Foto di Paola Cazzaniga




Foto di Sharon Bar-Kochva

The Rabbi is in Yiddishland ossia in nessun luogo dappertutto e assieme da soli


di Miriam Camerini



Siedo nel cortile dell’ostello dove abito da quasi tre settimane, ormai, e ascolto un giovane inglese parlare lituano con la bionda famiglia di musicisti che ogni estate – da anni – macina chilometri in auto per arrivare da Vilnius a Weimar a suonare, imparare nuovi brani e stili canori alla Yiddish Summer, il festival e scuola estiva di musica klezmer, lingua yiddish e tanto altro che qui si tiene e di cui da qualche anno sono parte, fortunatamente.

Il ragazzo inglese ora vive in Belgio, è qui per caso, ha vissuto la sua vita già in tutto il centro ed est Europa, ha una valigia da recuperare a Vilnius che lo attende da quattro anni e assieme ridiamo dicendo che qualsiasi cosa di cui non ci siamo preoccupati per quattro anni probabilmente può restare dov’è. I lituani sono sorpresi e felici di trovare un “occidentale” che parla la loro lingua, così rara, e mi piace guardarli e sentirli conversare, mentre mangio al volo wasa svedesi e salmone affumicato prima di vestirmi per il concerto di fine corso, dove canterò la dozzina di canzoni nuove - brani liturgici ebraici, ballate yiddish e nigunim, melodie meditative o danzerecce chassidiche senza parole - che ho imparato questa settimana al mio workshop di canto. Di fianco a me un altro tavolino: a questo siedono due giovani hipster tedeschi della Baviera e parlano yiddish, esercitando ciò che hanno appena imparato a lezione e ripassato per l’indomani; pronunciano bene, sono divertiti dai suoni simili a quelli del loro dialetto eppure diversi, separati da secoli di storie, di Storia, di migrazione ed erranza, cacciate e pogrom. Sono molto biondi, anche loro, come gli adorabili e talentuosi musicisti lituani, e l’aria è piena di suoni.

Dopo il concerto e la bevuta di rito siedo a lungo con un’affascinante linguista di Strasburgo che sta scrivendo il suo dottorato sui metodi di insegnamento dello yiddish in Europa, oggi, sul rinnovato interesse per questa lingua senza terra, sul suo complicato rapporto con lo Stato di Israele, che è in parte anche il mio e di tutti i goles-yiden, abitatori della diaspora, ebrei erranti, non radicati in un luogo e se anche legati a una terra, non certo a quella di Israele, quanto piuttosto a quella che hanno abitato per secoli, come per me l’Italia.

Incontro una sera l’insegnante di Lettere di un liceo lombardo, venuto qui per vedere una lettera di Manzoni a Goethe, qui esposta, e una traduzione tedesca del Cinque Maggio, dal nostro poeta nazionale fatta appositamente tradurre - ancora non si sa da chi, ma il mio nuovo amico ha in mente di scoprirlo e lo farà - per il genio di Weimar; sediamo in una birreria fino all’ora di chiusura (non serve certo qui essere nottambuli per farlo) a parlare di progetti e spettacoli, attività di insegnamento della storia e della cultura ebraica che potremo proporre ai suoi studenti e colleghi nel lungo autunno della Valtellina, durante mattine nebbiose in cui questa estate e questa serata di birra, klezmer e acquavite saranno un dolcissimo e lontano ricordo.

Con un’altra nuova amica di Strasburgo siedo - sempre nel cortile dell’ostello - un’altra sera fino a tardi a parlare di canzoni popolari e dialetto alsaziano, del Pomul Verde, il primo teatro yiddish dell’era moderna, fondato nel 1876 da Abraham Goldfaden a Iasi, in Romania. Ricordiamo Budapest - dove lei ha vissuto e che io ho spesso visitato - e il suo centro-sociale/sinagoga/casa-occupata: Aurora, un luogo unico in Europa - periodicamente distrutto dai neo-nazisti ungheresi e costantemente ricostruito dai giovani militanti - dove ho pregato, fumato, insegnato, cantato e bevuto con amiche e amici nelle lunghe notti ungheresi, in quel miscuglio originalissimo di rinascita ebraica e controcultura anti-fascista che solo la comunità di Budapest, con i suoi 80.000 ebrei quasi tutti laici, oggi offre.

Weimar ha anche un minuscolo cimitero ebraico, dove crescono alberi di mele e di prugne, sotto a uno dei quali mi addormento dopo aver partecipato a uno strano rito di antiche origini est-europee: percorrere il perimetro del cimitero svolgendo una matassa di filo, che sarà poi conservata e bruciata alla vigilia di Kippur, il Giorno dell’Espiazione. Secondo Annie, la cantante e yiddishista che ci conduce, era una prassi femminile, che serviva a separare i morti dai vivi, assicurando a questi ultimi un anno di pace e guarigione in tempo di sventure e pestilenze: pare adatto anche a questo nostro, di anno pandemico. Alla fine del rito - che evidentemente svolgo con grande partecipazione - sono così stanca che dormo lì nel cimitero sotto un albero finché mi sveglia la pioggia. Alla fine, nonostante tutte le bellissime cose e le persone fantastiche incontrate qui, mi manca il “mio”, di yiddishista, quello rosso e russo, mi manca da morire, perché qui ci siamo incontrati, conosciuti, innamorati, amati. È lontano, in Quebec, ma lo sento come fosse qui con me in ogni strada, in ogni parola della lingua che lui tanto bene conosce e insegna, in ogni canzone che lui suona e canta con tanto sentimento. Mi manca, e passeggio per il parco dove salutavamo assieme le lucciole di notte, immaginando di trovarlo dietro ogni cespuglio, arrampicato su un albero, o sdraiato su un prato, con i capelli rossi al sole. “Nessun luogo è più inabitabile di uno in cui siamo stati felici”, mi scrive mia zia Mara, citando Pavese in risposta alle mie malinconiche lettere.

Forse il segreto di Yiddishland è questo: è un non-luogo, e in quanto tale può essere abitato ovunque, ce lo si porta dietro, come il guscio di una lumaca.

Foto di Paola Cazzaniga