Domande e risposte a settembre - 1
di Dario Culot
Angeli, dsegno di Rodafà Sosteno
1. In riferimento all’articolo di giugno in cui avevo scritto che l’uomo diventa grande soprattutto quando fa cose inutili, e che tutti restano stupiti e affascinati davanti a questo grandiose opere di per sé inutili, mi è stato obiettato che non sempre è così, perché non tutti e non sempre restano affascinati dalle cose belle ma inutili. Nella razza umana ci sono anche tanti buzzurri. È vero: non tutti hanno sensibilità uguali; però io credo fermamente che nella maggioranza degli esseri umani, nel loro intimo, quando vedono un uomo agire, si domandano sempre: per quale scopo? Normalmente ciascuno di noi, se lo scopo non è materiale, lo ammira. Se, invece, lo scopo è soltanto materiale lo si può anche ammirare, ma di meno; e a volte lo si disprezza.
Poi è anche vero che nel mondo c’è invidia in abbondanza, e soprattutto di fronte a una modifica innovativa notevole, che magari avrà clamoroso successo, molti hanno la tendenza a rifiutare la novità per partito preso; per abitudine si preferisce il vecchio, che ormai ben si conosce e non crea sorprese; oppure invidiano l’altro proprio per non aver avuto loro l’idea innovativa. Si racconta, ad es., di un critico musicale (di cui nessuno oggi ricorda più il nome) che parlava di assenza di melodia e di mero rumore nella musica scritta da un musicista che invece è tuttora famoso (Wagner, che ancora oggi consideriamo un grande compositore). Aggiungeva questo velenoso critico che, dopo tutto, non esiste una legge che proibisca di scrivere musica quando non si hanno idee, perciò il lavoro di quel compositore era “perfettamente legale”. Non risulta che Wagner abbia reagito. Si racconta invece che dopo una recensione negativa e velenosa Beethoven abbia così risposto: “Miserabile canaglia! Quello che io cago è meglio di quanto tu abbia pensato!” Questo chiarisce allora che, anche nel mondo dei grandi, alla fine non mancano colpi bassi e meschinità. È anche vero che il potere e il possedere continuano ancora oggi ad attrarre tante persone, assai più delle inutili opere immateriali, esattamente come ai tempi di Gesù.
Per questo, già nel passato, vari artisti avevano perfettamente capito che la natura umana è fondamentalmente egoista e violenta[1] e se ne infischia del buono, del bello e del giusto: il pittore Lorenzetti Ambrogio aveva messo al centro dell’allegoria del cattivo governo (nel palazzo pubblico di Siena) un tiranno circondato da una cricca di viziosi che si mettono sotto i piedi la giustizia. Michelangelo, nel giudizio universale della cappella Sistina, ha dato al diavolo il volto dell’allora potentissimo maestro di cerimonie di papa Paolo III (cardinal Biagio da Cesena, per noi, oggi, personaggio del tutto sconosciuto)[2]. A Sant’Agata dei Normanni, l’inferno disegnato sulle pareti della chiesa è pieno di teste incoronate.
Insomma, nei secoli è cambiata la tecnologia, ma nel suo profondo l’essere umano è rimasto sempre lo stesso. In effetti, tutti noi, oggi, dovremmo fare questo piccolo test quando desideriamo ardentemente possedere una cosa: “Riusciamo anche a disfarci tranquillamente di quella cosa?” Se uno non ci riesce, è evidente che è la cosa che lo possiede, e non viceversa. Quando poi è il denaro a possederci, nei vangeli prende il nome di mammona, non di diavolo. Eppure, stranamente, la Chiesa ha insistito molto di più sulla paura del diavolo che di mammona. Forse perché il denaro si è spesso impossessato anche della Chiesa.
2. Un amico, avendomi visto a messa, mi ha chiesto perché resto in piedi senza mettermi mai in ginocchio, perfino al momento della consacrazione. Secondo lui dimostro scarso rispetto.
