Pare sia scritto più in là [1]

di Paola Franchina

Il viaggio rappresenta una delle più antiche metafore della nostra esistenza: un modello paradigmatico nella letteratura è costituito dalla straordinaria odissea di Ulisse verso l’amata Itaca, ove ad attenderlo vi è la devota Penelope, descritta nell’atto di tessere e disfare la medesima tela per scongiurare il rischio di addivenire a nuove nozze.

Anche la Bibbia non è immune al fascino della strada. La storia della salvezza prende abbrivio dall’imperativo divino: Lech-Lecha, tradotto in italiano con «vai, vattene!». Attraverso questo comando, Dio esorta il patriarca Abramo a lasciare le presunte sicurezze e garanzie, in direzione dell’ignoto. Il comando, infatti, non esplicita la meta: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò».[2]

Le storie di viaggi permeano l’intera narrativa, illuminandosi a vicenda. In particolare, ci lasceremo stupire da un itinerario dai toni fantastici, messo in scena da uno degli autori più eclettici del Novecento, Dino Buzzati.

Il racconto I sette messaggeri, tratto dall’omonima raccolta edita nel 1942, è tratteggiato con pennellate sinistre e alienanti; il realismo fantastico, tipico di Buzzati, dissemina la realtà di tratti magici e incantevoli, restituendo al lettore una prospettiva straniante e attonita.

Nella novella viene narrato il cammino compiuto dal figlio di un re che, avendo varcato di poco la soglia dei trent’anni, decide di avventurarsi in un viaggio in direzione dei confini del regno. Con il proseguire del cammino, la sicurezza iniziale vacilla, la meta diviene illusione ottica, rifrazione della luce attraverso strati d’aria contigui: «Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine»[3].

Dopo esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni, il protagonista non è ancora giunto alle colonne d’Ercole del regno. Lo scarto che si insinua tra il giovane e il confine appare asintotico: il residuo sembra essere incolmabile.

Una sensazione simile può essere paragonata a quella che pervade un turista che percorre i cinquanta metri di via Niccolò Piccolomini a Roma. Attraverso uno gioco di prospettive, la vista di San Pietro, che domina incontrastata sulla scena, è soggetta ad un singolare effetto ottico. Se doveste imbattervi in tale scenario, potrete notare che, a mano a mano vi avvicinerete alla cupola di San Pietro, quest’ultima, ai vostri occhi, si allontanerà. E, viceversa, più vi allontanerete, più essa parrà avvicinarsi.

Come sotto il medesimo effetto ottico, più il protagonista incede, più il confine del regno si dilata nello spazio. La sensazione è di immobilità:

Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre

verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la

distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo

giunti all'estrema frontiera.[4]

Il viaggio, però, non chiama in causa solo la dimensione spaziale: al centro dell’attenzione vi è il tempo, il quale è ben lungi dall’essere una successione di istanti secondo un modello matematico quantitativo, ma diviene fluido e irreversibile: esperienza della coscienza. Il tempo si fa simile al gomitolo bergsoniano, in cui i momenti si compenetrano e avvolgono su loro stessi.

All’interno del racconto, i marcatori temporali, inizialmente precisi e definiti, divengono progressivamente vaghi e indeterminati: l’inesorabile scorrere della sabbia nella clessidra sfugge al controllo. Il taccuino, sul quale il figlio del re annotava il tempo che passa, non è più funzionale, come un orologio molle all’interno di un quadro di Dalì.

I sette messaggeri, la cui importanza si evince dal titolo, sono i testimoni del tempo che scorre. Essi vengono inviati in modo scaglionato verso la città natale, per arrecare notizie. Tuttavia, aumentando le distanze, la possibilità di comunicazione con la città di origine diviene utopia: il passato è ormai un lontano ricordo. Il tempo assume, così, i tratti dell’attesa di un evento conclusivo.

Con l’addentrarsi nella narrazione, le coordinate spazio-temporali si sublimano nell’indefinito: siamo condotti in un’atmosfera surreale, dai confini rarefatti. L’anelito al limes è segno di un protendersi verso il varco che dischiude il senso a cui sembrano rimandare le cose: «una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando».[5]

Per concludere aprendo, possiamo inscrivere la prospettiva di Buzzati all’interno di una matrice platonica che ricerca il definitivo al di là dell’effettivo. Rispetto a questa inclinazione, la rivelazione cristiana offre una chiave di volta, svelandosi nella storia.

NOTE


[1] E. Montale, Maestrale, in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984.

[2] Gen 12,1

[3] D. Buzzati, I sette messaggeri, in La boutique del mistero, Mondadori, Milano 1968. Copia in PDF a cura di Giorgio Cadorini: http://giorgio.cadorini.org/uni/materialy2/buzzati01.pdf

[4] Ibid.

[5] Ibid.