Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Franca Ongaro Basaglia - foto tratta da commons.wikimedia.org

Basaglia, Bello, la Madonna, la DC e la fobia scolare 


di Stefano Sodaro


Franco Basaglia - foto tratta da commons.wikimedia.org


Domani ricorreranno i 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia.

Esistono folle di personaggi, maschili e femminili – e per lo più presenti sulla pubblica ribalta –, preoccupatissime di continuare a costruire, e poi consolidare, un’immagine di sé che richieda di parlare sempre e soltanto della propria stessa figura: della sua vita, dei suoi interessi, dei suoi meriti, delle sue competenze, dei suoi viaggi, delle sue esperienze, dei suoi riconoscimenti, successi e progetti, del suo modo di pensare, naturalmente unico e incomparabile, del suo stare nel mondo tra plausi e commozioni ammirate.

Non fu così per Basaglia, artefice di una vera e propria rivoluzione culturale, antropologica, filosofica. La parola, nel suo caso, fu consegnata, donata, affidata, agli altri e alle altre.

La soggettività di Michel Foucault – ad esempio, tanto per fare nome e cognome di uno degli intellettuali protagonisti del tempo - veniva tradotta in concreta attuazione politica, legislativa, nel tentativo di riconoscere la normalità della follia e non la sua espunzione dalle nostre vite, spesso tributarie di una normalità che è vera alienazione.

A Trieste la presenza di Basaglia – che era un medico - non è stata archiviata: vive nella tensione verso una sensibilità psicologica e psichiatrica del tutto peculiare e non omologabile.

Basaglia riuscì ad incidere politicamente e poté vedere tradotta in legge dello Stato la sua rivoluzione.


Tonino Bello - foto tratta da internet, si resta a disposizione per il riconoscimento di eventuali diritti


Anche Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, agli estremi opposti dello Stivale, morto il 20 aprile 1993 e che avrebbe compiuto 89 anni il prossimo 18 marzo, non stava rinchiuso dentro la prigione psichica del narcisismo solipsistico, benché fosse pure lui personaggio mediatico che incantava uditori e appassionava lettori e lettrici.

Ma don Tonino aveva semplice sembianza ed essenza di profeta e dunque non era diverso nella dimensione privata rispetto alla scena da chiunque osservabile, pubblica cioè. No.

Era tutt’uno, divorato da un innamoramento verso Dio e la sua gente, che gli impediva di dedicarsi alla cosmesi del sé, per riversarsi interamente nella contemplazione dell’Altro, Altra, delle Altre, degli Altri.

Può essere il caso oggi, e domenica 17, di provare a pensare anche a lui.

Ulderico Parente, collaboratore alla Positio su don Tonino presso il Dicastero delle Cause dei Santi, nella sua recente biografia di mons. Bello – Don Tonino Bello (1935-1993). Una biografia, Carocci 2022 -, ricorda a p. 384: «Parlando del caso degli Albanesi, l’onorevole Scotti aveva richiamato un’antica formula sacra, A peste, a fame et bello, libera nos, Domine, replicando polemicamente alle prese di posizione del vescovo.». Parente segnala anche l’enorme sofferenza che ne derivò al vescovo pugliese ed annota l’avvenuta riconciliazione, in forma del tutto privata, in un momento successivo.

Nel volume Storia della Democrazia Cristiana 1943-1993 di Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio, pubblicato da il Mulino nell’ottobre 2023, si legge, alle pp. 533-534, con riferimento alla Prima Guerra del Golfo iniziata nel gennaio 1990: «(…) Una piccola, ma qualificata, pattuglia, (…) esprimeva in verità sensibilità assai diverse, ma aveva in comune la provenienza dall’associazionismo cattolico, fosse esso quello dell’Azione cattolica, delle Acli o di Cl. Nel complesso, tuttavia, queste forme di dissenso furono presentate e accettate con buona grazia, anche perché tutti i protagonisti garantirono comunque l’appoggio al governo. Cattiva grazia, se si può dir così, manifestò invece Francesco Cossiga che nelle settimane seguenti attaccò con estrema durezza sia alcuni magistrati che avevano sottoscritto un appello contro la guerra sia il neopresidente del Pds, Stefano Rodotà. Il capo dello Stato non esitò a usare il peso della propria autorità anche nei confronti del mondo cattolico dissenziente: in risposta a una lettera aperta pubblicata su «Il Manifesto» del 22 gennaio e firmata da mons. Tonino Bello e da Raniero La Valle, relativa all’impegno italiano nella guerra, fece preparare una bozza di comunicato stampa maligno e ironico; ma non lo spedì.»

