Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

I martiri della UCA - foto del 14 novembre 2013 di Johan Bergström-Allen - Archbishop Romero Trust, tratta da commons.wikimedia.org

16 novembre 1989, il contratto di Elba Ramos


di Stefano Sodaro

Martedì prossimo, dopodomani, il 16 novembre, ricorreranno trentadue anni dalla strage dei cinque padri gesuiti e delle due donne, madre e figlia, che lavoravano nella Universidad Centroamerica “José Simeon Cañas” (nota come “UCA”) di San Salvador. Si chiamavano Ignacio Ellacuría, Ignacio Martin Baro, Segundo Montes, Amando Lopez, Juan Ramon Moreno, Joaquin Lopez, Elba Julia Ramos e la quindicenne Celina Mariceth Ramos.

I primi cinque insegnavano all’Università, la sesta era la cuoca della comunità. Furono assassinati ed assassinate assieme. La responsabilità di alti graduati dell’esercito salvadoregno del tempo è stata accertata soltanto poco più di un anno fa dalla giustizia penale spagnola (si veda, ad esempio, https://ilmanifesto.it/trentuno-anni-dopo-montano-deve-pagare/).

Alla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo, precisamente nel 1989 - nove anni dopo l’omicidio di mons. Romero -, l’emozione dell’eccidio fu enorme. Nonostante gli immediati tentativi di depistare l’attribuzione della strage dagli squadroni della morte alla guerriglia, fu a tutti evidente che si era inteso colpire, in nome dell’anticomunismo, una delle personalità più coinvolte nell’elaborazione della teologia della liberazione – padre Ellacuría -, sterminando contemporaneamente chiunque si accompagnasse al cammino della Compagnia di Gesù in America Centrale.

“Haga Patria, mata a un cura”, o “Sé patriota, mata a un cura”, cioè “Sii patriota, ammazza un prete”: era l’incredibile invito ad uccidere in difesa di presunti valori patriottici, identitari, persino religiosi, che cementassero la solidità del potere statale intorno al nazionalismo cattolico anti-cristiano, di mussoliniana memoria.

Era, appunto, il trionfo orrorifico del neofascismo latinoamericano che già aveva generato le dittature di Videla e Pinochet, tanto per citare nomi celeberrimi. E che in Italia assunse, senza derivazioni dal Sud America, le colorazioni del terrorismo eversivo di destra.

Tanta fu la commozione quanto fu malcelato l’imbarazzo delle gerarchie cattoliche che non sopportavano – e probabilmente tuttora non sopportano – una teologia divenuta vita concreta e condivisa a partire dall’opzione preferenziale dei poveri, alla scuola del Concilio e della conferenza di Medellin del 1968. Seguita poi da quella di Puebla del 1979, alla cui inaugurazione partecipò Giovanni Paolo II tenendo un discorso che suscitò molte perplessità (https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1979/january/documents/hf_jp-ii_spe_19790128_messico-puebla-episc-latam.html).

C’è, però, un aspetto molto particolare della vicenda, che è rimasto del tutto residuale, anzi non pare nemmeno considerato nelle diverse ricostruzioni ed analisi: vale a dire la dignità e l’apprezzamento dell’impegno professionale della Signora Ramos quale cuoca da parte della Comunità dei Padri Gesuiti. Non era un’assunzione di lavoro – come si dice – “in nero”; e non era neppure un’attività svolta da Elba Julia a titolo di volontariato e dunque senza retribuzione. No. Era la specifica e precisa definizione di un contratto, valido a norma di diritto civile, e proprio tale contratto rendeva possibile la stessa presenza della cuoca in quel luogo di formazione accademica ed il medesimo contratto, in qualche modo, aveva unito nella morte violenta quella donna, e sua figlia, ai cinque preti professori. Oggi, trentadue anni dopo, non è difficile immaginare – attualizzando la vicenda con una suggestione probabilmente non consentita, ma efficace per far capire – un inserimento professionale di una teologa, oltre che di una cuoca, accanto ai colleghi maschi.

