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Palace of Peace and Reconciliation, Architetto Norman Foster, Astana, Kazakistan (ora Nur-Sultan), foto tratta da commons.wikimedia.org










Riconciliazione


di Dario Culot


Il Catechismo Maggiore di Pio X, spesso difficilmente condivisibile ma sempre assai chiaro, precisava all’art. 672 che il sacramento della Penitenza o Confessione era stato istituito da Gesù per rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo.

Sacramentum è una parola latina che ha cambiato di significato nel tempo. Inizialmente non aveva connotazione religiosa (significava il giuramento di fedeltà verso il capo, verso un uomo, e quindi aveva connotazione laica), ma i cristiani hanno ripreso questa parola associandola a un’idea di sacro e di mistero. Sacramento è così diventato un segno di cosa sacra;[1] o, per usare una definizione più religiosa: sacramento è un segno visibile della grazia invisibile, istituito per la nostra giustificazione[2]. Dunque il sacramento è diventato un veicolo della grazia: quando l’uomo compie quel segno, nel suo intimo accade ciò che quel segno significa, per cui il sacramento comunica la grazia. La grazia, secondo l’art.526 del Catechismo di Pio X, è un dono di Dio, soprannaturale, interno, che ci viene dato senza nostro merito, ma per i meriti di Gesù, in ordine alla vita eterna. Con parole più moderne potremmo forse dire che la grazia è il favore e l’amore di Dio profuso sugli uomini.

Dunque per la dottrina ufficiale i sacramenti erano visti (art.518 s. Catechismo Pio X), e sono tuttora visti (n.774 Catechismo), come segni sensibili (cioè attuati per mezzo di cose sensibili, materiali) ed efficaci della grazia (cioè che producono effettivamente nell’anima la grazia), istituiti da Gesù Cristo.

Sempre il Catechismo di Pio X (n.522s.) chiariva che per fare un sacramento si richiedono sempre tre cose: la materia, cioè la cosa sensibile che si adopera per farlo, come l’acqua naturale per il battesimo o l’olio nella cresima, o il pane nell’eucaristia; la forma, cioè le parole che si proferiscono per farlo; e il ministro, cioè il prete. Allora la prima domanda che mi viene in mente è: qual è il segno sensibile della confessione? E la seconda è: quando e dove Gesù ha istituito la confessione?

Quanto al segno, non credo proprio che esista, quindi viene comunque a mancare il primo dei tre elementi del sacramento (la materia). Ma allora, se manca il segno materiale esteriore, come si fa a parlare di sacramento? La domanda, già sollevata dai protestanti nel 1500, non mi sembra abbia mai ottenuto risposta.

A dire il vero, Gesù non ha lasciato alcun prodotto confezionato alla Chiesa, come i sette sacramenti fissati nel concilio di Lione appena nel 1274[3] e confermati dal concilio di Trento (per i protestanti i sacramenti sono solo due: battesimo ed eucaristia). Gesù ha creato una comunità animata dallo Spirito e le ha dato ampia libertà nella storia di creare quegli strumenti che meglio servivano per far arrivare il suo messaggio[4]. Questa è la grande libertà che Gesù ha lasciato alla Chiesa, che invece ha preferito costruire una ragnatela di norme, regole sempre più rigide, nelle quali è difficile districarsi. Pensiamo solo a come, per cambiare due parole nel Padre Nostro (“non c’indurre in tentazione”), ci abbiamo impiegato anni, suscitando pure le rimostranze di tanti pii credenti. Gesù si è sentito completamente libero di cambiare perfino le tavole della Legge, tanto che al ricco angosciato che gli chiedeva come guadagnarsi la vita eterna gli ha presentato alcuni comandamenti della seconda tavola, aggiungendo tranquillamente un ‘non frodare’ che è un comandamento che non esiste nelle due tavole, e mettendo all’ultimo posto il 4° comandamento (Mc 10, 19); forse perché il primo e l’ultimo sono quelli che si ricordano meglio.

Ora, tra i vari strumenti che la Chiesa ha creato c'è appunto la confessione che, essendo stata creata dalla Chiesa (vorrei che mi si indicasse dove e quando Gesù l’ha istituito), è il sacramento che più di tutti ha subito modificazione nel corso dei secoli, ancorché il concilio di Trento abbia previsto la scomunica per chi non si adeguava al suo insegnamento. È forse opportuno fare in proposito un brevissimo excursus storico.