Non credo proprio, perché nel cristianesimo il decisivo dovrebbe essere il modo di vivere, non la religiosità rituale di una cerimonia. Se leggiamo con attenzione i vangeli, vediamo che Gesù non si è mai sottomesso ai rituali, norme e osservanze (ad esempio al riposo del sabato, o in materia di cibo, o nella frequentazione dei peccatori, ecc.), ai quali invece si sottomettevano ossequiosamente i fedeli osservanti ebrei, sentendosi a posto se obbedivano con estrema cura a questi precetti. Gesù disdegnava i riti, perché la loro osservanza tranquillizzava (senza neanche accorgersene) la coscienza di chi li osservava, ma Gesù voleva ben altro dai suoi: non voleva che i suoi offrissero sacrifici o osservassero dei riti sacri; voleva invece che offrissero la loro vita ponendosi a disposizione degli altri con misericordia e bontà. Da notare che questa era un’impostazione innovativa e rivoluzionaria, perché si può dire che in tutte le religioni di allora l’adorazione di una divinità si faceva principalmente tramite i riti e i sacrifici.
Rammento in particolare che non siamo più servi, ma figli di Dio[3] (Gv 1, 12; Rm 8, 14) e amici di Gesù (Gv 15, 15). Ora, avete mai visto un figlio che s’inginocchia davanti a un padre e un amico che s’inginocchia davanti a un amico? E forse credete che gli apostoli abbiano preso il pane all’ultima cena dopo essersi confessati, stando rigorosamente in ginocchio in segno di rispetto, senza prenderlo con le mani,[4] senza osare toccarlo con i denti, e continuando a snocciolare quella litania del “non son degno”?
Perciò mi sembra che ricevere la comunione dopo un congruo periodo di digiuno, in ginocchio, in bocca, sciogliere l’ostia senza toccarla con i denti, sia un rito. Infatti, cosa è un rito? È un insieme di gesti, azioni, parole, strettamente stabilite da norme ben precise, che si devono adempiere così come viene comandato, affinché il rituale possa produrre l’effetto che deve produrre. Se non si osservano tutti i dettagli delle regole (non certamente stabilite da Gesù quando ha distribuito il pane e il vino) c’è qualcosa d’invalido: ma così il rito costituisce un fine in sé stesso[5] e prevale sul modo in cui dovremmo invece vivere lungo tutto l’arco della giornata.
E comunque c’è un’ulteriore osservazione tranciante: i rituali, per quante volte si ripetano e per quanta esattezza si metta in essi, non cambiano le persone, né le rendono più rette, più sincere, più trasparenti[6].
3. Un altro mi ha detto: i preti ci dicono che Dio è Amore al grado massimo, ma poi ci presentano questo Dio che si comporta peggio di un genitore al di sotto della norma, tanto da volere la morte del Figlio fra atroci sofferenze.
Gli ho risposto che ha ragione. È chiaro che se un Dio, che viene definito onnipotente, trova soddisfazione nella sofferenza altrui (non ci hanno insegnato che la sofferenza del Figlio ha placato la sua ira?), significa che non vuole la felicità degli uomini. Perciò interpretare la passione e morte di Gesù come il risultato di una decisione del Padre del cielo, che aveva bisogno della sofferenza del Figlio per rimediare alle offese fattegli dagli uomini peccatori, mostra un dio sadico, con uno smisurato senso di orgoglio, e impresentabile a qualunque persona di normale buon senso: quale padre normale vorrebbe la morte del figlio innocente, per di più con grandi sofferenze? Nessuno. Allora è scontato che, quando noi ci scopriamo migliori del dio al quale siamo invitati a credere, giustamente rifiutiamo quel dio che ci sembra nettamente inferiore a noi nella capacità di amare.
4. Un altro amico mi ha detto che non va a messa perché è stufo di doversi sentire sempre un impuro e indegno peccatore, di doversi umiliare con continue richieste di perdono, senza alla fine neanche sapere se viene perdonato. Nessun prete può infatti provare che siamo stati veramente perdonati da Dio.
