«L’ira di Dio» contro la sempiterna maschilità di Cristo (1)
L’editoriale della scorsa domenica (qui) ha generato un putiferio. La visione di un Dio rigorosamente maschio postula, secondo – ahinoi – molti e molte, la necessità di una sua incarnazione non solo storicamente determinata nel genere maschile, ma presente come tale per tutta l’eternità. Ed il Cristo maschio diventa paradigma normativo, riferimento disciplinare, dell’intera ecclesiologia, grazie a Dio solo cattolica. Dio, appunto.
La prossima domenica presenteremo, alle 18, su Zoom (https://us02web.zoom.us/j/86597104628) il romanzo di Costanza DiQuattro intitolato “L’ira di Dio”. Ovviamente è necessario non rivelare qui alcunché, non scadere in alcuno spoiler, ma in quel volume, ambientato in Sicilia alla fine del Seicento, è una donna, che sa parlare solo il siciliano, a rivelare al parroco il vero volto di Dio. Stuoli di nobili, prelati e confratelli preti, invece, glielo nascondono.
Ed è proprio questa dinamica che ci interessa: la rivelazione affidata a una voce femminile, marginale, non omologata, che rompe il monopolio clericale e maschile della parola su Dio. La “sempiterna maschilità di Cristo” non è soltanto un errore teologico, ma una vera e propria idolatria: un Dio ridotto a genere, un Dio imprigionato in un corpo maschile eterno, che diventa strumento di potere e di esclusione. È la nuova eresia che abbiamo denunciato domenica scorsa, e che oggi si mostra in tutta la sua violenza simbolica.
Perché l’ira di Dio, evocata dal titolo del romanzo, non è la furia di un maschio offeso, ma la passione di un Dio che non sopporta di essere ridotto a icona patriarcale. È l’ira che smaschera la menzogna di chi pretende di custodire il mistero divino e invece lo traduce in disciplina, in diritto canonico, in esclusione delle donne dai ministeri. È l’ira che scardina la pretesa di eternizzare il genere maschile come condizione necessaria dell’incarnazione.
La donna siciliana del Seicento, che parla solo la sua lingua, diventa allora figura profetica: come Rut, come Maria di Magdala, come tutte le voci femminili che la tradizione ha relegato ai margini, ma che custodiscono la verità di Dio. Non è un caso che la rivelazione passi attraverso di lei: perché Dio non si lascia imprigionare nella grammatica del potere, ma si rivela nella fragilità, nella differenza, nella pluralità.
Ecco dunque la posta in gioco: non un dibattito accademico sulla cristologia, ma la lotta contro un paradigma che vuole eternizzare il maschio come misura del divino. L’ira di Dio è contro questa idolatria, contro questa riduzione. Ed è un’ira che non distrugge, ma libera: libera la Chiesa dalla sua ossessione disciplinare, libera la teologia dal suo patriarcalismo, libera la fede dalla sua prigione maschile.
Non è un caso che proprio mercoledì scorso, in Vaticano, Roberto Benigni abbia interpretato un monologo su Pietro: ancora una volta la scena è occupata da un apostolo maschio, simbolo di fondazione e di potere. Ma se davvero volessimo aprire le sbarre di questa gabbia, potremmo spingerci oltre: immaginare persino Pietro e Paolo al femminile. Non certo come assurda riscrittura biografica, bensì quale esercizio ecclesiologico, scandalo linguistico che rivela quanto poco il genere incida sulla sostanza della fede.
Basterebbe sostituire nei testi neotestamentari le declinazioni maschili con quelle femminili: nulla cambierebbe nella verità teologica, tutto cambierebbe nello sguardo di chi legge. Sarebbe un salutare terremoto per chi continua a interpretare i testi sacri in chiave fallocratica, come se l’annuncio del Risorto fosse proprietà esclusiva di corpi maschili.
In questo senso, Pietro e Paolo femminili diventerebbero figure ecclesiologiche dirompenti: non più garanti di un potere maschile, ma testimoni di una Chiesa che si fonda sulla pluralità, sulla differenza, sulla possibilità che il volto di Dio si riveli anche attraverso grammatiche e corpi che non corrispondono al modello patriarcale.
La provocazione non è un gioco di fantasia, ma un atto teologico: mostra che l’essenza della fede non dipende dal genere dei suoi testimoni, bensì dalla verità che essi annunciano. E se la verità è Cristo risorto, allora essa non può essere ridotta a “maschio eterno”, ma deve essere aperta a ogni corpo, a ogni voce, a ogni differenza.