The Rabbi is in


Afona ai colloqui

di Miriam Camerini

Giovedì 2 Dicembre

Ci sono momenti in cui tutti ti sorridono, regalano cose, sono gentili.

A me hanno appena regalato del gelato al fiordilatte da mettere nella cioccolata calda fondente perché avevo chiesto la panna montata ma l’avevano finita. Seduta davanti a me una famiglia che pare uscita da un film di Verdone discute degli svantaggi dell’euro: la ragazza che fa l’apologia della lira è più giovane di me e – facendo un rapido calcolo – non poteva avere più di 16 anni quando la sua amata moneta è uscita di corso… Mi domando che quantità di lire maneggiasse al liceo per parlarne con tanto rimpianto: faceva la baby-sitter tutti i sabati sera, come me? Io non ricordo le ultime lire, francamente, ma ho un bellissimo ricordo dei primi euro: mia zia Mara ci comprò per sé e per me due biglietti al Berliner Ensemble, il teatro di Bertolt Brecht, e ci vedemmo La resistibile ascesa di Arturo Ui, parodia di Hitler del Bertoldo nostro amatissimo di entrambe. 

Era il Capodanno del 2002 e io scoprivo Berlino con mia zia: stare assieme a lei a un veglione in cui giravano anche delle canne mi era parso atto di grande trasgressione. 

Riapro gli occhi, scompaiono Mitte e il Theater am Schiffbauerdamm e sono invece sempre nella gelateria-caffè di Bibbiena, nel Casentino, sotto il monastero di Camaldoli: sto aspettando che Matteo il monaco mi venga a prendere per percorrere in auto l’ultimo tratto del viaggio che ho iniziato – in treno – questa mattina a Bari: sono in viaggio da quasi 12 ore, ridi e scherza.

 

Domenica 5 Dicembre

Io ora ho solo voglia di stare seduta qui, ferma davanti agli otto lumi che arderanno ancora poco più di mezz’ora nella notte stellata fuori dalla mia finestra sopra il fiume, e godermi l’ultima sera di Hannuka. Non voglio fare altro che fissarle, le otto candele colorate che ho fissato con la loro cera ai piccoli supporti, uno diverso dall’altro e tutti incastrabili a formare un puzzle, la mia super trendy Hanukia da viaggio scolpita nel gesso da un collettivo di giovani artisti ungheresi, regalatami dalla mia amica Borcsa un Hanuka di qualche anno fa, quando ero a Budapest a parlare di come il teatro è normato e considerato nel Talmud e in altre fonti rabbiniche dei primi secoli dopo Cristo. 

Il rapporto con la festa di Hannuka, in cui si celebra la sopravvivenza della cultura ebraica e della sua forte identità monoteista e non-idolatrica sulle culture ellenistiche “del vedere”, è chiaro: il teatro è spettacolo per eccellenza, è scelta di un senso sopra tutti gli altri. È  però buffo allora che di questi lumi non possiamo fare altro, ora, che “guardarli”, così dice anche la breve formula che recitiamo subito dopo averli accesi: contentiamoci di guardarli, non usiamoli in alcun modo, stiamo solo qui con loro, e tanto basti.

Sono state otto sere in luoghi diversi, queste per me: la prima sera, domenica scorsa, avevo appena lasciato Milano; per la prima volta nella vita ho acceso un lume di Hannuka nel vagone letto di un treno, stavo viaggiando verso Lecce, fortunatamente da sola, nella mia carrozza-letto. Il fatto che l’allarme anti-incendio non abbia suonato potrebbe essere un ulteriore miracolo, in aggiunta ai due che già la festa celebra, quello dei pochi che vincono sui molti e quello del poco olio che brucia per otto giorni.

La seconda sera ero nella camera di un albergo a Lecce, di ritorno da un bell’incontro in una biblioteca con un imam, un prete  e il direttore di un teatro, tanto per stare in tema, e ho registrato, alla luce delle due candele, una video lezione su Giuseppe che interpreta i sogni dei suoi compagni di prigionia in Egitto, il capo coppiere e il capo panettiere, nel libro della Genesi. 

