Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano
Abune Antonios, Patriarca della Chiesa Eritrea Ortodo
Voglia di comunità
di Andrea Fossoto
È antica consuetudine – povero me – che io chiami il direttore di questo singolare settimanale online ogni domenica di primo pomeriggio, tendenzialmente un attimo prima del riposo post-prandiale. E così anche oggi, ma, questa volta, sento talmente a pezzi il nostro Sodaro che prendo la macchina e accorro, dal mio Veneto non sono tanti chilometri dopo tutto. Raccolgo il nostro con il cucchiaino di quelli che s’usano per il tiramisù. Che gli è mai capitato? Nulla di grave? Beh, le “sodarate” sono sempre piuttosto ingombranti e preoccupanti. Mi racconta, ascolto, mi incupisco anch’io. Alla fine credo di aver capito: subodoro eccesso doloso d’amore. Con la sua onnigamia il direttore rischia di finire proprio male, di deragliare. Ce lo troviamo finito a ruzzoloni in qualche crepaccio della vita se non la smette.
Ma andiamo con ordine.
Sono assiduo lettore de Il Piccolo di Trieste ed il venerdì voglio degustarmi con tutta calma la riflessione di Pier Aldo Rovatti. Leggo, dunque, a pag. 17 del quotidiano triestino di venerdì scorso, da un pezzo intitolato Tutti a litigare sulla stessa barca. Rovatti scrive: «Non possiamo negare che, nonostante le apparenze e le contraddizioni, la voglia di comunità stia comunque crescendo e sempre meno sopporti di essere rimossa.»
Mi faccio pensieroso: a credere nel valore della comunità, o di una comunità, si rischia di andare a sbattere in un pauroso frontale, come il treno del Novecento che ha preso in pieno il capoluogo giuliano senza che dal disastro dell’impatto ci si sia mai più ripresi.
Il motivo dell’esito fatale per gli innamorati – e le innamorate – di comunità (domani è San Valentino) pare piuttosto semplice da individuare: gelosia batte amore un buon trecento a zero. La gelosia è virtù assai prima che vizio, l’amore esattamente il contrario, nonostante lirismi, romanzi e canzonette d’ogni tempo e d’ogni dove. Anzi è trionfante il decisivo insegnamento che la gelosia è segno sicuro d’amore. Che non esiste amore senza gelosia. E così buona notte al secchio. Abbiamo chiuso. E il direttore de “Il giornale di Rodafà” mi finisce in depressione assoluta, come urlava Bebo Storti nel cabaret televisivo di decenni fa.
Che si fa?
Cambiamo continente, è meglio. Andiamo in Africa Orientale. Bel suol d’amore.
Di questo vecchietto che compare nella foto d’accompagnamento al presente mio articolo qualcuno sa mica qualcosa?
I grandi giornali non hanno riservato mezza riga alla morte di tale Abune Antonios, legittimo Patriarca della Chiesa Ortodossa Eritrea morto ad Asmara mercoledì scorso dopo più di 15 anni di prigionia in carcere. Per avere qualche notizia in italiano bisogna leggere Nigrizia (https://www.nigrizia.it/notizia/eritrea-morto-abune-antonios-patriarca-della-chiesa-copta) o il SIR (https://www.agensir.it/quotidiano/2022/2/10/ortodossi-morto-ad-asmara-abune-antonios-patriarca-della-chiesa-ortodossa-eritrea-da-16-anni-agli-arresti-domiciliari-come-prigioniero-di-coscienza/). Fine. Non c’è altro.
E merita osservare, così, en passant, che lo scorso giugno il Consiglio Ecumenico delle Chiese (il celebre CEC) si era affrettato ad esprimere i propri complimenti al nuovo Patriarca, Abune Kerlos, eletto con il consenso del Governo mentre il suo legittimo predecessore era in carcere (https://www.oikoumene.org/news/wcc-congratulates-his-holiness-abune-kerlos-i-patriarch-of-eritrea). Non proprio bellissimo e benissimo, ne conveniamo? Perché non chiedere, con l’occasione, anche la liberazione dell’anziano, ultranovantenne, Patriarca detenuto? Risposta non c’è, o forse, chissà, caduta nel vento sarà.
E torniamo sempre lì.
Che c’importa di un patriarca prigioniero nelle carceri eritree se è proprio la personificazione della comunità invece che il vindice del nostro amatissimo individualismo?
Ma che c’importa mai di una Chiesa lontana e ignorata che non ha alle spalle alcuna potente organizzazione, che sia CEC o Vaticano?
Ciò che conta sono gli amori nostri, non gli amori altrui. Anzi, al singolare – mi raccomando -, conta il nostro amore, piccolo, grande. Un piccolo grande amore. Solo un piccolo grande amore. Niente più di questo, niente più. Appunto, e fine. Abbastanza triste, ma non voglio diventare come il nostro cantor d’onnigamia. Di depressi ne basta uno.
Riparto da Trieste che ormai è sera.
La fondiamo questa comunità sì o no? Non lo so.
Il direttore è fuori uso per un po’, lasciamolo pure in pace. Proprio si vede che non sta bene, problemi suoi.
Ma interrogarsi su che cosa significhi amare forse farebbe bene a noi.
Solo che, porca malora, si riaccenderebbe così una struggente voglia di comunità, ci ha pigliato Rovatti, e non sapremmo dove andare a parare.
Forse è meglio acquietare tutto. Salutarci. Sarà per un’altra vita, questa è fatta così.
O no?
Se no, allora guardate che non resta tanto tempo per amarsi. Alla follia. Da pazzi, appunto, a rischio di internamento. Perché i manicomi, diciamolo, la nostra interiorità non li ha ancora aboliti. E siamo fuori tempo massimo.
Ah, fra due settimane questo settimanale compie 650 numeri. Che dire? Speriamo che il direttore si riprenda. E amen.