Anche su questo punto devo dare ragione al mio amico: per tutti resta sempre il dubbio dell’effettivo perdono, perché esso continua a restare invisibile. Imbevuti come siamo del secolare insegnamento religioso basato più sul timor di Dio che sull’amore di Dio, non ci si riesce ancora a liberare da una sottile ansia: il dubbio di non aver veramente ottenuto il perdono per i nostri peccati nonostante la nostra richiesta. In effetti, come si fa ad essere sicuri che Dio ci ha veramente perdonati? Il magistero ci ha più volte detto che Dio è Amore, che Dio è Padre misericordioso, ma poi, al lato pratico, quando dobbiamo avvicinarci a Lui si vede a cosa crediamo veramente: “non son degno…perdonami di qui, perdonami di là…”. Se fossimo veramente convinti che Dio è Amore, saremmo anche convinti che il suo unico modo per rapportarsi con le persone è comunicare Amore, perché Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (Lc 6, 35), ci dice il Vangelo. Ma non ci crediamo, perché ci hanno sempre insegnato che Dio detesta i peccatori e li condanna, mentre premia solo i buoni e gli obbedienti. L’insegnamento è prevalso sul Vangelo.
La stessa ansia e incredulità esisteva ai tempi di Gesù. Lo stesso magistero, quando Gesù condona i peccati al paralitico, non crede a Gesù perché il perdono di Dio non si può vedere. Perciò pensano che Gesù stia bestemmiando. E allora Gesù sfida i sacerdoti dicendo: “cosa è più facile dire al paralitico: ti sono cancellati i peccati, oppure alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina?” (Mc 2, 9). Se quello si alza e cammina lo vedono tutti; se gli sono stati perdonati i peccati da Dio, non lo vede nessuno. Gesù, allora, fa alzare e camminare l’uomo, dimostrando di avergli comunicato nuova vita e dimostrando che Dio è dalla sua parte, e non sta col magistero infallibile e le sue dotte ma cupe dottrine. Dunque, obbedendo all’ordine di Gesù di alzarsi, cosa che tutti vedono, il paralitico smentisce la teoria del magistero: non è Gesù che bestemmia cancellando i peccati senza esserne richiesto, ma è la teologia imposta dalla religione che sta bestemmiando, quando pretende che, previo pentimento, ci si confessi a Dio, tramite i ministri che lui stesso avrebbe designato.
Analogamente nelle nozze di Cana viene ben espressa questa grande incertezza: gli uomini avevano bisogno di purificarsi in continuazione – le 6 giare con due o tre misure ciascuna (Gv 2, 6), cioè circa 600 litri,[7] una enormità di acqua – perché anche in allora non erano mai sicuri di meritare l’amore di Dio nonostante i propri sforzi. Quindi, il numero 6 che, come sappiamo, significa imperfezione piena, e il numero spropositato di litri d’acqua indicano che la religione ha deformato il volto di Dio, rendendolo inaccessibile per l’uomo che non può sentirsi mai a posto nei suoi confronti.
È cambiato qualcosa oggi? Direi di no. Come si è visto la settimana scorsa con l’Incarnazione, la religione vuole tenerci lontani da Dio. Quand’anche il prete, dopo la confessione, ci assicuri che Dio ha perdonato tutti i nostri peccati, come può dimostrarlo? Evidentemente neanche lui può farlo. Se – come dice la religione - l’unico che può perdonare i peccati è Dio (n.1441 Catechismo), mai si avrà la certezza del perdono senza una formale dichiarazione scritta od orale da parte di Dio. A maggior ragione quando l’immagine che abbiamo davanti è quella di un Dio che fa paura, che odia i peccatori, che se la lega al dito, vendicativo, facile all’ira e al castigo. Basta leggere la Bibbia per restare annichiliti: Gn 6, 7ss. diluvio; Es 32, 27-29 lo sterminio degli adoratori del vitello d’oro; Nm 11, 31-35 il castigo per aver desiderato di mangiare carne; Dt 28, 15-68 le tremende maledizioni nel caso di infedeltà del popolo; Es 31, 15 la morte per chi violava il sabato, Lv 20, 13-15 o per alcuni peccati sessuali.
