Statue, icone e noi ...dopo secoli di Controriforma
di Angelo Maddalena
Da qualche giorno vado a raccogliermi in una piccola chiesetta sul lago Trasimeno e nel silenzio osservo due statue di Gesù Crocifisso, una davanti l’altare, più piccola, e un’altra più grande, dietro l’altare, sul muro.
La prima ha il volto e il petto cosparso di gocce di sangue, una classica immagine di un Cristo patiens, cioè sofferente sulla croce. Nella seconda, che quasi riempie la parete dietro l’altare, il Cristo in croce è “puro”, cioè pulito, di un colore ocra, il volto quasi disteso, nessun segno di sofferenze visibile, né sangue né ferite sul corpo. Lo preferisco perché comunica una certa sofferenza ma senza eccesso, e una certa serenità. Altre statue o quadri alle pareti riportano una madonna adorante con in mano un crocifisso, un Santo in atteggiamento ieratico e un altro o altri due dipinti simili.
Poi su una panca della Chiesetta dove mi sono seduto, vedo un santino con una Madonna molto luminosa, con uno sfondo dorato e penso all’iconografia bizantina che ho avuto modo di scoprire in Calabria e poi in Siria. Ho scritto qualche osservazione al riguardo nel mio libro Eremo e laura, un sentiero laico rivolto a Oriente.
È strano però, mi è capitato molto raramente di vedere madonne così solari e radiose, di solito è più diffusa l’iconografia piangente, sofferente, in Occidente o forse soprattutto in certe parti del Sud Europa? Comincio a chiedermi quale potere abbia l’iconografia sul nostro animo, sul nostro modo di porgerci e di approcciarci a noi stessi, alla Divinità, agli altri. Quanto è importante conoscere i processi storici per capire la misura in cui noi (ancora?) risentiamo di decisioni prese decenni o addirittura secoli prima della nostra venuta al mondo?
Qualche mese fa, a Livorno, a casa di amici, ho conosciuto uno studioso di musica, il quale mi spiegò che per molti aspetti, noi siamo ancora “fermi” a quattro secoli fa, a livello spirituale e di concezione di certe forme di religiosità tradizionale. Penso al cardinale Martini che accusava la Chiesa cattolica di essere indietro di 200 anni! Ovviamente ci sono dei distinguo da fare, però mi viene da studiare l’origine di tutto ciò.
Qualche settimana fa ho preso in mano la tesi di laurea in teologia di Lillo Zarba, pittore e animatore sociale del mio paese, morto all’età di 35 anni per un ictus, nel 1998. Era per me e per tanti altri adolescenti miei compaesani una guida, un educatore, oltre che un poeta, era anche responsabile della pastorale giovanile per la diocesi di Piazza Armerina (non era molto libertario, sia chiaro, ma non era neanche moralista e tradizionalista: aveva dei riferimenti forti, se vogliamo era uno all’antica, un uomo tutto di un pezzo, se così può dirsi, ma non solo questo, è insufficiente il mio tentare di definirlo).
Nella sua tesi c’è scritto che nel periodo della Controriforma, cioè quando la Chiesa cattolica dovette ristabilire un certo “ordine”, dopo aver sconfitto i musulmani a Lepanto e per controbilanciare la Riforma di Lutero, convocò il Concilio di Trento, nel 1545, con Papa Paolo III. “L’irrigidimento anti-protestante, a difesa della verità di fede, generò un carattere marcatamente clericale”, scrive Lillo. Il culto dei Santi e della Madonna soprattutto, scrive Lillo, sconfinò fino a togliere spazio all’importanza dello Spirito Santo. Così come si rafforzò il devozionismo, le confraternite e i riti religiosi Pasquali in altri periodi dell’anno. Lillo Zarba sottolinea che questo avvenne soprattutto nel Sud Italia per influsso degli spagnoli e per convenienze tra poteri laici e religiosi.
Pochi anni fa sono stato in Calabria dove il rito bizantino è ancora vivo, compresa l’iconografia luminosa, raggiante, quasi ridente di molti crocifissi e altre figure di Madonne di Santi, sempre e comunque con sfondo dorato, mai piangenti, mai sofferenti. Ho scoperto che fino a pochi secoli fa il rito liturgico bizantino era molto più diffuso e che alla fine del 1400, se non ricordo male, un vescovo della Calabria limitò quasi fino a vietare il rito bizantino.
Probabilmente in quella temperie di tentativi di distinguersi da tendenze di apertura interpretate e giudicate eretiche, in ogni caso questa tendenza è masochistica perché, come nei periodi di guerra, i danni collaterali colpiscono le minoranze e la vivacità della diversità. Ancora oggi, una teologa di cui non ricordo il nome, su un numero di Rocca di un anno o al massimo due anni fa, scriveva che molte possibili innovazioni della Chiesa cattolica (matrimonio dei preti, sacerdozio femminile…) non avanzano anche per un “bisogno” di distinguersi e non confondersi con i valdesi, con gli anglicani e con gli ortodossi. Oltre che, per quanto riguarda il matrimonio dei preti, per motivi economici, cioè per mantenere unita l’eredità dei beni della Chiesa, ma forse sarebbe ora di condividerli questi beni, per lo meno con i laici, perché ciò che si condivide si moltiplica, è il Vangelo a insegnarlo: il passo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, secondo molti teologi e presbiteri, tra cui il già citato cardinale Martini, fu un “miracolo” di condivisone, cioè tutti misero nel paniere il poco che avevano e così il paniere si riempì a dismisura. Ci sono anche “testimonianze” laiche: per esempio un proverbio popolare rievocato da Danilo Dolci nel libro Comunicare, legge della vita. Bozza di manifesto e contributi: “La ricchezza è come il letame: se ammucchiata puzza, se sparsa fa concime” (citato in: Danilo Dolci, lo Stato, il popolo, l’intellettuale, di Antonio Fiscarelli, Castelvecchi, 2025).