All’inizio la confessione era pubblica nel senso che era un rito collettivo collocato all’inizio della messa (traccia ne è rimasta nell’odierno Confiteor). Era prevista anche una penitenza canonica pubblica, ma ciò che pesava di più erano gli interdetti che duravano per tutta la vita, tipo il divieto di svolgere mansioni pubbliche e commerciali, continenza sessuale, ecc.: insomma, una specie di morte civile definitivamente sparita solo verso il VII secolo.

Papa Leone Magno[5] (morto nel 461) già aveva vietato l’abitudine di confessare in pubblico i propri peccati[6] dichiarando sufficiente la confessione segreta a un sacerdote.

Qualche tempo dopo, dall’Irlanda e Gran Bretagna aveva cominciato a diffondersi una nuova idea di confessione. Spariti i peccati imperdonabili, ci si può confessare più volte, anche al prete e non più solo al vescovo, e la penitenza cancella ogni colpa. Il terzo sinodo di Toledo del 589 condannò questa “detestabile audacia” (exsecrabilis praesumptio) pretendendo il ritorno al vecchio regime tradizionale. E qui c’imbattiamo in un’ennesima dimostrazione di come una vecchia tradizione può essere di fatto superata, perché presto prese sopravvento il sistema irlandese, denominato ‘tariffato’ perché per ogni peccato era prevista una precisa pena, fissata in appositi libri penitenziali. E questo è durato circa fino all’XI secolo.

Anche qui, però, visto che la penitenza infliggibile, in particolare il digiuno, era spesso talmente pesante da renderla durissima da praticare, si cominciò a riscattare il digiuno pagando una somma di denaro; e presto si finì perfino col permettere il riscatto da parte di una terza persona. Anche la flagellazione monastica, nata come punizione monastica, entrò nella vita comune, sempre in commutazione delle altre penitenze. Insomma, come s’intuisce, confessione e penitenze erano assai più dure di oggi.

Fu però solo col concilio Laterano IV, del 1215,[7] che venne imposto l’obbligo di confessarsi e fare la comunione almeno una volta all’anno sotto minaccia di scomunica. E appena col concilio di Trento, nel novembre 1551, la confessione venne definita come sacramento istituito da Gesù;[8] venne affermato che si devono confessare tutti i peccati mortali, che la confessione pubblica non era comandata da alcuna legge divina,[9] e venne prevista la scomunica per chi affermava che la confessione segreta non era di origine divina ma un’invenzione umana[10].

Per smentire quel concilio e convincersi che la confessione non è stata sempre in segreto davanti a un prete, bastava leggere la lettera di Giacomo (Gc 5, 16) in cui l’apostolo raccomandava una confessione mutua fra fratelli per il perdono dei peccati. E ancora nel 1500 Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, prima della battaglia di Pamplona si confessò con un altro commilitone,[11] non con un prete. È smentito, dunque, che la confessione sia da sempre passata attraverso le chiavi della Chiesa, come ci hanno insegnato.

Ma poi, leggendo i vangeli, ditemi dove trovate che Gesù ha istituito la confessione davanti a un prete, quando non ha mai parlato, e quindi neanche imposto, l’istituzione di un nuovo clero. Anzi, se leggiamo Matteo (Mt 18, 15-17: “Se tuo fratello pecca…”), dove si affronta appunto il problema del perdono dei peccati, Gesù non menziona alcun rituale sacramentale e non prevede alcun ricorso ad un prete con poteri divini per perdonare in nome di Dio. Gesù si limita a dire che se uno offende o danneggia un altro, c’è una sola soluzione: che si riconcilino tra di loro, cioè che si perdonino reciprocamente.

Oggi la confessione, detta riconciliazione, non è più intesa tanto come un elenco di peccati fatta al sacerdote col proponimento di non commetterli più, ma piuttosto come la volontà di aprire il cuore a Dio perché la conversione del cuore costituisce la sostanza del pentimento e della penitenza. E questa è un’evoluzione dovuta al cambiamento della società. Uno già si sente normalmente inadeguato nella sua vita quotidiana normale (e questa è un’esperienza piuttosto comune). La confessione, così come veniva pratica, era l’ulteriore conferma della propria inadeguatezza, perché l’umiliazione davanti al confessore faceva normalmente sentire la persona spregevole e meritevole solo di disprezzo. Ma dov’era in questo la Buona Novella? Di solito, confessandosi, la gente non avvertiva alcuna esperienza salvifica, per cui a poco a poco sempre più gente si è allontanata da questo sacramento totalmente mancante di stroke positivi.