La terza sera ero a Bari, appena giunta nella parrocchia che mi ospitava, e così ho accesi i miei tre lumi in un seminario di preti, mangiando una pasta che mi ero preparata lì per lì mentre studiavo per la conferenza dell’indomani, all’Università, sul pane nell’ebraismo: anche qui partecipavo a un incontro interreligioso, con un prete e un imam, in cui ognuno avrebbe detto la sua. 

Giuseppe, che un po’ fa da guida a questi miei pensieri, è colui il quale imprigiona il grano nei silos, permettendo certo all’intera regione di sopravvivere alla carestia, ma anche rendendo tutti schiavi: alla libertà si tornerà solo contando il proprio tempo, non facendo lievitare il pane, non facendone avanzare, raccogliendo la manna, dono gratuito del cielo di cui non si può far moneta: non lo si può avanzare per scambiarlo e commerciarlo, se lo si fa imputridisce. Il fermento, il lievito è ciò che permette alla divinità, che è una, di creare un mondo molteplice, abbondante, plurale: per far ciò ha bisogno dei primi due umani, creati diversi, cui ordina subito di far frutto e diventare molti, e del lievito che è lo spirito di vita, il serpente che seduce la donna, più propensa alla sovversione, alla fantasia, all’inventare dei trucchi. 

Mi viene fatto notare dal sornione Don Angelo, che mi ha invitata qui e ora assiste divertito al mio estrarre dalla borsa taccuini e fogli su cui ho appuntato idee in ordine assai sparso, come anche in questo si veda il mio essere donna, fantasiosa, libera e intrinsecamente creatrice, oltre che artista. E’ questo il III appuntamento cui partecipo da quando sono in Puglia (e l’ultimo “di gruppo”: quello di stasera è unicamente mio) e in tutti sono stata l’unica donna fra preti, imam, direttori di teatri e musei, professori... Oltre che la più giovane. Il fatto che l’ebraismo sia - finalmente e prima di altri - rappresentato da una donna mi riempie di gioia e di responsabilità che accolgo, cercando di farne il meglio che so.

La IV sera accendo in una chiesa, senza che nemmeno mi venga in mente di chiedermi se si può o no: per l’anno prossimo controllerò, questa sera mi è venuto di getto. La serata è bella: parliamo delle feste ebraiche di Hannuka, Shabat, Purim e Pesach, ancora una volta di contare il tempo e farsi custodi delle proprie ore come via verso la libertà. Parliamo di fare il pane per scandire il tempo.

Così finiscono i miei pochi e bei giorni pugliesi, ricchi di incontri meravigliosi fra cui quello con un ebraista toscano, Furio Biagini, il cui libro su Torah e anarchia - trovato per caso un pomeriggio di venerdì, poco prima dello Shabbat, fuori da una libreria a Otranto, in una cesta di offerte - mi ha fatto da guida nel preparare Messia e Rivoluzione, il mio spettacolo sul Bund, il primo partito socialista ebraico dell’Est Europa. Furio, che a Lecce lavora e vive con la bella moglie e il simpatico figlio, mi invita a pranzo, mangiamo bottarga e giochiamo a far girare la trottola, tipico gioco di Hannuka, che Elia non chiama sevivon in ebraico moderno, bensì dreydel, in yiddish, piccolo ebreo della diaspora quale è cresciuto.

Al termine del lunghissimo viaggio in treno da Bari ad Arezzo, percorsa fino a Bologna tutta la costa adriatica con i suoi trabucchi e le sue spiagge deserte e piovose, a Bibbiena faccio merenda e aspetto. E lì torniamo all’inizio.

I giorni seguenti saranno quelli di Camaldoli, con i loro Colloqui ebraico-cristiani, ai quali, giustamente, dopo tante avventure, piogge e freddi, conferenze e conversazioni, mi trovo completamente afona, che per dialogare non è male. Forse allora è venuto il tempo dell’ascoltare, oltre che del guardare.


Foto di Paola Cazzaniga