Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano


I cardinali intelligenti e le suddiacone rabbine


di 

Stefano Sodaro

 

Editoriale non breve, ahimè, per questo numero. Ce ne scusiamo con lettrici e lettori. 

Ma la ricorrenza di domani, lunedì 13 marzo 2023, a dieci anni esatti dall’inedito Habemus Papam del 13 marzo 2013, con un Pontefice che scelse per sé il nome di Francesco, richiede, crediamo, una qualche maggior estensione argomentativa.

E, cercando comunque di venire subito al dunque, come si dice, probabilmente si può concordare sul fatto che il documento pontificio “Amoris Laetitia” (AL), del 2016, abbia costituito uno spartiacque, uno snodo, nella storia decennale dell’attuale pontificato.

Sia i critici più acerrimi – nonché le critiche più acerrime, al femminile – che estimatori ed estimatrici (a volte privi e prive del necessario distacco critico, va pur detto) hanno visto al n. 305 di AL addirittura un indebolimento della stessa rigidissima strutturazione dogmatica del matrimonio cattolico. Che cosa ha detto dunque Francesco in quel numero di AL? 

Ha affermato che un secondo matrimonio non sacramentale a seguito di divorzio può pur essere una opzione cristianamente – civilmente va da sé, è pacifico – percorribile.[1]

Ma vediamo di spiegarci meglio lasciando la parola ad un teologo, Aristide Fumagalli, che così scrive alle pp. 100 e 101 del suo volume L’amore in Amoris laetitia (San Paolo 2017), naturalmente sempre dal punto di vista cattolico: «La competenza della coscienza personale su ciò che è moralmente (im)possibile a proposito della separazione di due coniugi e della convivenza di due fedeli divorziati viene estesa in Amoris laetitia anche a riguardo della possibilità o meno di astenersi dall’intimità sessuale. (…) Estendendo la competenza della coscienza personale dei divorziati risposati al vivere o meno tamquam frater et soror, Amoris laetitia ammette che i fedeli divorziati risposati convivano more uxorio. Tale ammissione supera i limiti di carattere antropologico insiti nella richiesta incondizionata posta ai fedeli divorziati risposati di vivere tamquam frater et soror. Un primo limite è dato dal fatto che una relazione coniugale, per quanto caratterizzata dall’intimità sessuale, non si restringe a essa, ma innerva tutto il tessuto di coppia. Basta quindi l’astensione dai rapporti sessuali per ritenere che una relazione non sia più di tipo coniugale e non contraddica quindi il precedente matrimonio sacramentale? Se una relazione può essere già matrimoniale anche senza intimità sessuale, non diviene meno discriminante che vi siano o meno rapporti sessuali? Un altro limite appare sullo sfondo del rinnovamento contemporaneo dell’antropologia, fatto proprio e promosso dallo stesso Magistero cattolico, per il quale la persona è definibile come «totalità unificata di spirito e di corpo.» (…) Stante questa visione della persona umana, non risulta problematico legittimare la convivenza tra l’uomo e la donna divorziati risposati, esigendo che non vi sia espressione sessuale del loro amore personale?»

La svolta “francescana” avviene proprio qui: riconsegnando in buona sostanza il matrimonio alla sua franca dimensione pattizia, diciamo pure “contrattuale”, che è tipica – ad esempio – della concezione ebraica, attribuendo alla nozione di contratto, però, un valore, e non un disvalore, come invece è piuttosto tipico delle costruzioni teologico-morali e giuscanonistiche di molte visioni cattoliche sul matrimonio.[2]

Veniamo alla storia del nostro stesso settimanale.

Allo “Shabbat di tutti” di Miriam Camerini – curatrice della nostra rubrica “The Rabbi is in” e candidata al rabbinato nell’Ebraismo ortodosso – tutti e tutte possono partecipare, chi ne ha avuto esperienza lo sa: quella cena di accoglienza del Sabato non è “un premio per i perfetti”, bensì un’occasione festosa per il solo accorgersi che unica è la nostra vita comune e vitalmente necessario uno spazio dilatato in cui il tempo divenga convito e non urgenza o scadenza.

Da AL in poi, il magistero pontificio di Francesco avrebbe potuto continuare nella sua carica innovativa dentro la Chiesa Cattolica, eppure la proposta del Sinodo Speciale per l’Amazzonia dell’ottobre 2019 di ordinare presbiteri diaconi permanenti sposati non ottenne, invece, alcuna ricezione pontificia[3]. Come mai?

Forse proprio perché quel cerchio virtuoso che poteva ricondurre – dopo millenni – all’unione con radici e linfa dell’ebraismo non solo passato, bensì soprattutto vivente, non si è chiuso, è rimasto aperto, incompiuto. Ma non significa che un compimento - non ancora avvenuto - non sia all’orizzonte.

Vediamo di spiegarci ancora, se ci riusciamo.

Come potrebbe situarsi l’Ebraismo all’interno, e non all’esterno, dell’assetto istituzionale ecclesiale cattolico? E prima ancora: potrebbe davvero trovare una tale allocazione, “sistemazione”?

