos qui cum omnibus Episcopis ex dono gratiae coelibatum eligunt servandum, sunt etiam optime meriti Presbyteri coniugati: dum vero ecclesiasticum coelibatum commendat, Sacrosancta haec Synodus nullo modo absimilem illam disciplinam immutare intendit, quae in Orientalibus Ecclesiis legitime viget, omnesque illos peramanter hortatur, qui in matrimonio presbyteratum receperunt, ut, in sancta vocatione perseverantes, plene et generose vitam suam gregi sibi commisso impendere pergant.
[10] L’intera serie radiofonica può essere ascoltata in rete, https://radioteca.net/audioseries/un-tal-jesus/