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Leggendo la Relazione Finale del Sinodo


di Stefano Sodaro


Pubblicata, ieri sera, la Relazione Finale - definita Relazione di Sintesi - della prima Assemblea (definita a sua volta prima Sessione) del Sinodo dei Vescovi 2023-2024 che si chiude oggi.

Quando la profezia svapora nella retorica.

Od anche – appena un pochino più arditamente –: quando la Chiesa Cattolica (latina) pare davvero irreformabile.

Forse perché ritiene di non avere proprio (più) bisogno di alcuna riforma.

“Detto il Vaticano II”, detto tutto.

Si è monumentalizzato, musealizzato, e così reso innocuo, l’ultimo Concilio Ecumenico.

Altri non ce ne saranno, se non per ripetere quanto già universalmente noto, ribadito e conosciuto, così come avviene in questa Relazione Finale.

I punti più acuti di una possibile riforma strutturale della Chiesa Cattolica (latina) erano contenuti al capitolo B 2.3, parentesi 4), ed al capitolo B 2.4, parentesi 9) dell’Instrumentum Laboris.

Rileggiamoli.

Per il primo punto si avanzava la seguente domanda: La maggior parte delle Assemblee continentali e le sintesi di numerose Conferenze Episcopali chiedono di considerare nuovamente la questione dell’accesso delle donne al Diaconato. È possibile prevederlo e in che modo?

Per il secondo: È possibile, come propongono alcuni continenti, aprire una riflessione sulla possibilità di rivedere, almeno in alcune aree, la disciplina sull’accesso al Presbiterato di uomini sposati?.

Vediamo le risposte – per quanto certamente interlocutorie prevedendo il Sinodo una seconda Assemblea ad ottobre 2024.

Risposta al primo punto, contenuta alla lett. j) della citata Relazione: Sono state espresse posizioni diverse in merito all’accesso delle donne al ministero diaconale. Alcuni considerano che questo passo sarebbe inaccettabile in quanto in discontinuità con la Tradizione. Per altri, invece, concedere alle donne l’accesso al diaconato ripristinerebbe una pratica della Chiesa delle origini. Altri ancora discernono in questo passo una risposta appropriata e necessaria ai segni dei tempi, fedele alla Tradizione e capace di trovare eco nel cuore di molti che cercano una rinnovata vitalità ed energia nella Chiesa. Alcuni esprimono il timore che questa richiesta sia espressione di una pericolosa confusione antropologica, accogliendo la quale la Chiesa si allineerebbe allo spirito del tempo.

C’è poi un’aggiunta, alla lett. n): Si prosegua la ricerca teologica e pastorale sull’accesso delle donne al diaconato, giovandosi dei risultati delle commissioni appositamente istituite dal Santo Padre e delle ricerche teologiche, storiche ed esegetiche già effettuate. Se possibile, i risultati dovrebbero essere presentati alla prossima Sessione dell’Assemblea.

Risposta al secondo punto, contenuta alla lett. f) della Relazione: Sono state espresse valutazioni diverse sul celibato dei presbiteri. Tutti ne apprezzano il valore carico di profezia e la testimonianza di conformazione a Cristo; alcuni chiedono se la sua convenienza teologica con il ministero presbiterale debba necessariamente tradursi nella Chiesa latina in un obbligo disciplinare, soprattutto dove i contesti ecclesiali e culturali lo rendono più difficile. Si tratta di un tema non nuovo, che richiede di essere ulteriormente ripreso.

Alcune riflessioni.

Si notano vistose carenze teologiche in entrambe le risposte e ci si chiede come sia mai possibile, con un’Assemblea inoltre così qualificata e competente.

Davvero non siamo ancora in grado di formulare una teologia del diaconato femminile e dobbiamo rinviare – tra l’altro solo come benevolo auspicio – alle “conclusioni” della seconda commissione di studio istituita dal Papa non prima della prossima Assemblea sinodale prevista per appunto ad ottobre 2024? Quanto riporta la Relazione Finale non è, in effetti, che una ricognizione, notissima a tutte e a tutti, della dialettica – o meglio sarebbe dire dello scontro – che agita la riflessione sul tema.

La novità del contenuto della sopra riportata lett. j) starebbe dunque in che cosa?

Che la si pensi in un modo e nell’altro sarebbe la grande novità sinodale? Nessuna successiva acquisizione di innovazione ecclesiale?

Persino Febe, diacona di Cencre, è sparita per sempre. Paolo riesce a dire, nella Lettera ai Romani, molto di più di quanto non riesca a dire un Sinodo dei Vescovi nell’anno di grazia 2023. Abbastanza stupefacente.

