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Fate l’amore, non fate la guerra

Rileggendo Tonino Bello a 500 anni dalla morte di Giulia Farnese 


di Stefano Sodaro


Tonino Bello - foto tratta da internet, si resta a disposizione per il riconoscimento di eventuali diritti

Il 2 novembre del 1990, nella Cattedrale di San Giusto a Trieste durante la Veglia che introduce alla Festa del Santo Patrono il 3 novembre, mons. Tonino Bello, invitato dal vescovo Lorenzo Bellomi e che proprio domani, 18 marzo, avrebbe compiuto 89 anni, predicò raccontando una specie di parabola che turbò, scandalizzò ed entusiasmò l’assemblea di una chiesa gremitissima.

Narrò che una sera, in un certo hotel, giunse una coppia di giovani sposi ed un attempato professionista. Ai primi fu data la chiave della stanza numero 40, al secondo quella della stanza numero 41. Si presentarono – “piacere”, “piacere” – e si augurarono la buona notte.

Il giorno dopo, al mattino, prima della colazione, il distinto signore andò a lamentarsi alla reception: “Non ho potuto chiudere occhio a causa dell’esuberanza dei due sposini, guaiti e gemiti senza fine. Ma su!”. L’addetto si stupì fino allo sbalordimento: “Guardi, signore, che questa notte è morta una persona proprio al numero di stanza accanto alla sua, al 40. Ed il medico legale ha precisato che deve avere gridato ed essere rimasto agonizzante per tutta la notte.”

Il ragguardevole cliente dell’hotel sbiancò: “Che cosa sta dicendo? Al numero 40 non c’erano gli sposi, scusi? Cosa sta dicendo?”.

La risposta dell’addetto lo gelò: “Al numero 40 del terzo piano, signore, ma lei era al secondo. Tutti i nostri piani hanno numerazioni separate!”.

Ricordo come fosse ieri il fremito che attraversò i presenti ed il trambusto in presbiterio tra i monsignori del tempo.

Subito dopo, appena terminato il racconto, don Tonino invitò a distruggere in mille, metaforici, pezzetti di carta quell’immagine.

Che cosa aveva voluto dire?

Copia di Pietro Facchetti (1539-1613) di un affresco distrutto del Pinturicchio, dove sotto le spoglie della Vergine Giorgio Vasari identifica Giulia Farnese - Musei Capitolini, 2017, immagine tratta da commons.wikimedia.org

A mio modestissimo parere, semplicemente che continuiamo imperterriti a contrapporre amore ad amore, agápe ad éros, carità a passione, raziocinino ad innamoramento.

Nel suo volume Sentinelle del mattino, del 1990, che mons. Bello volle regalarmi personalmente vergandolo con le parole scritte che compaiono nella foto, il vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi sogna di incontrare nel deserto Gesù di Nazaret e, a pag. 77, gli si rivolge con queste parole: «Quale volto di ragazza della mia adolescenza mi ha fatto battere il cuore così?».

La storia della Chiesa è fatta anche di – sia permessa per una volta un’espressione non forbitissima – “amorazzi”. Non quelli puri di don Tonino, ma, ad esempio, quelli gravemente impuri di un papa come Alessandro VI, già cardinale Rodrigo Borgia, che perse la testa per una ragazza che volle divenisse la sua amante, Giulia Farnese. Sabato prossimo, 23 marzo 2024, saranno esattamente 500 anni dalla morte di “Giulia la bella”, soprannominata, per celia e per blasfemo sussiego, che le veniva rinfacciato, “sponsa Christi”, in quanto “compagna” – si direbbe oggi – del “Vicario di Cristo”.

Nel viterbese, nella Tuscia, nei luoghi stupendi che circondano il Lago di Bolsena, fervono iniziative ed eventi per fare memoria del personaggio di Giulia.

La sua vita fu affascinante.

Papa Borgia le impose un matrimonio, da lei nemmeno ipotizzato, al solo fine di renderla “onesta” e poterla così continuare a frequentare senza ostacoli, comprando a suon di elargizioni e benefici il consenso del povero marito.

Eppure ad un certo punto, dopo aver tentato invano di allontanarsi dal papa amante una prima volta, Giulia riuscì ad abbandonare Alessandro VI per sempre, rimanendo vedova tre anni prima della morte del Pontefice, che però non la cercò più. E si sposò nuovamente, questa volta, sembra, davvero per amore. E amministrò con oculatezza e saggezza il feudo di Carbognano.

Gesù e la Cananea - Codex Egberti, Fol 035v - immagine tratta da commons.wikimedia.org 

Come si fa a mettere insieme l’innamoramento profetico del vescovo Tonino Bello con l’amorazzo del Papa regnante dal 1492 al 1503? Non si può.

Certo che non si può. Ma forse si deve.

