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Love never dies - Immagine tratta da commons.wikimedia.org

Fate onnigamia, non fate la guerra



di Stefano Sodaro

Le notizie dal Medioriente – da Israele e dalla Striscia di Gaza – lasciano senza fiato. La curatrice della nostra rubrica “The Rabbi is in”, Miriam Camerini, si trova proprio in Israele - da Gerusalemme ci invia i suoi articoli - e la nostra apprensione è costante.

C’è un tema che non sembra così elegante e alla moda affrontare, eppure ci sembra decisivo, vale a dire il rapporto tra violenza e salute mentale. E poiché la violenza massima – la morte – si apparenta all’amore, come insegna il Cantico dei Cantici -, ne è imbricato pure il rapporto violenza/amore.

La guerra disegna un proprio perfetto ordine mortifero: ci sono nemici e alleati, c’è una parte e l’altra, armi contro armi, bombe contro razzi, confini, postazioni, schieramenti, divise ben distinte, gli uni di fronte agli altri, ragione e torto, vittoria e sconfitta, mors tua vita mea.

L’amore comunemente inteso presenta, forse con sorpresa ma nessuno si scandalizzi, analoghe ferree esigenze: gesti che lo traducono e gesti che lo negano, gesti esclusivi, privatissimi, e gesti pubblici, ammissibili alla vista ed al contegno sociale perché sostanzialmente “non amorosi” e dunque non aggressivi nei confronti delle altrui sensibilità e degli altrui pudori. Tutto a posto.

In amore c’è l’amico e il nemico, il concorrente e il vincente, il trionfatore e il vinto.

Vae victis anche in amore: chi è dentro il sacro recinto d’eros è dentro, fortunato lui, ma chi ne è fuori, ne è fuori, mal per lui, è ormai inoffensivo, parce sepulto.

È così vero che l’acquietamento e la pace si ritrovano dentro i confini della normalità? E che cosa sarebbe tale normalità? La rispondenza a precisi codici di comportamento? A chi qui scrive sembra che questi codici, divenuti etica laica più dogmatica di qualunque dogma religioso – cui bisogna assuefarsi senza colpo ferire (appunto) -, si traducano in un effettivo tradimento della Tradizione, o delle Tradizioni.

La dinamica amore/morte, eros/thanatos, che prima delle acquisizioni di Freud si ritrova nel già menzionato Cantico dei Cantici, non può essere compressa dai codici e dagli articoli del buon vivere, che altra precisa funzione hanno, esattamente all’insegna dell’esorcismo di amore e morte da ogni intollerabile complessità, da ogni inestricabile affastellamento di sentimenti, emozioni, pensieri.

I ruoli amorosi sono tutti codificati: il marito, il padre, il figlio, lo zio, il nonno, e tutto ovviamente declinabile al femminile.

Eppure qualcosa non torna.

Se il pericolo dell’instabilità etica paralizza ogni riflessione critica al riguardo – e se il terribile ’68, anche soltanto la sua memoria storica, fa orrore a molti -, la ricerca di un senso per vivere non si ferma davanti a divieti ed inibizioni, la domanda non si smorza, la sua voce non si perde, l’interrogazione non tace e non accetta di restare urlo senza risposta.

Che significa amare?

Le tante epifanie amorose che l’universo mondo conosce – fidanzamento, matrimonio, maternità/paternità, colleganza, compagnia, cameratismo, affinità di cultura e di gusto intellettuale – bastano? Esauriscono le parole dell’amore e le sue possibili narrazioni? Tutto insomma è stato detto e va semplicemente ridetto, ripetuto? Tradizione è questo?

Forse non è affatto così. Forse la strada è un’altra.

Forse è necessario il coraggio di una vera e propria “filosofia personale”. Di una propria sistematica di pensiero che destrutturi, scardini, ridiscuta ogni pacifica acquisizione esterna a sé e riproponga le domande di sempre senza silenziarle con le risposte di sempre.