Bisognerebbe allora fidarsi ciecamente della parola del prete sul fatto che Dio era, sì, offeso, ma ora non lo è più e ci ha perdonato; in poche parole si deve credere a scatola chiusa. Sennonché, in mancanza di segni visibili (come del resto hanno fatto con Gesù, davanti al paralitico perdonato), non siamo mai certi del perdono divino datoci attraverso il prete. E di questa incertezza troviamo ancora oggi piena conferma nella nostra liturgia della messa, dove c’è una continua richiesta di perdono che rasenta la “petulanza molesta” (copyright di Alberto Maggi).
Dubitate? Allora diamo un’occhiata alla liturgia della messa: dall’inizio alla fine del rito, si continua effettivamente a chiedere il perdono del Signore. All’iniziale atto penitenziale, dopo ripetute richieste al Signore di avere pietà di noi (Kyrie e Christe eléison), il celebrante dice: “Dio Padre onnipotente abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna”. Siamo stati a quel punto perdonati?
Probabilmente no, perché dopo il Gloria si recita: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo abbi pietà di noi”, Ovviamente questa è una frase che carica i fedeli di un gran senso di colpa, perché ci hanno insegnato che Gesù è morto per le colpe di noi tutti peccatori, quindi anche per i peccati che ciascuno di noi ha commesso. Comunque, siamo a questo punto finalmente perdonati?
Evidentemente non ancora, perché arriva il momento della consacrazione e il celebrante ricorda: “Questo è il mio sangue versato per voi e per tutti, in perdono dei peccati”.
Ma nell’incertezza che non riesce proprio ad andarsene è forse meglio chiedere ancora una volta il perdono, e al momento della recita il Padre nostro si supplica: “rimetti a noi i nostri debiti,” che vuol dire perdona i nostri peccati[8].
Alla fine il dubbio non è ancora del tutto sparito, ed appare sempre prudente umiliarci con un: “Non sono degno…” (art.1386 Catechismo). Tanto varrebbe che nella liturgia venisse ripetuta più volte anche la frase del mitico ragionier Fantozzi: “Sì, sono una merdaccia…” perché, pieni di peccati come siamo, anche se abbiamo ripetutamente implorato il perdono, non siamo mai del tutto sicuri che il Padreterno si sia veramente riconciliato con noi. Insomma, chi, se non la Chiesa, ci ha insegnato che siamo innanzitutto dei miseri peccatori? Chi ci ha instillato il dubbio che siamo rifiutati da Dio quando pecchiamo?
Ma se questo insegnamento fosse corretto, com’è possibile che Gesù, quando incontra un peccatore, non gli dica mai: “potrei anche perdonarti, ma prima devi andare a fare una settimana di ritiri spirituali, prima ti purifichi, prima fai penitenza, prima mi chiedi perdono, prima metti giudizio”? Invece gli dice semplicemente: “Dai! vieni con me, andiamo a pranzo insieme”? Quando Gesù incontra un peccatore va a pranzo con lui, cioè fa festa. Come mai? La religione non sa darci una risposta. Ma il rapporto che Gesù vuole che noi abbiamo con lui e con il Padre, è un rapporto di amicizia (Gv 15, 15). L’amicizia presuppone l’assenza di timore, presuppone una piena confidenza. E del resto come è possibile chiedere di amare un Essere (Dio) che ci fa paura? Impossibile! E proprio nell’amicizia, quando uno sbaglia o perfino offende l’amico, se l’amicizia è vera, cosa fa l’amico? Rompe l’amicizia e gira le spalle offesissimo? Attende che l’altro gli vada per primo a chiedere umilmente perdono strisciando in ginocchio, e poi si vedrà? No. Se è vera amicizia, l’iniziativa la prende proprio l’offeso, ed è lui che riallaccia il rapporto dimenticando presto l’offesa, e ovviamente anche senza richiedere e ricevere promesse o garanzie di non venir più offeso in futuro. Così la pensava anche san Paolo, il quale chiedeva che fosse la parte lesa a fare il primo passo, e non lasciare che il sole tramontasse sopra l’ira dell’offeso (Ef 4, 26). Il primo passo, dunque, lo fa il più forte, e sicuramente Dio è il più forte.
