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Miriam Camerini a Trieste - foto di Gianni Passante


Il “Gesù, ti amo” di Ratzinger ed il 1968



di Stefano Sodaro




In queste ore si è diffusa la voce secondo cui il vescovo Joseph Ratzinger, già Papa, avrebbe pronunciato, pochi istanti prima di spirare, le parole «Gesù, ti amo». Un’espressione che, ammonisce Adriana Zarri in Nostro Signore del Deserto, appartiene ad un’inviolabile e personalissima intimità spirituale e non può essere sbandierata come un vessillo o – annota ancora l’eremita del Canavese – essere imposta come penitenza dopo la confessione dei peccati. E ben si addice, dunque, che essa diventi parola appena pronunciata nel momento supremo della morte, nel momento dell’abbandono a Qualcuno e Qualcosa che ci sono del tutto ignoti, che non possiamo capire.

Quel Gesù, tuttavia, è per sempre Yeshūa, un uomo ebreo di duemila anni fa, il quale, per i Cristiani, continua a vivere nella dimensione dello Spirito, anch’essa ineffabile ed indefinibile. Un testo di cristologia di Marcello Bordoni si intitola significativamente Gesù di Nazaret: memoria, presenza, attesa (Queriniana 1988).

Oggi, dunque, per la coscienza credente, chi è Yeshūa? La lingua spagnola conosce un nome proprio femminile che getterebbe nel panico la lingua italiana: Jesusa. La “j” va letta aspirata: “Hesùsa”.

Gli eredi del terribile Sessantotto – che spaventò la comunità ecclesiale, sommandosi, per così dire, alle rivoluzionarie acquisizioni cattoliche del Vaticano II soltanto tre anni prima – non avrebbero, oggi appunto, difficoltà a cogliere i tratti di Jesusa in quel Yeshūa che continua ad essere creduto e professato come vivente nello Spirito.

Pronunciare pertanto le parole “Gesù, ti amo” da parte di un (cattolico) sessantottino irriducibile e non pentito potrebbe avere implicazioni che invece terrorizzerebbero chi da quel passaggio storico di ormai 55 anni fa vide solo derive di rovina e abbruttimento culturale.

L’editoriale che ci siamo permessi di proporre su questo medesimo numero per questo Capodanno del 2023 (https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-694-1-gennaio-2023/stefano-sodaro-papa-ratzinger-e-la-scrutatrice-della-mia-anima) può apparire, certo, frutto di una sbornia fanta-teologica o di una passeggera infatuazione esotica per la celebratissima “alterità”, ma, almeno nelle intenzioni del qui scrivente, vorrebbe abbozzare un percorso completamente diverso. Si tratterebbe, cioè, di una vera e propria opzione spirituale. (E lasciamo invariate le fotografie sovrastanti i due scritti proprio perché essi, sempre nelle mere nostre intenzioni, vorrebbero costituire un tutt’uno).

Poiché ogni percorso spirituale parte da una domanda, la domanda - in questo caso - appare piuttosto semplice: chi è Gesù di Nazaret oggi?

Di chi fosse al tempo della dominazione romana prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme s’è voluto occupare Joseph Ratzinger, con esiti che lasciamo proprio agli esperti di cristologia.

Ma chi ci dice e ci spiega chi sia oggi? Dove abiti? Che lingua parli? Chi siano i suoi amici e le sue amiche?

Cosa accadrebbe, ad esempio, se Gesù di Nazaret – il rabbunì, il “maestro mio” di Maria di Magdala che lo incontra fuori dal suo sepolcro – fosse oggi una donna rabbino?

Ed è una provocazione fino ad un certo punto. La faccenda si fa invece piuttosto seria.

Sussurrare “Gesù ti amo” pensando alle icone orientali non è la stessa cosa che adoprare le medesime parole pensando a qualcuno/a che conosciamo, che attraversa la nostra vita, che interroga le nostre esistenze, che condivide i nostri giorni. Icone concrete, reali, con nome e cognome, di ogni nostra ora.

Ci piace pensare che, in quel Regno dei Cieli annunciato da Gesù di Nazaret, Joseph Ratzinger si accorgerà che il Sessantotto non fu la porta dell’inferno e che molti e molte - non soltanto un maestro di Israele che fu ucciso e fu creduto e proclamato risorto da morte - possono ricevere le dolcissime, pudiche, parole “Yeshūa, Jesusa, ti amo”.