Nei decenni posti a distanza di sicurezza dalla sua primigenia memoria, testimoniata nell’evento realmente “pasquale” della sua morte, si sono succedute e rincorse folle - folle per appunto - di più o meno improvvisati “dontoninobellologi”, tutti asseritamente espertissimi ed eccezionali scopritori di questo o quell’aspetto del suo ministero episcopale, dei fioretti della sua vita, delle più stratificate narrazioni di episodi, testi, suggestioni, intuizioni, parole. Fino alla devozione beatificante. Ma qualcosa in realtà non torna in mezzo a tanto convintissimo consenso, come se il carattere dirompente di quella testimonianza di un vescovo facente parte della CEI presieduta dal Card. Ruini, e che predicava contro l’annebbiamento della provocazione evangelica, possa tranquillamente, e opportunamente, svaporare, per lasciare spazio ad una sua immagine composta ed in ultima analisi innocua.

Il Papa, in visita al cimitero di Alessano – dove è sepolto il corpo di mons. Bello -, il 20 aprile 2018, ha affermato: «Don Tonino ci richiama a non teorizzare la vicinanza ai poveri, ma a stare loro vicino, come ha fatto Gesù, che per noi, da ricco che era, si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Don Tonino sentiva il bisogno di imitarlo, coinvolgendosi in prima persona, fino a spossessarsi di sé. Non lo disturbavano le richieste, lo feriva l’indifferenza. Non temeva la mancanza di denaro, ma si preoccupava per l’incertezza del lavoro, problema oggi ancora tanto attuale. Non perdeva occasione per affermare che al primo posto sta il lavoratore con la sua dignità, non il profitto con la sua avidità. Non stava con le mani in mano: agiva localmente per seminare pace globalmente, nella convinzione che il miglior modo per prevenire la violenza e ogni genere di guerre è prendersi cura dei bisognosi e promuovere la giustizia. Infatti, se la guerra genera povertà, anche la povertà genera guerra. La pace, perciò, si costruisce a cominciare dalle case, dalle strade, dalle botteghe, là dove artigianalmente si plasma la comunione. Diceva, speranzoso, don Tonino: «Dall’officina, come un giorno dalla bottega di Nazareth, uscirà il verbo di pace che instraderà l’umanità, assetata di giustizia, per nuovi destini». (…)

In questa terra, Antonio nacque Tonino e divenne don Tonino. Questo nome, semplice e familiare, che leggiamo sulla sua tomba, ci parla ancora. Racconta il suo desiderio di farsi piccolo per essere vicino, di accorciare le distanze, di offrire una mano tesa. Invita all’apertura semplice e genuina del Vangelo. Don Tonino l’ha tanto raccomandata, lasciandola in eredità ai suoi sacerdoti. Diceva: «Amiamo il mondo. Vogliamogli bene. Prendiamolo sotto braccio. Usiamogli misericordia. Non opponiamogli sempre di fronte i rigori della legge se non li abbiamo temperati prima con dosi di tenerezza». Sono parole che rivelano il desiderio di una Chiesa per il mondo: non mondana, ma per il mondo. Che il Signore ci dia questa grazia: una Chiesa non mondana, al servizio del mondo. Una Chiesa monda di autoreferenzialità ed «estroversa, protesa, non avviluppata dentro di sé»; non in attesa di ricevere, ma di prestare pronto soccorso; mai assopita nelle nostalgie del passato, ma accesa d’amore per l’oggi, sull’esempio di Dio, che «ha tanto amato il mondo» (Gv 3,16).

Il nome di “don Tonino” ci dice anche la sua salutare allergia verso i titoli e gli onori, il suo desiderio di privarsi di qualcosa per Gesù che si è spogliato di tutto, il suo coraggio di liberarsi di quel che può ricordare i segni del potere per dare spazio al potere dei segni. Don Tonino non lo faceva certo per convenienza o per ricerca di consensi, ma mosso dall’esempio del Signore. Nell’amore per Lui troviamo la forza di dismettere le vesti che intralciano il passo per rivestirci di servizio, per essere «Chiesa del grembiule, unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo».».

Si deve essere in grado, dunque, di contestualizzare l’età in cui visse mons. Bello – morto ormai più di trent’anni fa (Basaglia da quasi quarantacinque) – ed avere il correlato coraggio, tuttavia, di osare porgli domande di senso sul nostro oggi, sul nostro quotidiano, che per appunto non fu il suo, quanto meno non più.