Perché il magistero ci ha insegnato che Dio-Amore fa diversamente? Perché ci presentano un dio che se la lega sempre al dito e non dimentica neanche la più piccola offesa? Gesù fa festa perché per il Padre il ritorno del figliol prodigo (impuro peccatore) richiede una festa. Così, secondo Gesù, si comporta Dio. Quando un peccatore solo accenna a ritornare al Padre anche senza essersi prima pentito, è il Padre che prende l’iniziativa e gli corre incontro perché non vede l’ora di restituirgli l’onore, la fiducia, la libertà e la dignità. In realtà noi non dobbiamo cercare Dio, dobbiamo solo accoglierlo. In At 8, 26-40, risulta evidente che il funzionario etiope è sì un religioso, ma del tutto insoddisfatto: è un eunuco, cioè incapace di diffondere vita attorno a sé (non biologicamente, ma teologicamente in senso spirituale), va in pellegrinaggio a Gerusalemme, legge senza capire Isaia, insomma sta cercando qualcosa che gli manca; ma Dio prende l’iniziativa e gli manda incontro Filippo, sì che il funzionario, finalmente appagato dalle spiegazioni di Filippo, potrà continuare il viaggio pieno di gioia. Nelle parabole della pecora perduta (Lc 15,3-7), o in quello della moneta perduta (Lc 15,8-10), risulta chiaro che l’iniziativa parte da Dio in persona: né la pecora, né la moneta stanno cercando il loro padrone, e Lui stesso parte alla ricerca di chi si è perduto, senza neanche aspettare un accenno dell’altro. «Chi di voi, se possiede cento pecore e ne perde una, non lascia le altre novantanove nel deserto per andare a cercare quella smarrita, finché non la ritrova»? (Lc 15, 4). Ovviamente nessuno di noi lo farebbe! Sarebbe un pazzo perché di sicuro rischierebbe di perdere l’intero gregge, lasciandolo incustodito, per salvare una sola pecora; ma Gesù sta dicendo che l’amore di Dio per ogni singolo uomo è talmente folle, che non calcola,[9] anzi è smisuratamente prodigo nel dare (come il seminatore della parabola, che butta i semi dappertutto, anche sulla strada e anche fra i rovi - Mc 4, 2-20). Dio è talmente interessato ad ogni singolo individuo, che trova sempre Lui il modo di muoversi per primo, e non gli volta mai le spalle offeso, aspettando di ricevere le scuse umilianti del peccatore; non rimprovera e non castiga la pecora che se n’è andata per le sue. Così avviene anche nella guarigione del paralitico alla piscina di Betesda (Gv 5, 6: «Gesù lo vide sdraiato» e prende l’iniziativa). Così avviene quando Gesù va a casa di Pietro e vedendo la suocera di Simone ammalata la guarisce (Mt 8, 14s.). Il Padre non sottopone il peccatore a rituali umilianti per riammetterlo al suo amore, non impone penitenze, ma dice solo: “ti amo”. Ecco perché nella parabola del figlio prodigo c’è questo accento, ripetuto tre volte, sul vitello, quello grasso, cioè quello che si adopera normalmente per onorare Dio, e che qui viene adoperato per onorare un peccatore[10] privo di ogni merito e mille volte impuro perché stava con i porci, i più impuri degli animali. Il giovane era andato per vivere alla grande in un paese pagano, lontano dal sacro suolo d’Israele, ma si era comportato senza un minimo discernimento. Però, una volta cancellati i peccati, l’uomo si vede sciolto dalla meschinità della sua storia precedente e può vivere il presente e il futuro non più con l’ossessione del peccato passato, bensì incoraggiato dallo Spirito