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Apokatástasis: una preliminare analisi filosofica


di Roberto Del Buffa



Egli deve esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione (ἀποκαταστάσεως) di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti.

Atti degli Apostoli, 3, 21

 

E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Prima lettera ai Corinzi, 15, 28

 

Riteniamo comunque che la bontà di Dio per opera di Cristo richiamerà tutte le creature ad unica fine, dopo aver vinto e sottomesso anche gli avversari.

Origene, De principiis, I, VI, 1

 

Il termine greco apokatàstasis fu usato dai filosofi stoici per indicare l’esito finale di ciascuno degli infiniti cicli di formazione e distruzione dell’universo, previsti dalla loro cosmogonia. Potrebbe essere tradotto con restaurazione oppure con riconciliazione. Quest’ultimo termine appare appropriato soprattutto in relazione a quei filosofi che considerano l’evoluzione ciclica del cosmo, che conduce all’ekpýrosis, cioè alla distruzione di tutto in un fuoco cosmico, come il risultato dell’interazione delle due forze di amore (attrazione) e odio (repulsione). L’apokatàstasis sarebbe la condizione per la successiva palingenesi, la rinascita dell'universo dopo la sua distruzione.

Estrapolata dal modello ciclico, la concezione di un tempo finale di restaurazione di tutte le cose e di riconciliazione di tutto in Dio, transitò nella teologia cristiana ad opera di Origene di Alessandria, nel III secolo d.C., che la formulò come ipotesi basata sulla sua interpretazione non letterale, ma allegorica, di numerosi passi del Nuovo Testamento.

Per Origene, alla fine dei tempi, quando il male sarà vinto e tutto sarà sottomesso a Dio, dovremmo attenderci una redenzione universale, in cui tutte le creature saranno reintegrate nella pienezza di Dio. In linea di principio nessun essere dovrebbe essere escluso da questa reintegrazione, compresi Satana e le sue schiere e tutti gli empi e i peccatori, per cui pure si è realizzata l’opera redentrice del Cristo. Le pene infernali non sarebbero dunque eterne, definitive, ma avrebbero un carattere purificatore, oggi si direbbe rieducativo, al termine del quale subentrerà il perdono di Dio: alla fine dei tempi tutte le creature condivideranno il medesimo stato esistenziale nel medesimo grado.

Ripresa da alcuni padri orientali, per esempio da Gregorio di Nissa nella seconda metà del IV secolo, l’apokatàstasis fu però condannata in numerose occasioni, per esempio da un Sinodo di Costantinopoli del 543, a cui si deve probabilmente il frammento di un testo di condanna di 12 tesi tratte da Origene, fra cui quella che «il castigo dei demoni e degli uomini empi è temporaneo o che esso avrà fine dopo un certo tempo, cioè ci sarà un ristabilimento (restitutionem et redintegrationem, cioè appunto apokatàstasis) dei demoni o degli uomini empi» (Enchiridion symbolorum, ed. Denzinger-Schönmetzer, 411), e poi successivamente nel quinto Concilio ecumenico, che si tenne a Costantinopoli nel 553.

Non voglio entrare nella delicata discussione teologica della apokatàstasis sostenuta da Origene, peraltro in un modo che sembra più un auspicio che la conclusione stringente di un ragionamento (si veda per esempio in De Principiis, II, 3 e V, 6), ma piuttosto limitarmi a una preliminare analisi filosofica, che mostri come il concetto di redenzione universale sia perfettamente conseguente alla nozione di Dio che, a partire da Origene, si afferma nel mondo cristiano, assumendo tratti che provengono, oltre che dall’ebraismo e dal Nuovo testamento, dalla filosofia greca, in particolare aristotelica e neoplatonica. In effetti la straordinaria ridefinizione del concetto di Dio, determinata, alla fine del mondo antico, prima dalla diffusione e poi dall’affermazione del cristianesimo, costituisce un passaggio culturale estremamente importante anche da un punto di vista filosofico. Chi scrive è infatti convinto che sostanzialmente un filosofo è un negoziatore concettuale, e quale esempio più eclatante di negoziato concettuale può esserci del lungo e animato dibattito che ha imposto, più o meno bene, il quadro concettuale all’interno del quale si è sviluppata, per un millennio e mezzo, la teologia cristiana? Molti non saranno d’accordo, ma, secondo me, i casi in cui la discussione filosofica di un concetto conduce a ipotizzarne un secondo e poi un terzo che sostiene i primi due e che, a sua volta, è sostenuto da un quarto concetto e così via, fino a costruire un vero e proprio sistema filosofico, dovrebbe essere considerata l’eccezione e non la regola dell’attività filosofica, soprattutto ai nostri giorni.