Afferma la Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo della Santa Sede: «Il dialogo tra ebrei e cristiani può essere definito solo per analogia “dialogo interreligioso”, ovvero dialogo tra due religioni intrinsecamente separate e differenti. Non si tratta infatti di due religioni aventi natura fondamentalmente diversa, che si sono sviluppate l’una indipendentemente dall’altra senza reciproca influenza.» (n. 15 del Documento «Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29)». Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di Nostra ætate (n. 4), http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/commissione-per-i-rapporti-religiosi-con-l-ebraismo/commissione-per-i-rapporti-religiosi-con-l-ebraismo-crre/documenti-della-commissione/_perche-i-doni-e-la-chiamata-di-dio-sono-irrevocabili--rm-11-29-.html.) E prosegue, ai nn. 36 e 37, con dichiarazioni che tramortiscono ogni paludamento antisemita pseudo-ecclesiale: «Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile. (…)[4]»

Fino a prescrivere esplicitamente ed in coerenza con quanto appena ribadito, al n. 40 del medesimo documento, che «la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei. Fermo restando questo rifiuto - per principio - di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah.»

È possibile, allora, sostenere che l’ordinamento religioso ebraico non sia così dissimile dall’ordinamento delle Chiese Orientali?

Andiamo ancora avanti.

Il Papa, al n. 220 di AL, riconosce che: “Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo, si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati.

Tuttavia questa “lunga tradizione”, non senza sorpresa, pochi anni dopo sparisce e nel documento Querida Amanzonia, pronunciamento autoritativo del medesimo Papa successivo al Sinodo Speciale del 2019 sull’Amazzonia, non se ne trova traccia, come si diceva.

I mondi religiosi a volte colpiscono per la loro specularità: come nella Chiesa Latina risulta obbligatorio il celibato per poter essere ordinati preti, così, tutt’al contrario, nell’Ebraismo risulta necessario il matrimonio per poter essere ordinati rabbini. Rabbini maschi però, attenzione. Perché l’obbligo della procreazione non riguarda, come Precetto assoluto, le donne. Ed infatti – sia permesso dire così – sono le eccezioni, tanto nel Cattolicesimo che nell’Ebraismo, a dare il senso autentico delle consuetudini che le tradizioni sanciscono in norme.

E le eccezioni, nei rigidi sistemi patriarcali maschilisti di pressoché tutte le religioni monoteiste, sono salutarmente apportate dalle donne, dalle loro storie, dalle loro opzioni, non certo dagli uomini.

Qui, proprio dentro il pontificato di Francesco, si è aperto uno spiraglio – od una falla, dipende dalle attitudini e dai punti di vista -. Dal gennaio 2021 i ministeri laicali, previsti dall’ordinamento giuridico cattolico latino, del lettorato e dell’accolitato sono aperti anche alle donne (cfr. https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-592/stefano-sodaro-suddiacone). E per disposizione risalente addirittura ad ormai più di cinquant’anni fa, gli accoliti – e dunque ora pure le accolite – possono essere anche chiamati “suddiaconi”, e pertanto pure “suddiacone”.

Quando allora il Papa – come nell’intervista a cura di Paolo Rodari soltanto dell’altro ieri, https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-03/papa-chiesa-non-casa-per-alcuni-per-tutti.html - riporta di essere solito chiedere consiglio “ad alcuni cardinali intelligenti”, ribadisce appunto la necessità di “intellìgere”, di saper scrutare e decifrare i segni dei tempi.

Se dunque accostiamo la capacità di interrogare chi sa “intellìgere” alll’ascolto discente verso le donne di Israele e delle Chiese cristiane, comprendiamo come l’appello continuo del vescovo di Roma, “venuto dalla fine del mondo”, alla pace e all’accoglienza (ben oltre la condanna degli scafisti, per capirci), riesca, in prospettiva, a saldare la teologia della liberazione latinoamericana, di cui Francesco è sicuro esponente – da papa, non da arcivescovo di Buenos Aires, né da Provinciale a suo tempo dei Gesuiti argentini -, alle istanze più acute presenti alle nostre latitudini.

È ciò di cui avvertiamo immenso bisogno. E di cui ci auguriamo – a differenza di molti e molte (tra parentesi, vi è sempre una strana tendenza a misconoscere o sottovalutare la fierissima opposizione a Francesco) – possa essere protagonista anche un papa ottuagenario o novantenne.



NOTE

[1] Rileggiamo il passaggio: “A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio.”. Per la dottrina cattolica, infatti, “peccato” è sia la rottura del vincolo matrimoniale per cause diverse dalla morte, sia, a maggior ragione, la costituzione di un nuovo matrimonio successivo al primo.

[2] Ma la nota la nota 351 di AL, commentando quali possano essere i “percorsi di santificazione che danno gloria a Dio” in un’unione successiva al divorzio, aggiunge perfino qualcosa di più: “In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039).