nella sequela di Gesù e aspirando a raggiungere l’apice pieno della condizione umana, cioè la condizione divina di figlio adottivo di Dio. Non deve più vivere in un atteggiamento difensivo e timoroso a causa del suo passato, né accontentarsi di allontanarsi dal peccato; le antiche colpe sono definitivamente cancellate (Mc 2, 5) e definitivamente dimenticate (Eb 8, 12; 10, 17)[11]. Quindi nessun cristiano dovrebbe vivere ossessionato dal ricordo dei suoi peccati o errori, già dimenticati da Dio (Eb 10,17). Deve andare avanti fissandosi sul modello proposto da Gesù[12]. C’è sempre, per tutti, la possibilità di ricominciare un’altra volta. Questo è vero anche se la conversione avverrà all’ultimo giorno, all’ultimo minuto della sua vita (si pensi alla parabola della stessa mercede per tutti coloro che sono andati a lavorare nella vigna – Mt 20, 1-16). La stessa mercede significa che Dio non è un capo-contabile che si mette a contare per quanti minuti ognuno di noi ha collaborato al suo progetto; la salvezza è per tutti[13]. Invitando i peccatori a pranzo, Gesù dimostra che viene sempre data una nuova possibilità e che bisogna guardare al futuro e non al passato. Ce lo conferma perfino la dura Apocalisse: la lettera alla chiesa di Laodicea è forse la più dura delle sette lettere; eppure, anche questa finisce con una nota di speranza (Ap 2, 20: «Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui»), sì che, se anche gli gnostici semi-eretici di Laodicea possono ancora sperare, questo deve valere per tutti noi. Sembra che i musulmani sufi abbiano capito il messaggio di Gesù molto meglio di tanti cristiani duri e puri. “Vieni, sognatore, devoto, vagabondo, anche se hai infranto i tuoi voti mille volte” sono le parole del grande maestro sufi Rumi,[14] il quale aveva capito che in ogni cuore alberga un grande desiderio di accoglienza, e che Dio non respinge nessuno.
In conclusione, Gesù non sollecita mai nessuno a chiedere perdono a Dio perché Dio ci ha già perdonati di sua iniziativa[15]. Quindi, inutile continuare con questa litania a messa. Ma quanto ci vorrà per cambiare una liturgia che ben si spiega con quanto il magistero ci ha insegnato per secoli?
NOTE
[1] Il male che compiamo non è conseguenza della caduta, ma una manifestazione della nostra tendenza a metterci al primo posto, perché questo ha richiesto la nostra storia evolutiva: battaglie continue per sopravvivere. Ognuno di noi nasce già segnato dalla tendenza a possedere, a ricevere, a “succhiare” gli altri: basta vedere a come il neonato già s’impone ai genitori con barbara vitalità; è “un mafioso in erba” – come diceva non ricordo quale psicologo infantile – perché dopo tre giorni ha già capito come ricattare i genitori, o almeno il più debole dei due.
Poi, crescendo nel nostro mondo occidentale dove si sta abbastanza bene, ci dà fastidio pensare a coloro che soffrono. Egoisticamente pensiamo che la realtà siamo noi, e allora perché affaticarci se il mondo va bene (per noi) così com’è? È lo stesso discorso che facevano i sacerdoti ai tempi di Gesù, che vivevano bene anche sotto i romani. Purtroppo la realtà, che non vogliamo vedere, è di solito diversa. Il grave è che, proprio nel mondo occidentale prevalentemente cristiano, sembra che l’individualismo, che fa rima con egoismo, abbia preso il sopravvento in ogni aspetto della nostra vita.
