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Guarigione del cieco nato - Gioacchino Assereto, 1640, Carnegie Museum of Art, Pittsburgh, USA - immagine tratta da commons.wikimedia.org


Lotta alla sofferenza



di Dario Culot



Nel n. 553 del 2020 avevo già scritto un articolo sulla sofferenza (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20202/numero-553---19-aprile-2020/sofferenza). Oggi torno sull’argomento perché mi sembra che questo sia un tema di assoluto rilievo nel cristianesimo, visto che il cristianesimo ufficiale è stato costruito principalmente sul postulato della sofferenza come fonte privilegiata di salvezza, trasformandola perfino in virtù e dimenticando che, nella Bibbia, Dio l’aveva inventata come punizione per i peccati dell’uomo (Gn 3, 17-19), dopo il peccato di Adamo ed Eva. Per convincersi di come il magistero abbia messo al centro della religione la sofferenza basta leggere la Lettera apostolica Salvifici doloris di papa Giovanni Paolo II, senza neanche dover risalire agli innumerevoli scritti del passato, e anche Papa Benedetto XVI ha continuato a dirci che Gesù si è offerto in sacrificio per noi, anche se da nessun vangelo risulta che Gesù abbia mai detto di essersi sacrificato per noi.

Sto ovviamente parlando delle sofferenze che uno cerca da sé, convinto così di piacere a Dio, non delle sofferenze che ci piovono addosso perché la vita è quello che accade, non quello che uno pensa di programmare. Infatti il mondo va spesso avanti con imprevisti negativi, mentre noi avevamo programmato di indirizzarlo diversamente.

Mi sembra che, in particolare, il vangelo di Luca spieghi chiaramente, e più volte, come il progetto portato avanti da Gesù nella sua vita terrena miri al superamento della sofferenza, di ogni sofferenza. Ad es. nella parabola del padre misericordioso (Lc 15, 11ss.) è chiaro che questo padre (che è l’immagine di Dio, nel senso che così si comporta Dio stando a Gesù) accoglie con misericordia chi è finito ai margini della società e quindi, se vogliamo somigliare a questo Dio, dovremmo comportarci come questo padre. Il figlio scapestrato sta soffrendo dopo essere caduto così in basso, e questo padre mette fine alla sua sofferenza anche se il figlio si è cacciato nei guai da solo. Ma se dovessimo seguire l’insegnamento religioso, questo figlio avrebbe meritato di soffrire ancora per un bel po’ prima di essere perdonato, dovendo per l’appunto espiare i propri peccati. Infatti – dice sempre la religione - l’amore del padre (Dio) deve essere meritato attraverso i nostri sacrifici, la nostra sofferenza. Ma l’atteggiamento del padre della parabola è l’esatto contrario di quanto ci hanno insegnato, dove sono arrivati perfino a indurci a credere che la sofferenza che l’uomo s’impone faccia piacere a Dio, mentre il piacere dell’uomo fa sempre soffrire il padre (Dio): nel caso della parabola è il comportamento del figlio scapestrato che ha sperperato la sua quota di eredità che ha fatto soffrire il Padre; ma pensiamo in generale al fatto che concetti come il piacere, la felicità, sono guardati immediatamente con estremo sospetto dai credenti integralisti, come fossero di per sé già le porte che danno sul peccato. Quello che conta è la sofferenza, la penitenza costante, è il mortificarsi (“Signore non son degno…Signore pietà!”). Ma se andiamo a leggere i vangeli anche l’invito a mortificarsi è del tutto assente, mentre vediamo che Gesù è vissuto per aiutare coloro che erano stati maltrattati dalla vita a riprendersela in mano, a riacquistare fiducia in sé stessi e nella presenza di un Mistero di amore che ha il potere di lanciarli su nuove strade. In altre parole, mentre potere, prestigio, superiorità, ricchezza non possono mai essere associati a Dio, Egli è particolarmente presente nell’essere umano debole e indifeso che però sa amare; dove c’è amore che si dona per alleviare la sofferenza degli altri, lì è presente il divino e anche l’autenticamente umano (Mori B.).

A Trieste c’è una chiesa intitolata a Thérèse di Lisieux, località francese dove c’era il convento di clausura in cui era entrata questa ragazzina quindicenne. Ebbene questa adolescente, impregnata di dottrina cattolica, ha vissuto la sua breve vita procurandosi sofferenze che l’hanno portata a una morte prematura, convinta così di piacere a Dio, il quale in cambio delle sue sofferenze l’avrebbe fatta entrare subito in paradiso e avrebbe anche salvato altri poveri peccatori che – senza le sofferenze di Thérèse - sarebbero finiti all’inferno. Con tutto il rispetto per le idee di questa giovane ragazza, a parte il fatto che la responsabilità dovrebbe essere personale per cui non capisco come le sofferenze di Teresa possano salvare qualcun altro, temo che la giovane Teresa abbia capito poco dei vangeli: infatti se li leggiamo, vediamo che Gesù ha incentrato la sua vita nel cercar di alleviare la sofferenza della gente, non invitando mai alla sofferenza. Ad es., alla domanda chiara e diretta dei messaggeri del Battista, Gesù risponde non chiarendo se è o non è l’atteso Messia, ma solo invitando a guardare cosa fa (Mt 11, 4). E Gesù elenca tutta una serie di condotte utili ad alleviare la sofferenza della gente: sta facendo esattamente le cose indicate già dal profeta Isaia (Is 61, 1: portare il lieto annunzio ai miseri, fasciare le piaghe, proclamare la libertà degli schiavi, ecc.). E non possiamo dimenticare che anche nel giudizio finale (Mt 25, 31-46) il criterio scelto da Dio per giudicare gli uomini non sarà il peccato su cui tanto batte il Battista (e ancora oggi la Chiesa), ma sempre e solo come ci siamo relazionati con le altre persone che abbiamo incrociato nella nostra vita, e con le loro sofferenza (avevo sete, avevo fame, ero in carcere, ero straniero, ecc.). Purtroppo ancora oggi molti credenti sono convinti – come Teresa di Lisieux - che più si soffre personalmente e più crescono le probabilità di salvarsi. Sinceramente mi sembra blasfema l’idea che la sofferenza sia uno strumento di espiazione e santificazione personale che ci fa meritare la salvezza. Sono dell’idea che solo l’amore gioioso diffuso attorno a noi mette in gioco la nostra salvezza, mentre non servono a niente le sofferenze che siamo andati a cercare perché poi Dio, colpito dal nostro soffrire, si decida a salvare il mondo.