[3] Riportiamo l’intero n. 111 del Documento Finale del Sinodo Speciale sull’Amazzonia, del 26 ottobre 2019: “Molte delle comunità ecclesiali del territorio amazzonico hanno enormi difficoltà di accesso all’Eucaristia. A volte trascorrono non solo mesi, ma addirittura diversi anni prima che un sacerdote possa tornare in una comunità per celebrare l'Eucaristia, offrire il sacramento della Riconciliazione o celebrare l’Unzione degli Infermi per i malati della comunità. Apprezziamo il celibato come dono di Dio (cfr. Sacerdotalis Caelibatus, 1) nella misura in cui questo dono permette al discepolo missionario, ordinato al presbiterato, di dedicarsi pienamente al servizio del Santo Popolo di Dio. Esso stimola la carità pastorale e preghiamo che ci siano molte vocazioni che vivono il sacerdozio celibatario. Sappiamo che questa disciplina “non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio” (PO 16), sebbene vi sia per molte ragioni un rapporto di convenienza con esso. Nella sua enciclica sul celibato sacerdotale, san Paolo VI ha mantenuto questa legge, esponendo le motivazioni teologiche, spirituali e pastorali che la motivano. Nel 1992, l’esortazione post-sinodale di san Giovanni Paolo II sulla formazione sacerdotale ha confermato questa tradizione nella Chiesa latina (PDV 29). Considerando che la legittima diversità non nuoce alla comunione e all'unità della Chiesa, ma la manifesta e ne è al servizio (cfr. LG 13; OE 6), come testimonia la pluralità dei riti e delle discipline esistenti, proponiamo che, nel quadro di Lumen gentium 26,  l’autorità competente stabilisca criteri e disposizioni per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, i quali, pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile, abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica. A questo proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento.”

Decodifichiamo le sigle: “PO” e “OE” stanno per i documenti del Vaticano II rispettivamente intitolati “Presbyterorum Ordinis” e “Orientalium Ecclesiarum”, “LG” per la Costituzione dogmatica sulla Chiesa – sempre del Vaticano II – “Lumen Gentium”, e “PDV” per il documento di Giovanni Paolo II “Pastores dabo vobis”.

Che cosa dice a sua volta Lumen Gentium 26, espressamente richiamata dai Padri Sinodali del 2019? Riproduciamone, anche in tal caso, il testo: “Il vescovo, insignito della pienezza del sacramento dell’ordine, è «l’economo della grazia del supremo sacerdozio» specialmente nell’eucaristia, che offre egli stesso o fa offrire e della quale la Chiesa continuamente vive e cresce. Questa Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali, unite ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, ciascuna nel proprio territorio, il popolo nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo e in una grande fiducia (cfr. 1 Ts 1,5). In esse con la predicazione del Vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena del Signore, «affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore siano strettamente uniti tutti i fratelli della comunità». In ogni comunità che partecipa all'altare, sotto la sacra presidenza del Vescovo viene offerto il simbolo di quella carità e «unità del corpo mistico, senza la quale non può esserci salvezza». In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Infatti «la partecipazione del corpo e del sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che riceviamo».

Ogni legittima celebrazione dell'eucaristia è diretta dal vescovo, al quale è demandato il compito di prestare e regolare il culto della religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del Signore e le leggi della Chiesa, dal suo particolare giudizio ulteriormente determinante per la propria diocesi. In questo modo i vescovi, con la preghiera e il lavoro per il popolo, in varie forme effondono abbondantemente la pienezza della santità di Cristo. Col ministero della parola comunicano la forza di Dio per la salvezza dei credenti (cfr. Rm 1,16), e con i sacramenti, dei quali con la loro autorità organizzano la regolare e fruttuosa distribuzione santificano i fedeli. Regolano l’amministrazione del battesimo, col quale è concesso partecipare al regale sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari della confermazione, dispensatori degli ordini sacri e moderatori della disciplina penitenziale, e con sollecitudine esortano e istruiscono le loro popolazioni, affinché nella liturgia e specialmente nel santo sacrificio della messa compiano la loro parte con fede e devozione. Devono, infine, coll’esempio della loro vita aiutare quelli a cui presiedono, serbando i loro costumi immuni da ogni male, e per quanto possono, con l’aiuto di Dio mutandoli in bene, onde possano, insieme col gregge loro affidato, giungere alla vita eterna.” Per la Diocesi di Trieste - ove ha sede il nostro settimanale -, che è prossima alla venuta del nuovo Vescovo, Enrico Trevisi, sono parole particolarmente impegnative.

[4] Ed ancora: «Un altro punto focale per i cattolici deve continuare ad essere l’assai complessa questione teologica di come conciliare in maniera coerente la fede cristiana nel ruolo salvifico universale di Gesù Cristo con la convinzione di fede altrettanto chiara che afferma l’esistenza di un’alleanza mai revocata di Dio con Israele. La Chiesa crede che Cristo è il Salvatore di tutti. Non possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché Cristo è il redentore degli ebrei oltre che dei gentili. Qui ci troviamo davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in causa sforzi missionari volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa che il Signore realizzi l’ora in cui tutti saremo uniti (…).»