[2] A dire il vero, il Vasari, nella Vita di Michelangelo, riferisce invece la storia di una più semplice ripicca: avendo il papa Paolo III chiesto cosa pensasse del Giudizio della cappella Sistina, il cardinale rispose essere cosa «disonestissima» che tanti nudi figurassero in un luogo sacro; Michelangelo si sarebbe risentito e per questo avrebbe raffigurato i tratti dello stesso cardinale nella figura di Minosse, giudice degli inferi, con orecchie d’asino e una coda che termina in un serpente che gli morde il sesso. Ma Minosse non veniva normalmente raffigurato così, e la figura sembra piuttosto quella di un diavolo. (Vasari G., Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, in www.digilander.libero.it/bepi/vasari).
[3] Benedetto XVI, udienza generale del 9.1.2013, in www.vatican.va, v. poi il percorso: /Sommi pontefici/ Benedetto XVI / Udienze: «Questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio» (cfr. nota n.460 Catechismo).
[4] Solo con la riforma liturgica del 1973 la Conferenza episcopale può ripristinare l’antica tradizione di ricevere la comunione sulla mano sinistra (l’ostia va presa e messa in bocca con la destra); l’ammissione è appena del 1989, ma i vescovi possono limitare la scelta fra ostia sulla mano e in bocca (“Famiglia Cristiana”, n. 25/2012, 11). Ma di nuovo, se uno invertisse la posizione delle mani, il rito sarebbe invalido?
[5] Lo spiega assai bene il teologo prof. Castillo: i riti sono azioni che, a causa del rigore che esigono nell’adempimento delle loro norme, concentrano l’attenzione del credente nell’osservanza spasmodica di queste norme, per cui l’esatto adempimento del rito finisce con l’essere il fine in sé stesso. E allora, succede che la realtà si ritorce contro l’osservante. Di modo che il “rito”, che è “ordine” (kósmos) si converte in “disordine” (cháos), perché tutto si trasforma e si inverte. Il “mezzo” (il rituale) si erge a “fine” (la condotta). Mentre la “condotta” resta subordinata o passa in seconda linea rispetto all’esatta osservanza del “rituale”. Per questo succede di frequente che ci sono persone molto religiose che danno maggiore importanza all’esatto adempimento del rituale della messa che al dovuto rispetto che si deve avere per le persone. Per questo stesso motivo nelle parrocchie e in molti luoghi di culto si mette più cura nell’ordine e decorazione delle tovaglie, degli altari, delle candele, che nella delicatezza e nell’attenzione verso gli esseri umani, soprattutto se si tratta di mendicanti, gente che puzza o che si presenta in modo da fornire un pretesto per non fidarsi di loro. (Castillo J.M., Teologia popolare, III – La fine di Gesù, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2025, 91s.).
[6] Idem, Teologia popolare cit., 92.
[7] Nell’ultima traduzione dei vangeli la misura, che in precedenza non ci diceva nulla, è stata trasformata in litri, misura che ben comprendiamo.
[8] Ravasi G., Il Padre Nostro di Luca, “Famiglia Cristiana”, n.7/2012, 121: in aramaico i peccati sono chiamati debiti nei confronti di Dio.
[9] Maggi A., Versetti pericolosi, ed. Fazi, Roma, 2011, 120.
[10] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 72.
[11] Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 266.
[12] Idem, 361.
[13] Tor C., C’è vita e vita, ed. EMI, Bologna, 2000, 34.
[14] Riportato da Bonanti G., Vieni, chiunque tu sia, “Fraternità di Romena”, n.2/2014, 10.
[15] Giovanni Battista, e più tardi Gesù, che ritenevano possibile il perdono di Dio fuori delle strutture del Tempio, erano certamente considerati dei sovversivi dall’istituzione gerarchica (Pagola J.A., Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 86).
Pubblicato il volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/