“Sì, ma Gesù ha sofferto indicibilmente perché alla fine è stato crocifisso, quindi dobbiamo anche noi unirci alla sofferenze di Cristo,” dirà qualcuno. È vero che Gesù ha sofferto, ma è anche vero che non ha mai chiesto di unirsi a lui nelle sue sofferenze per offrirle a Dio, mentre ha chiesto di prendersi cura degli altri. E poi, scusatemi, ma che se ne fa Dio delle nostre sofferenze? Gode? Ma allora è un sadico. E Gesù non ha mai parlato di un Dio sadico e arrabbiato, offeso dai peccati degli uomini, che avrebbe scelto proprio lui per realizzare un’opera di redenzione attraverso la sua sofferta crocifissione. Averci inculcato questo modello della redenzione e della riconciliazione attraverso il sacrificio, il sangue e la sofferenza di un innocente, non solo ha trasformato il cristianesimo in una religione cupa, triste, dolorosa e soprattutto colpevolizzante, ma ha anche contaminato profondamente tutti i suoi dogmi, le sue dottrine e la sua spiritualità, così come tutte le sue espressioni della sua preghiera e del suo culto (Mori B.).

Per migliorare la qualità di vita di tutti (non solo la nostra) Gesù ha invitato i suoi discepoli a seguirlo per realizzare qui sulla terra una nuova società (il regno di Dio). Quello che Gesù ha offerto è stato un messaggio che offriva a tutti la promessa e la possibilità di una miglior realizzazione personale; la prospettiva di un mondo totalmente diverso dal solito; il sogno di una società animata da altri principi, altre priorità, altri valori e dove tutti, d’ora in avanti, avrebbero potuto abitare insieme come fratelli nell’uguaglianza, nel rispetto reciproco, nella giustizia; in questa comunità tutti avrebbero trovato il loro posto e il pieno riconoscimento della loro dignità. Proprio per questo si dice ancora oggi che il suo messaggio era una Buona Novella, soprattutto per i poveri, gli oppressi e i perduti della terra. È stato un messaggio che rivelava un altro Dio, un altro modo di relazionarsi con Lui, un altro modo di essere umani. In questo nuovo mondo sognato da Gesù, l’energia che faceva funzionare tutto era esclusivamente quella dell’amore (Mori B.), non certo quella della sofferenza. Eppure, ancora oggi, quando l’amore entra in contrasto o in concorrenza con ciò che è stabilito dalla legge che molti cristiani reputano divina, molti di essi cominciano a guardare all’amore con estremo sospetto (Castillo J.M.), esattamente come il pio sacerdote rispettoso degli obblighi della legge divina avrebbe guardato con estremo sospetto l’impuro samaritano che non la osservava e toccava il ferito sanguinante.

Questa ricetta offerta nei vangeli è semplice ma al tempo stesso difficile da mettere in pratica, perché occorre sostituire i valori dell’avere, del salire, del comandare con i verbi condividere, scendere e servire (Maggi A.). Se abbiamo la pretesa di salire sopra gli altri, di comandare anziché prenderci cura degli altri, non facciamo che aumentare le sofferenze degli altri, e il mondo non cambierà mai. Gesù ha rivendicato di essere stato inviato dal Padre per comunicare a tutti la pienezza di vita (Gv 15, 11; 17, 13; 20, 31), e una vita piena esclude in radice la sofferenza. Inoltre Gesù non è venuto per condannare (basta pensare all’incontro con la samaritana al pozzo – Gv 4,7ss.; o con l’adultera – Gv 8, 3ss.), ma per salvare e liberare il mondo (Gv 3, 17; 12, 47) cambiando mentalità e modo di vivere.

E lui, vivendo come è vissuto, è stato per primo libero dai condizionamenti del potere e della ricchezza, e in quanto libero (tale si sente perfino davanti a Pilato: Gv 19,11) ha potuto liberare gli altri. Ad esempio ha potuto liberare le donne dalla funzione meramente riproduttiva e di custodi del focolare domestico cui erano relegate dalla cultura patriarcale di allora, trasformandole in discepole (cfr. Lc 8, 2s.; 10, 38ss.). Come si esprime l’essere libero? In un modo solo: operando per liberare dalla servitù, dalla miseria, e soprattutto dal dolore… Ma per ascoltare la sofferenza e averne cura è necessario che anche la nostra libertà sia misericordiosa. Al dono dell’essere liberi corrispondiamo responsabilmente soltanto donando e per-donando (Cacciari M., in Kasper W., La sfida della misericordia).

Del resto, visto che anche la Chiesa insiste nel dire che Gesù è venuto ad annunciare la Buona Novella, ditemi quale lieto annunzio si può trovare nell’invito a soffrire, a meno di non essere masochisti.