Ora, se leggiamo i vangeli, a nessuna delle persone perdonate Gesù ha mai imposto una penitenza dopo aver preteso di sentire i loro peccati[12]. A Gesù non interessa sentire le persone parlare dei loro peccati; non le umilia né le tormenta con domande indiscrete; vuole semplicemente liberarle. Spezza il nesso fra peccato e malattia (Gv 9, 2-3), che ancora era frequente. Nel caso del paralitico, dopo aver cancellato il passato peccaminoso (ma senza pretendere alcuna confessione e alcuna penitenza), dopo averlo guarito, cioè dopo aver aperto un percorso di vita piena, Gesù stranamente lo congeda dicendogli: «ti dico alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua» (Mc 2, 11). Nell’episodio della prostituta che irrompe nella casa del puro fariseo (Lc 7, 48ss), Gesù le offre il perdono senza chiederle se si è pentita, senza invitarla a cambiare mestiere, senza chiederle alcuna penitenza.

È stata dunque la Chiesa che ha deciso di ritualizzare il pentimento, ravvedimento e perdono con un sacramento o con un rito (penitenziale):

Sappiamo che il magistero giudaico insegnava che il perdono dei peccati e il riacquisto dello stato di purità si potevano ottenere solo andando al Tempio, perché il culto a Dio si poteva fare solo nel Tempio di Gerusalemme (Dt 12, 5-11): lì Dio perdonava attraverso l’intermediazione dei sacerdoti: spazio sacro e persona sacra erano perciò indispensabili. Oggi la Chiesa ci dice sostanzialmente le stesse cose: Dio perdona, ma solo previa mediazione del ministro che conferisce il sacramento, il quale ascolta la confessione di chi si è pentito, e dopo aver scontato il castigo (penitenza), perché Cristo ha affidato ai soli apostoli il ministero della riconciliazione (n.1461 Catechismo). Solo dopo che il penitente è tornato degno di Dio potrà avvicinarsi al Signore.

Da dove si ricava questa convinzione? Ci dicono che viene da Matteo 16, 19 e da Giovanni 20, 19-23: quando un fatto viene ripetuto da più evangelisti, deve esserne sottolineata l’importanza. Per i cattolici (non per i protestanti) Gesù ha dato a Pietro (e ai suoi successori) il potere di “legare o sciogliere”, cioè di perdonare o non perdonare i peccati: ciò significa che il prete deve poter sentire i peccati al fine di poter decidere se perdonare o non perdonare[13]. Ho qualche dubbio che sia proprio così.

Questa tesi viene sostenuta da una pericope indiretta del vangeli[14], che però ha bisogno di essere interpretata visto che si trovano moltissime pericopi di segno opposto. Infatti non c’è un solo passo in tutti i vangeli in cui Gesù sollecita gli uomini a chiedere perdono a Dio, né direttamente, né tramite gli apostoli o i sacerdoti. Al contrario, giusto per riportare qualche passo di senso inverso:

a) a Matteo, che era un pubblicano, Gesù dice semplicemente: “Seguimi” (Mt 9, 9).

b) a Zaccheo, capo dei pubblicani, che si è arrampicato sull’albero, dice: “oggi vengo a pranzo a casa tua” (Lc 19, 5);

c) all’impura emorroissa che, violando la legge religiosa compie peccato sacrilego toccando un uomo, e per di più santo, non dice: “Tu, brutta zozzona!, come di permetti di toccare un uomo di Dio santo come me?”, ma le dice: “La tua fede ti ha salvato” (Matteo 9,22; Marco 5,34; Luca 8,48).

d) esattamente come Dio non chiede neanche ai pastori, accorsi alla nascita di Gesù, di cambiar mestiere: impuri, ladri, emarginati erano tali e tali resteranno (Lc 2, 8ss.) in quella società.

Gesù ha chiesto invece una cosa diversa dalla confessione (auricolare o collettiva che sia): più di una volta egli ha sollecitato gli uomini a concedere il perdono agli altri. Anche la preghiera deve mirare ad aumentare la propria capacità d’amare, e ci viene rammentato che non esiste amore senza perdono:[15] «quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno perdonatelo» (Mc 11, 25). Perché? «Perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe». Salta subito all’occhio che qui l’evangelista non usa il termine ‘peccato’ pur usato in altre parti del suo vangelo (mentre in varie traduzioni dei vangeli si trova ancora erroneamente proprio questo termine): qui si usa proprio il termine ‘colpa’.