La stipula di un rapporto contrattuale di lavoro, di impiego, di impegno porta a conseguenze ben ulteriori rispetto al mero assetto giuridico.

La professionalizzazione, dentro il laico contesto della disciplina di un rapporto di lavoro o di collaborazione in cucina, era divenuta il modo effettivo, concreto, reale, con cui partecipare, intensamente, all’intera vicenda della teologia della liberazione, rovente in quegli anni.

Parte non secondaria del mondo cattolico soffre spesso di un complesso di superiorità o di una sindrome di indifferenza nei confronti degli strumenti della legge civile, temendo quasi che un contratto, secondo il codice civile e non secondo il codice di diritto canonico, possa invalidare l’investimento emotivo che si ritiene debba invece accompagnarsi ad un coinvolgimento lavorativo negli ambienti e negli ambiti confessionali. Invece è vero esattamente il contrario. Le figure delle e degli assistenti pastorali in zone geografiche diverse dall’Italia attestano di una professionalità propria degli operatori pastorali, disciplinata con forme giuridiche apposite, che non va a detrimento alcuno della loro dedizione appassionata alla vita della comunità in cui lavorano. Anzi.

Da un contratto di lavoro – evidentemente con diritto ad usufruire dell’alloggio presso l’università – della Signora Ramos è derivata la partecipazione di due donne al martirio della UCA. David Maria Turoldo celebrò la Pasqua di morte della quindicenne Celina con una composizione poetica di struggente bellezza (cfr. https://www.santalessandro.org/2019/11/28/farsi-carico-della-realta-farsi-carico-del-vangelo-il-martirio-dei-sei-gesuiti-a-san-salvador/).

Lo si annotava qualche settimana fa, anche il matrimonio è un contratto. E forse, capovolgendo l’approccio, ogni contratto ha, per così dire, una dimensione “matrimoniale”. Nel senso che l’assunzione di rispettivi diritti ed obblighi, pur necessaria, non si rivela sufficiente al perfezionamento dell’oggetto contrattuale, sembra essenziale qualcosa d’altro, che fuoriesce dalla disciplina giuridica e che afferisce, piuttosto, all’interiorità personale ed inviolabile di ciascuno e ciascuna.

Sia permessa una divagazione personale: con i miei nipoti, di 5 e 8 anni, faccio spesso un gioco che li diverte moltissimo. Dico loro: “Questa mattina ho comprato due giornali, la signora dell’edicola me li ha dati e io ho dato a lei 3 euro. Vuol dire che siamo sposati!”. La loro risata, che non è di stretta approvazione ma nemmeno di netta presa di distanza da un’apparente assurdità, quasi ratifica quel “residuo”, quell’eccedenza, quell’altro che compare in ogni dipanarsi di relazioni intersoggettive.

Il percorso di approfondimento si complica e forse anche annoia, ma sarebbe bello dopodomani celebrare l’eucarestia in memoria di una cuoca e di sua figlia, ricordando il suo impegno professionale e la sua dedizione, proprio in forza di tale impegno, alla causa di quella teologia della liberazione che i cinque padri non semplicemente insegnavano, bensì praticavano in terra di El Salvador.

Una delle tante storie di Chiesa, su cui rifletteremo giovedì prossimo, 18 novembre 2021, con inizio alle ore 18:30, sulla piattaforma Zoom, presentando il libro di Carlo Pertusati 50 piccole storie di Chiese divise in cerca di unità, assieme alla teologa Paola Franchina, la cui rubrica Bar Marion abbiamo il piacere di ospitare ogni settimana. La partecipazione è libera, basta chiedere le credenziali per il collegamento Zoom a: casa.alta@virgilio.it, come riportato nella locandina riprodotta nella home page di questo numero del nostro settimanale.

Vi aspettiamo.

Buona domenica.