A favore dell’apokatàstasis giocano innanzitutto alcune considerazioni che derivano dall’infinità bontà, carità e misericordia di Dio. È evidente che il dono individuale della grazia da parte di Dio, non è necessitato, ma libero, tuttavia come potrebbe essere compatibile con l’infinita misericordia di Dio l’esclusione di qualche individuo dal dono della grazia? Infatti il disegno salvifico è universale e non può prevedere che alla riconciliazione finale manchi anche una sola creatura.

Limitiamoci al genere umano e trascuriamo la questione degli angeli ribelli, che aprirebbe una discussione sul male, che non c’è modo di condurre in questa sede (e comunque un Dio misericordioso ci libera dal male, non dai malvagi…). Si potrebbe dunque obiettare che la libertà umana può non solo resistere alla grazia, ma persino rifiutarla: ma chi, una volta raggiunta una conoscenza piena delle conseguenze delle proprie azioni, opererebbe contro il suo interesse? Chi, di fronte alla sconfitta definitiva del male, potrebbe perseverare nel rifiuto di una riconciliazione? Nei termini della filosofia di Leibniz, l’affermazione che si realizzerà l’apokatàstasis e che alla fine dei tempi tutte le creature conosceranno la riconciliazione con Dio o, se preferite, in Dio, nel medesimo grado, non è una verità necessaria, ma contingente, e tuttavia certissima, data la natura di Dio, quella degli uomini e il carattere finito del male che può essere compiuto. Se ci pensiamo bene, infatti, persino l’immagine di Dio come giudice perfetto, cioè come essere dotato di una infinita giustizia, appare corroborare l’ipotesi di una riconciliazione universale. Se ci sarà una fine dei tempi, qualsiasi essere potrà essere responsabile di aver prodotto moltissimo male, ma non una quantità infinita di male. Quindi una giustizia proporzionale alla sua colpa non potrebbe essere infinita, in quanto non sarebbe proporzionalmente giusta rispetto al male prodotto. Dio condanna gli empi, cioè i malvagi, alla più piccola pena possibile perché la loro anima sia emendata dai peccati commessi, così come si usa il fuoco quanto basta per emendare l’oro dalle impurità che possiede come minerale estratto dalla terra (è l’immagine proposta da Gregorio di Nissa nel suo De anima et resurrectione, in Patrologiae cursus completus, series graeca, 46, 100-101).