Ma perché perdonare gli altri? Perché per noi increduli occorre un segno visibile, come è stato dato col paralitico (Mc 2, 11s.). La folla ha riconosciuto che i suoi peccati erano stati cancellati solo quando lo ha visto alzarsi, prendersi il lettuccio ed andarsene. Così anche fra di noi, quando abbiamo veramente perdonato chi ci ha offeso, tutti se ne avvedono dal comportamento tenuto. Quindi se Gesù ci dice di perdonare gli altri, è perché così anche il perdono di Dio viene reso manifesto dal nostro aver perdonato gli altri, e quello che conta, tanto per cambiare, è il rapporto con gli altri. Che uno sia perdonato o meno da Dio non cambia poi molto nella sua vita di quel giorno o del giorno dopo (se è ancora vivo); ma che uno sia capace di perdonare gli altri… ci rendiamo conto tutti di come cambia il rapporto con le persone nella sua esistenza quotidiana. Dunque il perdono di Dio, già perfetto, diventa manifesto per gli altri, ed efficace nel singolo individuo soltanto quando esso si traduce in altrettanto perdono,[16] come una condizione sospensiva in un contratto: ti regalo il computer se lo fai usare a tuo fratello; Dio ti perdona se tu perdoni gli altri. Anche papa Benedetto XVI[17] ha riconosciuto che il perdono di Dio può diventare efficace solo in colui che, da parte sua, perdona.

La parabola del debitore disumano (Mt 18, 23ss.) riconferma quest’idea che nei vangeli emerge chiaramente: chi, senza neanche essersi pentito, viene perdonato da Dio che sta più in alto di lui, ma poi non è capace di perdonare chi sta più in basso di lui, rende inefficace il perdono che ha già ricevuto. A questo funzionario è stato condonato un debito talmente enorme che mai sarebbe riuscito a rifondere: gli è stata ridata vita quando ne aveva bisogno, ed ha così evitato di finire schiavo per debiti. Ma lui non fa altrettanto: invoca la giustizia, la ferrea applicazione della legge, nei confronti di chi aveva un piccolo debito verso di lui, e così lo soffoca. Non pretende nulla di illegale, sia ben chiaro; anzi pretende che sia applicata la legge. Ma a lui è stata ridata la vita e il respiro, gratuitamente, mentre ora lui soffoca la vita dell’altro perché vuole che gli sia subito restituito quello che gli spetta per legge. Ancora una volta – come già nell’episodio del samaritano, - dove le persone pie applicano la legge e non toccano il ferito, mentre l’eretico neanche pensa alla legge di Dio e soccorre l’uomo – appellarsi alla Legge, e non applicare la misericordia, significa togliere vita ad un altro. Ecco perché quando uno non è capace di perdonare lega anche l’amore di Dio e rimane lui stesso escluso da questo perdono, che resta legato in cielo. Non è che il Padre non condoni i debiti del funzionario: si è visto nella parabola che il Signore aveva già condonato tutto a quel funzionario; ma questo condono che è concesso in maniera gratuita e anche in maniera anticipata rimane legato in cielo finché non si prolunga in altrettanto condono in terra. Ecco il significato di “Quello che legherete sulla terra e quello che scioglierete…” Quindi chi non perdona gli altri lega il perdono di Dio per sé e chi perdona scioglie questo condono del Padre[18]. Con questa frase non viene dato nessun particolare potere al magistero di permettere e di proibire, perché questo potere di legare e sciogliere viene dato a tutti, dopo essere stato dato a Pietro (Mt 16, 19; 18, 18). La parabola finisce infatti con il funzionario, che invoca l’applicazione della legge, che si vede inficiare il condono, e lo stesso Gesù concluderà: «Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore il vostro fratello» (Mt 18, 35). “Ciascuno di voi”, quindi tutti. Il perdono di Dio è vanificato non da Dio, ma dall’uomo

A ulteriore conferma di quanto appena detto, quando, nel capitolo 18 di Matteo, Gesù spiega le regole di funzionamento della comunità sta parlando a tutti suoi discepoli (Mt 18, 1); e quando pronuncia la frase «tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt 18, 18) sta ancora parlando a tutti i discepoli. Allora, per prima cosa, nel Vangelo di Matteo, si deve prendere atto che questo potere di legare e sciogliere non resta una prerogativa esclusiva di Pietro (Mt 16, 19). La frase detta all’inizio solo per Pietro non può essere interpretata sorvolando sul fatto che è stata estesa a tutti.