Gesù e la Cananea - Codex Egberti, Fol 035v - immagine tratta da commons.wikimedia.org 


Pochi mesi dopo la sua morte avvenuta il 20 aprile, il 26 luglio 1993, all’Eur, un’Assemblea Programmatica Costituente sancì la morte anche della Democrazia Cristiana. E a don Tonino furono risparmiati i tempi del nascente berlusconismo politico.

Eppure era stato un Governo Andreotti - per l’esattezza il IV, con la fiducia anche del PCI -, quattro giorni esatti dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse, ad approvare il testo della legge 180 che aveva avviato la chiusura definitiva dei manicomi. Seguendo il pensiero, le intuizioni ed il vero e proprio magistero esistenziale di Franco Basaglia, si era ottenuto – oggi sembra sbalorditivo – un consenso di maggioranza parlamentare che aveva consentito, nel 1978, di unire mediazione politica, quella dei partiti della Prima Repubblica, a genialità filosofico-sociale oltre che a perizia medico-scientifica, quella del dottor Franco Basaglia.

Mons. Bello non riuscì – va riconosciuto, ma del resto non era questo il suo ruolo – a collegare sponde così diverse ed anzi il rischio oggi è di far rammollire come burro avariato la sua profezia dentro i cassetti della santità promulgata, messa a tacere e preconfezionata.

Due urgenze, che allora – alla fine degli anni Ottanta ed agli inizi dei Novanta - appena affioravano, oggi insistono con forza particolare sul fronte ecclesiale e su quello, di nuovo, sociale: la questione delle donne nella Chiesa e la questione di un benessere minato da una povertà non solo economica, bensì generato da una matrice psichica, da una debolezza potentemente generata dal primato degli obblighi prestazionali e competitivi in ogni ambito della nostra vita. Più esplicitamente: dopo il Covid – sul quale chissà cos’avrebbe detto don Tonino alla Chiesa Italiana così preoccupata di non poter celebrare il culto negli edifici delle chiese – il disagio psichico di moltissime/i giovani non è più guarito e si è recidivato fino ad una vera e propria fobia nei confronti della dimensione istituzionale presente nelle loro giornate e rappresentata dalla scuola. Viene in mente l’appello di Ivan Illich a descolarizzare la società. L’impatto con la richiesta di adeguamento, costi quel che costi – in termini cioè di promozioni e bocciature, di progresso od arretramento sul crinale della gerarchizzazione generazionale -, che la scuola richiede, provoca, in chi non riesce a reggere tale impatto, un’angoscia insuperabile, un senso di oppressione e depressione invincibile, patologico. È la cosiddetta “fobia scolare”. E su tale dinamica di implosione della vitalità giovanile, cercando di scongiurarne una deflagrazione distruttiva, chissà, invece, cos’avrebbe detto Basaglia.

Maria di Nazaret - elaborazione informatica di Átila Soares da Costa Filho, per sua gentile concessione


Non risulta – salve nuove scoperte, ovviamente pur sempre possibili – che mons. Bello si sia mai occupato di Basaglia.

Però articolò, lungo tutta la sua vita, una proposta di incontro spirituale molto originale, quello con Maria di Nazaret, completamente diverso dal marianesimo trionfante ed in grado di scardinare, al contrario, luoghi comuni psichici, di fabbricazione degli universi simbolici, non solo nei confronti delle donne - con ciò divenendo capace di innestare un capovolgimento di paradigmi culturali dati come pacifici ed indiscutibili -, ma anche nei confronti della stessa debolezza costitutiva del nostro essere.

Probabilmente oggi, adesso, una raffigurazione ed interpretazione della donna di Nazaret come possibile interlocutrice (spirituale, non per questo confessionale) della vicenda sia di Franco Basaglia che di Franca Ongaro Basaglia, sua moglie, sarebbe una prospettiva nuova di meditazione e permetterebbe di far uscire Tonino Bello dalle sacrestie dove sembra si voglia farlo rientrare a forza, contro ogni sua attitudine al riguardo, e di far incontrare lui e Basaglia sulla strada della feriale, laica, quotidianità di tutte e tutti.

Da parte nostra, avvertiamo la necessità di proseguire su un percorso nuovo, questo, nel tentativo di dare senso ai nostri giorni, alle nostre ore, a ciò che la liturgia del quotidiano ci chiama, nolenti o volenti, a celebrare. Ne va della nostra stessa salute mentale.

Numero 756 - 10 marzo 2024