Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Celebrazione di Meskel nel 2016 - foto di Daniel Girma Tsige tratta da commons.wikimedia.org

El Meskel de Rodafà


di Stefano Sodaro

Proviamo ad ibridare le culture, le appartenenze, le identità, non per rendere tutto confuso ed indistinto, ma - al contrario – per scoprire quanta ricchezza viene dalla storia personale di ognuna ed ognuno di noi.

La scorsa settimana ci siamo permessi di ipotizzare (https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-627/stefano-sodaro-memoria-e-attualit%C3%A0-della-teologia-della-liberazione) un gruppo originale di tre donne, interno al nostro giornale, che incroci la storia della teologia latinoamericana, con specifico riferimento alla tragedia del massacro di El Mozote – di cui ricorreranno i 40 anni agli inizi del prossimo dicembre – e riesca ad elaborare, in lingua italiana, secondo la nostra sensibilità, ma anche secondo le diverse specifiche competenze e le diverse culture di provenienza per appunto, un attraversamento dell’opera narrativa latinoamericana Un tal Jesús.

Domani però si festeggia anche, nelle Comunità cristiane del Corno d’Africa, di Eritrea ed Etiopia, la solennissima festa di Meskel, l’Esaltazione della Croce, che segue il Capodanno dello scorso 11 settembre secondo il calendario proprio del conteggio abissino.

Le Chiese Ortodosse di Eritrea ed Etiopia vivono in piena comunione con le altre Chiese d’Oriente cosiddette “pre-calcedonesi”, di cui esistono – per così dire – “sorelle gemelle cattoliche”: tra quest’ultime la Chiesa Armena Cattolica, che proprio lo scorso 23 settembre ha eletto il proprio nuovo Patriarca, Raphäel Bedros XXI Minassian (https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-09/papa-francesco-patriarca-cilicia-armeni-libano.html).

Tra El Salvador ed Eritrea – il paese dei due habesha che ci è più familiare – immaginiamo di stabilire un ponte di comunicazione che riveli reciprocamente il senso profondo della festa condivisa, così come del pianto e del lutto.

Pur essendo alieni da certa semplicistica affermazione d’esistenza di una specie di “ecumenismo di tutti i Sud della Terra”, che pur fu ritenuto chiave interpretativa efficace degli equilibri geopolitici fino ad una ventina di anni or sono, è verissimo che l’elaborazione popolare e partecipata dei più intimi convincimenti, come sono le fedi religiose, accomuna aree intercontinentali anche di enorme distanza tra loro. Si mangia assieme in El Salvador cantando e danzando, mentre si mangia assieme in Eritrea preferibilmente in assoluto silenzio, ma la dimensione conviviale, sino a momenti di vera e propria commozione, appartiene alle culture popolari di entrambi i Paesi che pur distano 13.500 chilometri l’uno dall’altro.

Ma forse è proprio la teologia della liberazione ad essersi fatta carico di quell’accennato ecumenismo che non può eliminare – per questo se ne criticava l’uso definitorio troppo disinvolto – la complessità della vita di ogni Paese, ogni città, ogni casa, ogni persona.

Tra le teologie della liberazione, ad esempio, possono essere annoverate anche le teologie femministe. E di una teologia della liberazione avrebbe impellente bisogno la nostra stessa Chiesa italiana, nel riconoscimento di un vero e proprio magistero dei poveri che non ci risulta abbia mai avuto sinora spazi e luoghi istituzionali di effettiva esplicazione.

In questo lungo periodo di grande sofferenza per il mondo intero, liberazione deve poter dire liberazione dalla malattia, dall’infezione, dal contagio, dai necessari isolamenti. Ed invece pare diffondersi quasi odio verso chi si prodiga per assicurare sopravvivenza e vita. Per una forma di compensazione psicologica che non riusciamo a comprendere anche la sola parola “vaccino” è diventata, da identificativo di rimedio invocato e ricercato, maledizione da cui scantarsi e da condannare persino con violenza argomentativa, quando non fisica.

La festa di domani in Eritrea ed Etiopia, la presenza di una permanente e vivacissima elaborazione teologica in El Salvador – basti citare la Universidad Centroamericana “José Simeon Cañas” di San Salvador – attestano di una possibilità di liberazione concreta, effettiva, ma allo stesso tempo anche attingente alle profondità del nostro essere, che non possiamo, quantomeno come giornale, lasciar cadere od ignorare.

L’ibridazione culturale non è, dunque, temutissimo relativismo o negazione di convinzioni irrinunciabili, bensì ideazione e auspicabile realizzazione di una lingua comune, una sorta di “esperanto dello spirito”.

Il gruppo di giovani donne che il nostro settimanale confida di riuscire a mettere insieme (un collegium scriptricum, si diceva la scorsa settimana) sarà segno di una liberazione davvero praticabile, sperimentabile, a partire dallo stupore della scrittura che veicola il detto ed il non detto, così come fanno parola e silenzio.

Proseguiamo, dunque, con umiltà e fiducia.

Buona domenica sera, buona settimana.