The Rabbi is in


Sulla luna


di Miriam Camerini

C’è una melodia di Lecha Dodi, “andiamo amato”, pyut, composizione poetico-liturgica che si canta per accogliere lo Shabbat che non mi esce più dalla testa e dalle orecchie. La conoscevo già, ma l’ho sentita come fosse la prima volta due settimane fa, la sera del Sabato che era anche vigilia di Natale, a Gerusalemme in una delle sinagoghe più musicali e spirituali del quartiere in cui vivo quando sono qui, Katamon. Il testo, scritto a Safed da un cabalista nel ‘500, ha conosciuto nei secoli decine, forse anche centinaia di melodie diverse trovate, inventate e adattate per accompagnarlo nel canto. La tradizione continua e la melodia che mi segue in questi giorni è recente, composta dal rabbino fondatore della comunità di Katamon, Rav Rosen, scomparso una dozzina di anni fa. È una di tante, bella, ma non più di moltissime altre, e però in questi giorni è proprio “la mia”. Venerdì scorso toccava a me condurre la funzione della sera, accogliere lo Shabbat in un’altra sinagoga, poco distante, fra le poche che concedono questa responsabilità anche alle donne. Volevo usare quella melodia: l’ho ascoltata su youtube tutto il pomeriggio, ho chiesto a mia madre che era con me di impararla anche lei per potermela sussurrare se – nell’emozione del momento – non me la fossi ricordata in sinagoga. Sono uscita molto presto per essere fra le prime ad arrivare, ho camminato in un piccolo boschetto (chiamato ironicamente foresta della luna perché molto spoglio) che collega casa mia alla sinagoga, e mentre camminavo fra gli alberi e le rocce “lunari”, ho pensato che, essendo anche l’ultimo giorno dell’anno solare, una piccola parte della liturgia, a mo’ di “scherzo”, avrei potuto adattarla al canto scozzese di fine anno Auld Lang Syne, tanto caro al mondo anglofono cui la maggior parte delle persone nella mia sinagoga appartiene.

Emersa dal boschetto, nuovamente sulla strada, mi sono resa conto che avevo scordato lì la melodia: il mio Lecha Dodì era rimasto sulla luna! Senza tempo da perdere, mi sono guardata attorno in cerca di una soluzione: naturalmente avrei potuto decidere di ripiegare su una qualsiasi altra melodia fra le decine che so a memoria e tenere l’amata per una prossima occasione, ma prima di cedere qualche tentativo lo volevo fare comunque; al posto di un ippogrifo ho visto nei paraggi una grossa auto famigliare: l’Astolfo che la stava parcheggiando davanti a casa era un ragazzino non più che diciottenne, impegnato con una mano a mano-vrare e con l’altra a scrivere messaggi su whatsapp. Io ero uscita senza telefono perché di lì a poco sarebbe entrato lo Shabbat, in cui non si può usare alcun dispositivo elettronico.

In quel momento liminale, però, il sole ancora non era tramontato, il Sabato stava sulla soglia, ma – ancora per poco – era pur sempre venerdì e il ragazzo stava infatti portando a casa l’auto, parcheggiandola, salutando gli ultimi amici prima della giornata intera e completa di quiete e silenzio.

Silenzio e quiete e tramonto rosa in effetti stavano calando rapidi su Gerusalemme e la frenesia degli ultimi preparativi lasciava di minuto in minuto spazio e tempo al giorno di sosta: Shabbat.

Mi sono avvicinata all’auto e al ragazzo che in essa era seduto e gli ho detto tutto d’un fiato come faccio di solito in queste circostanze: “Ciao, scusa, sto andando a Shira Chadasha” (cantica nuova, letteralmente: il nome della mia sinagoga e l’uso del femminile nel nome non è casuale) “e devo condurre io la funzione, ma ho dimenticato la melodia che volevo usare e non ho già più con me il cellulare, ovviamente: possiamo un attimo andare su youtube dal tuo?”

Il ragazzo era tutto felice, ha smesso un attimo di chattare e senza scomporsi ha detto qualcosa come: “Certo, la prendo come la mia missione di oggi” e si è messo su youtube a cercare il “mio” Lecha Dodì. Siamo rimasti lì qualche minuto, nel silenzio che cresceva, due sconosciuti con 20 anni di distanza, seduto in auto il giovane, in piedi fuori l’anziana (che in questo insolito caso sarei io), ad ascoltare una musica bellissima e canticchiarla a occhi chiusi via via che tornava. Quando l’ho avuta abbastanza salda in mente, l’ho salutato e ringraziato, augurato Shabbat Shalom e lui ha continuato a stare lì con il telefono in mano e ascoltare. Io mi sono incamminata verso Shira Chadasha: un caro amico sfrecciava in quel momento con l’auto per raggiungere casa di suo padre negli ultimissimi minuti in cui gli era consentito guidare: ha fatto per inchiodare, ma la moglie gli ha gridato: “Quasi Shabbat!” ci siamo salutati con la mano finché è scomparso all’orizzonte.

Sono entrata, alcuni amici e amiche erano venuti apposta per cantare assieme a me, mia mamma anche è arrivata al momento giusto, il mio compagno di studi alla yeshiva, tenore professionista, stava saldamente accanto a me, ancorché dall’altra parte della tenda che separa uomini e donne, acusticamente ben distinguibile e pronto a suggerire.

Ho iniziato, cantato tante altre melodie, niggunim, salmi vari, il Lecha Dodì italiano che ovviamente lì non conosce nessuno… Giunta al momento di ricordare la misteriosa melodia nuova mi sono accorta che era ancora una volta volata sulla luna, tornata lì dove non la potevo più acchiappare per il momento. Né mia madre, né gli amici se la ricordavano: era tornata lì per tutti.

Il mio amico cantante mi ha rapidamente soccorsa suggerendone un’altra, e così è stato: un bellissimo altro Lechà Dodì è sorto quasi spontaneamente dal momento e nel momento, ma il “mio amato” aveva deciso di non farsi trovare e così ha fatto, giocando a comparire e scomparire fino all’ultimo. Ancora una volta ho sentito che Shabbat è il tempo in cui non decidiamo noi, ed è questo che lo rende tanto necessario.


Foto di Paola Cazzaniga