Anche per quanto riguarda il secondo punto si resta, diciamo così, interdetti. Qualcuno nella Chiesa Cattolica – e questa volta non solo latina – ha mai dubitato del valore del celibato? Certo, se si aggiunge la specificazione “dei presbiteri”, bisognerebbe un attimo capirsi: è forse diverso, questo celibato, da quello di monaci, monache, religiose e religiosi e consacrati e consacrate? Ci sono diverse tipologie teologiche di celibato? Sembra un’assurdità anche solo ipotizzarlo. E poi: non esiste forse più un celibato “dei vescovi”?

Che poi ci sia addirittura una “convenienza teologica” – non, si badi, spirituale o pastorale, ma teologica – del celibato con il ministero presbiterale sembra francamente assai dubbio, se non insostenibile. Il n. 16 del Decreto “Presbyterorum Ordinis” del Vaticano II non dice affatto questo: afferma che “Il celibato, comunque, ha per molte ragioni un rapporto di convenienza con il sacerdozio”. “Convenienza”. Punto e basta: l’aggettivo “teologica” è un’aggiunta, davvero sorprendente, del Sinodo del 2023, che appesantisce la realtà effettiva di un riferimento dogmatico, vale a dire “teologico”, che il magistero del Concilio non sancisce, non unendo indissolubilmente per nulla, – ciò che una convenienza “teologica” altrimenti avrebbe richiesto – celibato e ministero presbiterale.

Insomma, davvero molte perplessità.

E tuttavia, per non far scemare la speranza, cosa resta, sempre con riferimento a queste due questioni emergenti – vale la pena ribadirlo, le più significative per un’effettiva riforma strutturale della Chiesa Cattolica -?

Intanto, paiono più che mai pressanti le istanze poste dalle cristologie femministe.

Chiariamo.

In termini meno tecnici: le Chiese della Riforma, ma anche le Chiese Anglicane e Vetero Cattoliche, che ordinano le donne a tutti gradi del ministero, sbagliano completamente, cioè dogmaticamente, per la Chiesa Cattolica? E perché? Mica sarà perché non ci siamo accorte ed accorti di un’avvenuta dogmatizzazione dell’esistenza di un principio mariano di fronte ad un principio petrino, adulterando la teologia di von Balthasar? “Ordinatio sacerdotalis” è davvero l’ultima e unica parola possibile anche per la teologia ecumenica?

Che giudizio dà la Chiesa Cattolica in termini non dogmatici – questo lo sappiamo bene – ma ecumenici della prassi di ordinazione femminile delle altre Chiese (tra le quali anche la Chiesa Ortodossa Armena con riguardo alle donne diacone)?

Certamente il ministero ordinato non è prima di tutto dimensione cristologica, bensì ecclesiologica (viene alla mente il bel volume di Martin Ebner La Chiesa ha bisogno di sacerdoti?, pubblicato quest’anno da Queriniana), e tuttavia associare la figura del ministro ordinato all’esclusività maschile provoca indubbie ricadute simboliche, di ordine cristologico, gravosissime, sino quasi a dover ipotizzare che per il sesso femminile ci sarebbe bisogno di una redentrice di pari genere: altrimenti come potrà – qualcuna, ben più autorevole del sottoscritto, lo ha già chiesto – un Salvatore maschile salvare le donne?

Un'altra sponda di salvezza, di speranza, è costituita dall’ampio n. 6 della Relazione Finale intitolato Tradizioni delle Chiese orientali e della Chiesa latina, la cui lett. c) al sotto-capitolo intitolato “Convergenze”, dice così: La consistente migrazione di fedeli dell’Oriente cattolico in territori a maggioranza latina pone questioni pastorali importanti. Se l’attuale flusso continua o si accresce, vi potrebbero essere più membri delle Chiese orientali cattoliche in diaspora che nei territori canonici. Per diversi motivi, la costituzione di gerarchie orientali nei Paesi di immigrazione non è sufficiente per risolvere il problema, ma occorre che le Chiese locali di rito latino, in nome della sinodalità, aiutino i fedeli orientali emigrati a preservare la loro identità e a coltivare il loro patrimonio specifico, senza subire processi di assimilazione.

Ora, il presbiterato vissuto nello stato matrimoniale è istituzione bimillenaria di tutte le Chiese Orientali – cattoliche comprese –, lo riconosce proprio e solennemente il n. 16 di “Presbyterorum Ordinis”, e bisogna augurarsi che non si pensi di attutirne l’importanza o silenziarne il significato cercando di reintrodurre l’ammuffita clausola della “exceptio sacrorum ordinis receptionis” che un tempo accompagnava l’indulto della Santa Sede che accogliesse la richiesta di passaggio di rito dal rito latino ad uno dei riti orientali.

Ci fermiamo qui.

Rimane una sensazione di amarezza, di proliferazione di parole ecclesiali che possono sfiorare – quando proprio non integrare – il tanto deprecato “ecclesialese”.

Ma il Regno di Dio – questo sì lo insegna la teologia sistematica – è assai più ampio della Chiesa. Grazie a Lui/Lei.

Buona domenica.