Storicamente le considerazioni sulla apokatàstasis e la negazione delle pene eterni si sono legate alla discussione sulla titolarità esclusiva della Chiesa in materia di salvezza, che si è affermata con Agostino d’Ippona all’inizio del V secolo e si potrebbe riassumere nella formula latina Extra ecclesiam nulla salus (nessuna salvezza fuori dalla chiesa), usata per la prima volta da Fulgenzio, vescovo di Ruspe, nel VI secolo. In questo senso Origene e Agostino rappresentano due concezioni alternative, direi quasi opposte, della teoria della grazia e della conseguente salvezza del genere umano. Agostino, nella sua polemica contro le tesi di Pelagio sulla possibilità che ciascun uomo, in virtù delle proprie scelte, possa ottenere la grazia divina e salvarsi, assunse una posizione radicale. Per Agostino la salvezza non dipende, in nessun modo, dalle azioni umane, ma è determinata da un libero decreto di Dio, che ha scelto, sin dalla creazione, un numero limitato di persone. Se questa minoranza è destinata alla salvezza eterna e alla comunione divina, per gli altri, la grande maggioranza dell’umanità, il destino è segnato. La loro volontà, asservita al peccato, li condurrà alla dannazione eterna. Com’è noto, la Chiesa, pur considerando eretica la teoria di Pelagio, non seguirà mai completamente Agostino su questa strada, non accettando la teoria della doppia predestinazione (alla salvezza di pochi e alla dannazione eterna degli altri) e opponendo alla dimensione individuale della grazia, quella collettiva della Chiesa. In questo modo tuttavia rimane il carattere esclusivo (ed escludente) della mediazione della Chiesa nell’opera della salvezza, mentre chi teorizza una finale riconciliazione di tutti in Dio, apre un varco per l’accoglienza e la salvezza di chi è fuori dalla Chiesa nel tempo o nello spazio o semplicemente per motivi culturali, giacché è molto difficile per un uomo o una donna cresciuti all’interno di una radicata tradizione religiosa (pensiamo per esempio all’induismo) abbandonare la propria fede, nonostante l’attività missionaria delle Chiese cristiane. Qui il dibattito è aperto e, nonostante la prospettiva aperta dal Concilio Vaticano II con il decreto «Nostra Aetate», che invitava a non respingere quanto di vero e di santo si possa trovare nelle altre religioni, il dibattito non sembra instradato in una direzione inclusiva, che riconosca i “semi di verità” posseduti da altre fedi e altri orizzonti culturali. L’espressione «semina Verbi» era stata riservata da alcuni padri della Chiesa alla cultura classica, greca e romana, ma peraltro non alla religione pagana, e indicò la direzione in cui, per esempio, filosofi come Platone o Aristotele potevano entrare a far parte della cultura cristiana. Anche qui mi astengo dalla discussione teologica, limitandomi a richiamare la posizione del teologo Karl Rahner che sostanzialmente invita a rovesciare la formula Extra ecclesiam nulla salus nella massima Ubi salus ibi Ecclesia, dove c’è salvezza lì c’è la Chiesa, una Chiesa, fatta di battezzati, ma anche di masse di cristiani inconsapevoli, cioè credenti di altre religioni (o non credenti), sui quali agisce, inconsapevolmente e non si sa per quali misteriose vie, l’azione salvifica di Cristo.

Vorrei concludere questo breve articolo confessando il mio debito per un libro di Giancarlo Bosetti edito da Bollati Boringhieri nel 2019, La verità degli altri. Bosetti propone la scoperta del pluralismo in dieci storie, come esplicitamente dichiarato dal sottotitolo tematico condiviso dalla copertina e dal frontespizio del volume, che dedica un capitolo a Origene e all’apokatàstasis, uno a Lessing curatore di un frammento leibniziano proprio sull’apokatàstasis e uno anche al caso del teologo Jacques Dupuis, condannato dalla Congregazione per la dottrina della fede, all’epoca presieduta dal Cardinale Joseph Ratzinger, per il suo libro Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso. Devo dire, con Bosetti, che, anche in campo religioso, una concezione pluralista, aperta al relativismo culturale, sembra essere assolutamente necessaria per aprire le grandi fedi al dialogo. Allo stesso tempo conclusioni del tipo tout va bien non sono accettabili, perché condurrebbero a un relativismo morale, pericoloso anche in campo religioso, conoscendo quali aberrazioni tutte le maggiori religioni si sono purtroppo trovate storicamente a sostenere, o perlomeno ad appoggiare, al grido, variamente declinato, di “Dio lo vuole”. In questa direzione la dottrina dell’apokatàstasis offrirebbe una prospettiva di riconciliazione assai interessante. È ovvio che un’affermazione falsa non diventa accettabile per il solo fatto di avere conseguenze positive. Ciò che qui si è cercato di mostrare è solamente che, a una preliminare analisi filosofica, la dottrina dell’apokatàstasis appare perfettamente conseguente rispetto a un concetto filosofico di Dio sviluppatosi nell’Occidente cristiana e inoltre determina una prospettiva universalistica del tutto in linea con l’universalità del messaggio salvifico di Gesù Cristo. Due considerazioni che dovrebbero indurci a considerarla con maggiore attenzione.