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Rondine sotto il tetto della Casa di Rodafà - Trieste, Via La Marmora 34 - foto del direttore

11 luglio, San Benedetto, la rondine è davvero sotto il tetto

di Stefano Sodaro

La febbrile, agitatissima, a tratti persino scomposta, discussione attorno al cosiddetto “disegno di legge Zan” rischia di radicalizzare a tal punto la contrapposizione etico-politica da far regredire la dialettica democratica ad una sorta di guerra di religione, in cui ciascuno degli avversari – se non veri e propri nemici – si riconosce perché contro coloro a cui favore milita il rivale.

Infatti obiettivo della demolizione del citato disegno di legge, o almeno della sua complessiva ridiscussione sino anche alla necessità di adottarlo, non pare essere tanto la libertà di espressione – tutelata dall’art. 21 della nostra Costituzione –, quanto piuttosto (e si dovrebbe avere il coraggio di riconoscerlo) la necessità giuridica di perseguire i fenomeni di omotransfobia come fatti di estrema gravità, tali da minare la costruzione stessa dei valori di convivenza di uno Stato laico.

Dentro simile contesto, risulta di particolare interesse la sottolineatura unilaterale che è stata data del contenuto della Lettera del Consiglio di Presidenza del CTI (Coordinamento Teologhe Italiane), senza considerarne un passaggio centrale ed identificativo.

Vediamo un po’.

La Lettera (https://www.teologhe.org/wp-content/uploads/2021/07/a-proposito-del-ddl-Zan.pdf) afferma, nella conclusione, che è stata per appunto l’unica parte sostanzialmente enfatizzata: «Così, con la consapevolezza della complessità della questione e nell’avvertenza di alcune carenze linguistiche e simboliche dei discorsi in gioco, condividiamo la lettera del Progetto Gionata che chiede l’approvazione del decreto, lasciando a ciascuna socia e a ciascun socio la decisione di sottoscriverla.»

La Lettera aperta del Progetto Gionata alle Senatrici ed ai Senatori della Repubblica Italiana del Progetto Gionata è rinvenibile qui: https://www.gionata.org/perche-chiediamo-di-approvare-senza-modifiche-il-ddl-zan-contro-lomotransfobia/.

E tuttavia la Lettera del Consiglio di Presidenza del CTI, prima della riportata conclusione, contiene un passaggio, fondamentale ed imprescindibile, che non pare essere stato considerato da nessun commento pubblico: «(…) ci permettiamo anche di muovere alcune critiche al linguaggio che la proposta di legge ha assunto: è un linguaggio problematico per come usa le categorie di sesso e di genere e per l’antropologia sottesa al testo, che tende a separare, anziché a distinguere, il piano dell’esperienza corporea sessuata da quella più propriamente interpretativa. È come se non si riuscisse a cogliere che l’esperienza corporea è già fin dall’inizio psichica e che l’esperienza interpretativa, personale e sociale insieme, è fin dall’inizio in qualche modo radicata nei corpi. Dovremmo sapere – le donne solitamente lo sanno – che la differenza sessuale è il segno della finitezza di ogni vita che viene al mondo, e che questa differenza è al contempo biologica, psichica, simbolica e sociale e che con tutti questi tratti essa si fa storia. Invece ancora non lo abbiamo capito. È dunque questo lavoro ermeneutico a essere urgente e dovremmo iniziare a farlo nelle scuole, nelle nostre catechesi, nelle nostre famiglie. L’omotransfobia si evita così, con un’educazione alle differenze.

Nel frattempo, mentre questa cultura delle differenze è affaticata o impedita da mille ostacoli, non c’è dubbio che ogni resistenza frontale a questa proposta di legge a firma Zan si riveli da sé come una forma di inospitalità verso le vite. Per questo, essa non può che risuonare antievangelica.»

Che l’esperienza corporea sia già fin dall’inizio psichica e che l’esperienza interpretativa, personale e sociale insieme, sia fin dall’inizio in qualche modo radicata nei corpi è limpida enunciazione di laicità, di un consenso sociale e culturale cioè che si struttura e sviluppa sull’et et e non sull’aut aut, sulla com-prensione dei piani e non sulla contrapposizione ideologicamente armata che reseca, amputa spazi della vita concreta.

E riecheggia, addirittura, il celeberrimo motto del fondatore del monachesimo occidentale – Benedetto da Norcia, la cui festa si celebra proprio oggi, 11 luglio – con il suo “ora et labora”.

Ora” quale esperienza in senso lato psichica, ma non soltanto; “labora” quale esperienza in senso lato fisica, ma non soltanto.