Se si sostenesse che questo è un potere riservato ai soli successori degli apostoli, dovremmo coerentemente concludere, essendo unitario tutto il discorso di Gesù al capitolo 18, che:

a) anche lo scandalo che fa perder la fede e allontanare i più umili dalla comunità (Mt 18, 6) riguarda solo gli apostoli, e non gli altri discepoli, i quali possono perciò dormire sonni tranquilli, anche se sgomitano per i primi posti all’interno della loro comunità;

b) solo dove due o tre apostoli (e oggi vescovi) si riuniscono, Gesù starà in mezzo a loro (Mt 18, 20).

Invece neanche la Chiesa ufficiale ritiene che questi brani debbano valere per i soli apostoli, per cui non si vede perché il solo passaggio del legare e sciogliere dovrebbe essere separato da questo contesto e valere ad esclusivo vantaggio del collegio degli apostoli, e non dell’intera collettività. Siamo sempre davanti a messaggi che riguardano la responsabilità di tutti gli uomini, e non a un potere trasmesso ai dodici apostoli, e quindi ai loro sostituti (il clero di oggi).

In conclusione, con questo sciogliere e legare non viene affatto conferito un potere al clero di giudicare il gregge: primo perché non si deve giudicare (Mt 7, 1), e poi perché l’inciso va abbinato all’identica frase di Mt 18, 18, dove Gesù ha appena ricordato come ci si deve muovere all’interno della comunità per cercare di non essere pietre di scandalo. Non è possibile interpretare questo “legare e sciogliere” al di fuori del capitolo 18 che va letto per intero. E posto che in questo capitolo Gesù spiega che la comunità cristiana si deve basare sull’amore servizievole e sul perdono, tutti nella comunità (e non solo Pietro e gli altri apostoli) sono invitati a fare questo tipo di azione che ha anche a che vedere col detto rabbinico di sciogliere e legare. All’epoca, dire che una cosa è bene o non è bene, spettava solo a un rabbino in base alla sua autorità. Qui Gesù lo applica all’intera comunità, non solo perché aveva voluto svegliare la gente tutta dicendo che dovevano essere capaci da soli di distinguere fra bene e male (Lc 12, 57: “Perché non guidate da soli ciò che è giusto fare?”), ma dando al principio rabbinico anche un significato diverso come egli stesso spiega attraverso la parabola del debitore disumano: chi non è capace o non è disposto a perdonare (secondo pilastro per far vivere la comunità) sta legando il perdono di Dio, ma per sé, non per gli altri. Chi è capace di perdonare gli altri sta sciogliendo il perdono di Dio per sé. Quindi la comunità deve prendere coscienza di questo: quando uno non è disposto a perdonare, sta lui stesso escludendosi da questa possibilità di perdono, rimane come legato. Pertanto il fratello che non perdona lega il perdono di Dio verso di lui, mentre colui che perdona scioglie questo perdono amorevole.

A questo punto, il perfetto osservante, ancora poco convinto, mi obietterà che nel Vangelo di Giovanni (Gv 20, 23) Gesù sta parlando ai soli apostoli,[19] solo su di essi soffia lo Spirito, e solo ad essi concede il potere di perdonare oppure di rifiutare il perdono dei peccati. Si può rispondere che, nella linea di Matteo, anche questa frase ‘a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete non saranno rimessi’ (Gv 20, 23), è stata interpretata[20] non come un potere dato agli apostoli, un potere dato da Gesù solo a pochi privilegiati, ma come una responsabilità di tutta la comunità dei discepoli. Dopo aver fatto rilevare la stretta analogia con il “legare e sciogliere” dei sinottici, viene infatti messo in evidenza che sono sempre tutti i discepoli, non i soli dodici apostoli, i destinatari dell’apparizione nella stanza a porte chiuse (Gv 20, 19) e quindi la competenza a rimettere i peccati viene sempre concessa a tutti i discepoli: il gruppo ristretto dei dodici, nel quarto vangelo, c’è solo alla conclusione del discorso del pane (Gv 6, 67-70). L’intera comunità cristiana deve essere allora talmente traboccante d’amore (Giovanni usa l’immagine del profumo che inonda tutta la casa nell’unzione di Betania – Gv 12, 1-8) deve essere talmente piena di luce, che quanti sentono il desiderio di pienezza di vita e se ne sentono attratti, hanno il passato cancellato (i peccati antecedenti alla conversione) e quindi possono cominciare una vita nuova. Solo credendo alla parola di Cristo si evita di morire soffocati nei propri peccati (Gv 8, 24). Quanti invece non vogliono accogliere e vivere il messaggio innovativo, man mano che la luce si espande, finiscono col ritirarsi sempre più nella cappa delle tenebre, e dove ci sono le tenebre non c’è vita, ma la morte. Il peccato, dunque, è restare volontariamente nelle tenebre, o tornare ad esse, rinunciando a realizzare il progetto di Dio, dove l’uomo non deve rinunciare a camminare per proprio conto (Gv 5, 9-15)[21].