Perché il prisma di quel sentimento che costituisce l’energia primaria dell’Universo, “che move il sole e l’altre stelle”, ha colori sfavillanti, di meravigliosa, armoniosa, attrazione, ma anche lampi oscuri, bagliori paurosi, scintille e fiamme pericolose.

Eppure.

Eppure cosa?

Eppure il bisnipote di Alessandro VI, il duca di Gandìa divenuto poi generale dei Gesuiti, Francesco Borgia, nato appena 7 anni dopo la morte del potentissimo – e per noi, diciamolo, incredibile se non “assurdo” – bisnonno, il papa appunto, salì agli onori degli altari il 20 giugno 1670, comparendo tuttora la sua memoria liturgica al 30 settembre di ogni anno.

Dunque al bisnonno peccaminosamente amoroso – con eccessi inconcepibili per le nostre cronache pontificali (meno magari per quelle solo clericali) - seguì un bisnipote devotamente santo, addirittura Preposito Generale della Compagnia di Gesù. San Francesco Borgia.

Tutto si ricompone, sembra. E chissà quali discussioni, nell’aldilà, tra avo e discendente.

Maria di Nazaret - elaborazione informatica di Átila Soares da Costa Filho, per sua gentile concessione

Trent’anni fa, quando morì don Tonino, nel 1993, la coscienza femminista dentro la Chiesa era questione quasi completamente sconosciuta a quelle stesse assemblee cattoliche che fremevano davanti alle provocazioni del vescovo pugliese. Oggi cosa avrebbe detto don Tonino?

Ma la storia non si fa con i “se”, lo sappiamo benissimo.

E tuttavia c’è una scialuppa di salvataggio sulla quale salire per provare a scandagliare e portare alla superficie ciò che già allora si stava, in effetti, muovendo in profondità: la questione delle donne – e donna fu Giulia Farnese, amante di papa Alessandro VI, come di sembianze femminili sembra quel Cristo di cui si dichiara innamorato il presule di Molfetta – ritorna potente nella mariologia di don Tonino Bello.

La parabola narrata a San Giusto quasi 34 anni fa, la storia della Chiesa fatta comunque di donne - anche se la loro presenza viene taciuta, quando non eliminata dalla storiografia canonica -, la profezia in bocca a vescovi, papi non rinascimentali ma attuali, contemporanei, preti, laici e laiche di ogni estrazione e provenienza, si concentrano nel disegnare un quadro, nel tingere un affresco, completamente rovesciato rispetto al bellicismo che in questi giorni, in queste ora, invade ogni mezzo di comunicazione, quasi all’insegna di una rinnovata “bellezza della guerra”, quasi quasi come caposaldo culturale da cui non è virile prescindere e dunque non si può.

C’è un “tutto” – pur composto da amori, passioni, persino omicidi (se pensiamo alla figura di Cesare Borgia, uno dei figli più celebri di Alessandro VI) – che non va nella direzione della distruzione, della catastrofe, del non senso, bensì in quella rivelativa, “apocalittica”, opposta alla prima e tremendamente contraddittoria, senza dubbio, di una capacità d’amare “a ognuno come gli va”, che adesso non sembra andar più di moda. E che, invece, ci salverebbe.

Mentre al piano superiore si celebrava una festa  dell’amore, al piano di sotto un uomo moriva, disse don Tonino quella sera a San Giusto, a Trieste. E figuriamoci se evocare una festa  dell’amore potesse allora, e possa ancora oggi, essere minimamente consentito ad un uomo di Chiesa.

Forse, nell’aldilà, la distanza di 500 anni è abolita e possono assieme parlare d’amore sia madonne quattrocentesche, non sante né vergini, sia papi, sia vescovi, sia innamorate ed innamorati di ogni specie.

Buona settimana.

La conversione del Duca di Gandía - José Moreno Carbonero, 1884, Museo del Prado - foto tratta da commons.wikimedia.org con la seguente descrizione: «L’opera rappresenta la conversione di San Francisco de Borja (1510-1572), marchese di Lombay e poi IV duca di Gandía, dopo aver contemplato il cadavere putrefatto dell’imperatrice Isabella del Portogallo, moglie dell'imperatore Carlo I di Spagna. L’imperatrice morì a Toledo il 1 maggio 1539 e il suo corpo fu trasferito a Granada, città dove si svolse la scena raffigurata nel dipinto. Quando il Duca vide che il cadavere dell’Imperatrice, la cui bellezza aveva affascinato l’intera corte castigliana, si era decomposto a causa del caldo del viaggio, il nobile decise di “Mai più, mai più servire un signore che mi possa morire.”», entrando pochi anni dopo nell’Ordine dei Gesuiti, fondato pochi anni prima da Sant’Ignazio di Loyola e di cui diventerà generale.»