“Pregare” e “lavorare”, o forse meglio “pregare” e “affaticarsi”, come intrico di dimensioni in cui ciò che siamo non può astrarre dalla nostra concretissima corporeità, fisicità, tattilità, sperimentabilità, epperò neppure può schiacciarsi sul perimetro della carne e basta, neppure può ignorare la necessità dell’interpretazione di ciò che davvero siamo, noi per noi, noi per gli altri, gli altri – e le altre – per noi.

La pastorale degli orientamenti di genere (denominazione che è una semplificazione, certo; ammettiamo e non concediamo che simile pastorale esista e/o possa esistere, dal momento che tutti e tutte abbiamo un orientamento di genere, non sovrapponibile al solo orientamento affettivo od alla propria identità psicosessuale) sembra particolarmente frequentata dai Gesuiti. Possono forse essere definiti i Benedettini dei nostri giorni? Ed i Benedettini di sempre possono forse aiutare a comprendere chi siano i Gesuiti? Anche qui ammettiamolo e non concediamolo, ma proviamo a dire.

The Jewish News of Northern California riporta questa notizia: https://www.jweekly.com/2019/07/23/gay-rabbi-is-catholic-university-of-san-franciscos-first-rabbi-in-residence/.

Nella Università di San Francisco, istituzione della Compagnia di Gesù (https://www.usfca.edu/about-usf/who-we-are/jesuit-catholic), è stata assunta, quasi esattamente un anno fa, una donna rabbina, Camille Shira Angel, come prima “rabbi-in-residence” di quella stessa università.

Peraltro la presenza di un, o una, “rabbi-in-residence” è realtà viva presso alcune diocesi della Chiesa Episcopale; si veda ad esempio: https://www.anglicannews.org/news/2016/07/rabbi-in-residence-for-new-england-cathedral.aspx e https://www.episdionc.org/es/blog/the-diocese-welcomes-rabbi-raachel-jurovics-as-diocesan-rabbi-in-residence/.

Camilla Shira Angel fa esplicito riferimento alla teologia queer. Riportiamo un passaggio della notizia rinvenibile al link di cui sopra: «“I have fallen in love with Judaism all over again. I have the opportunity to share its genius, creativity and ability to adapt and be strategic,” Angel says. “I also get to show my students how we ask the hardest questions about issues where the tradition doesn’t fit and how we authentically respond with our values.” USF is Jesuit, an order of Catholicism rooted in St. Ignatius’ values of common good and service to the poor, but there is a diversity of religious beliefs on campus. Angel seeks to “bring an intergenerational gift” of LGBTQ Jewish knowledge into the classroom and ministry. “I feel that my congregation is without walls. Everyone needs a rabbi, and you don’t have to be Jewish.” Angel said she hopes her position at a Jesuit university will shift perceptions about who represents and tells the story of Judaism.»

Per tornare alle nostre vicende legislative, si impone una scelta: stare dalle parte delle vittime od optare per il vittimismo.

“Vittimismo” che, beninteso, è una nobile attitudine pseudo o para-culturale, parente dell’antagonismo, ma in grado di bloccare, paralizzare, ogni approfondimento critico, ogni elaborazione, superamento, messa in discussione anche di asseriti “valori non negoziabili” per vedere, semplicemente, di cosa si tratti.

Del resto il nostro stesso “Sé” avverte una fortissima esigenza di vittimizzarsi, lamentando soprusi e sopraffazioni che spesso sono riconducibili alla sola, nuda, esigenza di rintuzzare quell’Io enorme divenuto parametro di ogni norma e presunta libertà.

Ognuno, ognuna, ha bisogno di un rabbi – dice Camilla Shira Angel – e non è che tu debba essere Ebreo od Ebrea.

È appunto la demolizione non degli argini alla violenza, ma delle cause stesse e più profonde della violenza, di cui magari neppure ci accorgiamo ritenendo anzi di essere censori di ogni ingiustizia: il non ritenersi in dipendenza da nessuno, nessuna, ed il pensare che l’appartenenza sia criterio decisivo di identità e progresso.

Everyone needs a rabbi sembra rinvio al tema del “Maestro interiore”, per cui provò struggimento anche Agostino d’Ippona.

Un tempo la festa di San Benedetto ricorreva il 21 marzo, al primo affacciarsi della primavera. Ora è stata fissata all’11 luglio, ma le rondini cantano garriscono sempre sotto il tetto, più belle che mai.

Sorridere a chi ama è molto meglio che essere arcigni verso la complessità delle nostre vite, tutte. Fa molto più bene.

Buona domenica.