Ognuna ed ognuno di noi ha una propria risposta alla ricerca d’amore e molto spesso non è esprimibile a parole, proprio perché il linguaggio è nuovo e le parole non ci sono, nessun altro le ha inventate al posto nostro, tocca a noi.

L’onnigamia è una di quelle parole inesprimibili, che mentre butta lì un sostantivo non poco provocatorio non riesce a spiegare di più, a dire altro. Si ferma, fa silenzio, ma avverte una verità proprio indicibile, intraducibile con i dizionari già editi.

Forse si apparenta in qualche modo all’epochè della fenomenologia di Husserl.

Nella Prefazione – datata da Milano il 16 settembre 1968 - alla terza edizione italiana de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl, Enzo Paci afferma: «Dio è vita, ma non ha realtà.» (Op. cit., Il Saggiatore, 2015, p. 28) Confesso di essere rimasto folgorato. Dio è vita, ma non ha realtà.

La realtà – la res - ha una propria evidenza che coincide con una pretesa di riconoscimento assoluto, innegabile, assai prossima alla violenza.

La guerra è reale, la realtà è violenta.

Essere realisti è ammaestramento educativo che spesso si risolve in una tremenda frustrazione, ammonimento ad abbandonare ogni sogno, utopia, poesia, per “restare con i piedi ben fissati a terra”.

L’onnigamia fa invece alzare i piedi da terra. Troppo?

Può giudicarlo – torniamo al punto di partenza – la nostra salute mentale, il nostro star bene dentro.

Una delle pretese di eros è il possesso, il riconoscimento di un desiderio che possa finalmente essere ospitato, una presa, un afferrare, che, siccome è pretesa reciproca, ha le dimensioni del contratto, dell’accordo, del do ut des. Ma l’onnigamia non sta qui ed abbiamo il sospetto che neppure la salute della nostra mente stia qui.

La resistenza alla violenza è una parola non detta, un enunciato non pronunciabile, che si ribella ad ogni ordine costituito che pretenda di decidere quando sia lecito amare e quando no, chi sia legittimato ad amare e chi no, chi possa donare fiori e chi no, chi possa riceverli e chi no, quale significato debba essere attribuito ad un dono, ad un gesto, al sussurro “ti amo” e quale no.

No, non c’è un senso unico, non c’è un senso vietato.

Nel momento in cui l’amore vieta e ordina, apre, spalanca le porte alla violenza, alla guerra e si suicida, si trasforma mostruosamente in odio, il suo contrario.

Sono facilmente constatabili coppie in cui l’uno, o l’altra, odia il mondo, guarda al mondo con uno sguardo carico di disprezzo e risentimento. “Siamo noi due il mondo”. È esattamente il contrario dell’onnigamia, mentre è esattamente la stessa faccia della guerra, della violenza.

Il pléroma, di cui parla il verso 13 del capitolo 4 della Lettera agli Efesini di Paolo - che oggi si legge nelle chiese cattoliche di rito romano -, che cos’è? Una pienezza di che tipo? Un assaporamento di quale armonia profonda? Una musica che ha più a che fare con il silenzio che con il suono, ammesso e non concesso che si possano scindere.

Non esiste alcuna pienezza nella violenza della guerra, che dà ebbrezza ma non dà senso, non lo produce, non lo rivela, non lo genera.

Restiamo con il fiato sospeso per le notizie che giungono dalla Terra dove tutto ha avuto, ed ha ancora, inizio, opponendo alla violenza un’illogica evocazione dell’inesprimibile, la scelta di stare dalla parte della debolezza di chi ama senza scopo, senza fine, senza fini – per dirla alla Melloni (http://www.fscire.it/index.php/it/collane/il-mulino/amore-senza-fine-amore-senza-fini/) -.

Che vinca l’onnigamia, che perda la guerra.

La seconda sappiamo benissimo cosa sia, la prima no.

E così dev’essere.

Buona domenica.