Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano
Comunità monastica di Bose - Foto tratta da commons.wikimedia.org
Se le sorelle e i fratelli mandano libri e verdura
di Stefano Sodaro
«Frate Leone, il tuo frate Francesco ti augura salute e pace. Così dico a te, figlio mio, come una madre.»
Le parole con cui si rivolgeva Francesco d’Assisi al suo caro compagno, Leone.
E nella Regola di vita negli eremi, composta sempre da Francesco, si legge espressamente: «Coloro che vogliono stare a condurre vita religiosa negli eremi, siano tre frati o al più quattro. Due di essi siano le madri e abbiano due figli o almeno uno. (…) Dicano Prima ad un’ora conveniente e dopo Terza sciolgano il silenzio e possano parlare e recarsi dalle loro madri. E quando vorranno, potranno chiedere ad esse l’elemosina, come dei poverelli, per amore di Dio.
Poi dicano Sesta e Nona e i Vespri all’ora stabilita.
(…)
E quei frati che fanno da madri procurino di stare lontani da ogni persona e, per obbedienza al loro ministro, custodiscano i loro figli da ogni persona, così che nessuno possa parlare con essi.
E questi figli non parlino con nessuna persona se non con le loro madri e con il ministro e il loro custode, quando piacerà ad essi di visitarli, con la benedizione del Signore Iddio.
I figli però talora assumano l’ufficio di madri, come sembrerà loro opportuno disporre per un necessario avvicendamento, e cerchino di osservare con attenzione e premura tutte le cose sopraddette.»
E al cap. VI della Regola Bollata si legge: «E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino tra loro familiari l’uno con l’altro. E ciascuno manifesti all’altro con sicurezza le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? E se qualcuno di essi cadrà malato, gli altri lo devono servire così come vorrebbero essere serviti essi stessi.»
Oggi è la Festa della Mamma e credo si debba riconoscere che sorprende e sbalordisce, siamo sinceri, un’identità femminile materna – pur spiritualizzata quanto si voglia – assegnata a frati maschi come modello di comportamento reciproco. I sostenitori della battaglia contro il terribile Gender dovrebbero provarne orrore: l’Assisiate addirittura raccomanda l’inversione dei ruoli – “i figli facciano da madre” -, verrebbe da protestare che non c’è più religione.
Noi tendiamo a disporre l’amore in una specie di scala gerarchica verticale quanto a primati affettivi da riconoscere, anche controvoglia, e in un rigido ordine orizzontale quanto ad intensità da provare: più ci si allontana, più ci raffredda.
In cima sta, dipende anche dalle personali condizioni di vita ma comunque: madre, padre o marito o moglie. Subito a lato fratelli e sorelle e subito sotto, ma proprio sotto attaccati, figli e figlie.
Chiedendo scusa per eventuali turbamenti, una disposizione del genere a chi scrive queste righe fa semplicemente orrore.
L’ordinamento giuridico dell’amore. Il codice degli amori, da articolo 1 ad articolo chissà quale, ma sempre articolo normativo.
“Gli amori vanno tenuti distinti” è una anche una pressante raccomandazione psicologica, altrimenti è il caos, contrario del “cosmo”, la confusione, la tenebra, l’inghiottimento in chissà quali voragini di senso incontrollabile.
Bene. E se fosse invece tutto sbagliato? Se fosse esattamente da capovolgere la prospettiva? Se avesse ragione il Francesco che snobbiamo con risatine sapute ed adulti, consapevolissimi, sussieghi?
Qualcuno, qualcuna, ci capisce qualcosa?
Sì, qualcuno, qualcuna c’è.
Ma non sta dove penseremmo.
Non si trova nei luoghi perbene e normali, del tutto omologati e omologanti, che appagano il bisogno d’ordine costituito.
Sono persone piuttosto – ci si permetta – “disfunzionali”, inutili.
Com’è inutile l’amore e la poesia.
Sono coloro che la nostra urgenza tassonomica – che non ci abbandona un istante, è vera ossessione – individuerebbe facilmente e subito come “monaci” e “monache”, senza però saper bene che significhi, al di là di presumibili abiti bianchi con amplissime maniche.
Dentro la parola “monaco”, “monaca”, ci sta l’unità, il “mònos” greco, ma non è la “reductio ad unum”, la perdita della pluralità come ricchezza, bensì, tutto al contrario, la sintesi dell’amore, la possibilità di suonarne la sinfonia in un’esistenza che non ha nessunissima importanza aggettivare ulteriormente, come ad esempio celibe, o obbediente, o casta. Lasciamo perdere.
Lì – e non qui dove immagineremmo – c’è qualcuna, qualcuno, che ama.
Ama chi? Ama come? Ama perché? Domande sbagliate.
Ama e basta. Senza che ci sia permesso sapere, e neppure chiedere, come, chi, perché.
Da padre e marito annoto – non ne abbiano scandalo lettori e lettrici – che spesso per amare bisogna stare assai fuori della coppia di facile intuizione, di normale riferimento. Ma proprio tanto lontani.
Fare coppia con il mondo è un po’ diverso dal fare coppia con lui o lei, eppure è l’unica salvezza possibile.
Proviamo a spiegare, non senza la necessità di preservare riservatezza e pudore.
Raccontiamo una storia, se reale o inventata ha poca importanza.
Un giorno chi non vive in coppia, ma appartiene appunto a quella rete di stupefacenti relazioni di cui s’è occupato Francesco nelle sue Regole parlando di “madri” e “figli”, viene a sapere – ad esempio – che hai dei problemi, che ti angustiano molto, ti fanno soffrire, non ti danno pace, ti svegliano la notte, e per manifestarti la sua vicinanza, giacché sta molto lontano (così, appunto, dev’essere, lontano anche fisicamente da ogni luogo comune), ti invia una cassetta di verdura appena raccolta assieme a tre libri appena pubblicati. E te li fa avere tramite un professore universitario con cui ti conosci fin da ragazzo e a cui vuoi un bene dell’anima e che - ma tu guarda - proprio laggiù si trovava, assieme a quelle “madri” e quei “figli”. Quando si dice “avere gli stessi gusti”.
E tu, alla sera, ritiri cassetta di verdura e pacco di libri che il caro amico ti consegna e pensi che stai celebrando un sacramento.
Capisci che quella materia è materia sacramentale, che la raccolta al mattino nell’orto, la scelta dei volumi in biblioteca, il viaggio in macchina dell’amico, il tuo ricevere i doni, tutto questo sta celebrando, nei fatti, un’impensata eucaristia, che forse farebbe inarcar le ciglia a dotti canonisti e liturgisti, ma a te apre la mente e il cuore.
Rivedi le mani di fratelli e sorelle, di madri e figli, che hanno lavorato, scritto, corretto, che hanno pregato, e ti pare di intuire in perfetta letizia – eccoci – che Giovanni aveva capito tutto quando scriveva, al capitolo quarto della sua Prima Lettera: “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.”
Quanti dèi ci sono? Quanti amori? Li contiamo? Li mettiamo in fila o in scala?
Uno è l’amore, perché uno è Dio.
Mangi la verdura che ti è arrivata, sfogli quasi accarezzando i libri regalati e capisci che amare non serve a niente, è stupenda inutilità.
Ed è proprio per questo, esattamente per questo e solo per questo, che ci farà guarire da ogni male.
Buona domenica.