Che questa – e non quella secondo cui solo il clero ha il potere di perdonare i peccati degli uomini – sia l’interpretazione più corretta, sembra trovare ulteriore conferma innanzitutto nello stesso Giovanni (Gv 3, 17; 12, 47: ove si afferma che non è compito né di Gesù, né degli apostoli di giudicare gli uomini) e perfino nel Padre Nostro, dove si dice «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»; nella versione di Luca, ancor più chiaramente si dice: «perdona i nostri peccati, come noi li perdoniamo a ogni nostro debitore» (Lc 11, 4); mica si dice “perdona i nostri peccati dopo che ci siamo pentiti e confessati davanti al sacerdote”, come invece sostiene la Chiesa. Anche nel Padre Nostro, una delle preghiere più comuni fra i credenti, il proprio perdono verso gli altri è considerato come già avvenuto quando si recita la preghiera[22].

NOTE


[1] Sant’Agostino in www.documentacatholicaomnia.eu, sotto Augustinus, De civitate Dei, 10.5.

[2] San Bernardo, Discorso della cena, 2, in www.documentacatholicaomnia.eu, sotto Bernardus Claraevallensi Abbas, Sermones de tempore: In Coena Domini.

[3] Denzinger 860.

[4] Ad es. all’inizio la Chiesa ha creato i diaconi (At 6, 1ss.), sicuramente non previsti da Gesù.

[5] Lettera Magna indignatione del 6.3.459, in Denzinger 323

[6] Ricca P., Ego te absolvo, Claudiana, Torino, 2019, 57ss.

[7] Denzinger 812.

[8] Denzinger 1679.

[9] Denzinger 1683.

[10] Denzinger 1706s.: va notato come l’elenco dei peccati mortali sia mutato nel corso del tempo. Ad es., per il vescovo di Arles Cesario (503-543) era peccato mortale anche avere rapporti coniugali prima delle feste religiose e durante la Quaresima (Ricca P., Ego te absolvo, Claudiana, Torino, 2019, 57ss.). Quindi, se uno non confessava questo peccato finiva all’inferno; oggi, non più.

[11] Brodick J., Le origini dei Gesuiti, in www.documentacatholicaomnia.eu.

[12] Ricca P., Ego te absolvo, Claudiana, Torino, 2019, 119s.

[13] Vedi n. 553 del Catechismo. Chacon F. e Burnham J., Beginning Apologetics 1, How to explain and defend the Catholic Faith, ed. San Juan Catholic Seminars, Farmington (USA), 1998, 24. Cenci A.M. La confessione, ed. Gribaudi, Milano, 1996, 3; secondo l’autrice, questo potere di perdonare o non perdonare, dato ai soli apostoli, è il fondamento della confessione.

[14] Nei vangeli non vien detto cioè espressamente quello che sostiene il magistero.

[15] Maggi A., Roba da preti, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 73.

[16] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 111.

[17] Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 189.

[18] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 111.

[19] Cenci A.M. La confessione, ed. Gribaudi, Milano, 1996, 32: «Egli disse agli Apostoli: “… Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi…”».

[20] Schnackenburg R., Il Vangelo di Giovanni – Commentario teologico del Nuovo Testamento, ed. Paideia, Brescia, 1981, P.III, 540. Wengst K., Il Vangelo di Giovanni, ed. Queriniana, Brescia, 2005, 744. Santi Grasso, Il Vangelo di Giovanni, ed. Città Nuova, Roma, 2008, 771s. Maggi A., Da siate santi a compassionevoli, relazione tenuta a Rovigo nel 2009, 60 s.

[21] Mateos J. e Barreto J., Il Vangelo di Giovanni, ed. Cittadella, Assisi, 1982, 261.

[22] Wengst K., Il Vangelo di Giovanni, ed. Queriniana, Brescia, 2005, 765.