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Servi di Dio?



di Dario Culot

Riconoscendo la superiorità della divinità, l’uomo le si sottomette, ed esprimendo la propria piccolezza davanti alla sua riconosciuta superiore potenza, si mette in ginocchio. Gli dèi della religione, ma anche il Dio unico della religione, si compiacciono di ricevere doni e sacrifici dagli uomini sottomessi. Ecco, allora, che viene fuori un’immagine della divinità perfettamente sovrapponibile all’immagine di un sovrano terreno che sta su un trono in alto: come nell’antichità il sovrano, persona che deteneva anche la condizione divina, stava più in alto di tutti gli altri uomini, così anche la divinità inaccessibile veniva necessariamente collocata in alto. Come era impossibile all’uomo comune accedere direttamente al re, e per farlo doveva seguire un rigido cerimoniale di corte che comprendeva, una volta davanti al sovrano, inchinarsi o inginocchiarsi o addirittura prostrarsi, ugualmente non era possibile agli uomini comuni accedere alla divinità se non attraverso rigidi cerimoniali, in luoghi e spazi riservati a questo scopo.

Del resto dice ancora oggi il n.358 del Catechismo della Chiesa cattolica, come già diceva l’art. 351 del Catechismo di Pio X, che l’uomo è stato creato per servire (oltre che adorare e amare) Dio. Nel catechismo che ancora oggi s’insegna ai bambini cattolici d’America si trova scritto – come ai tempi di Pio X – che per raggiungere la felicità in cielo occorre conoscere, amare e servire Dio in questo mondo.[1] Analogamente prevede l’Islam: Quegli è Allah, il vostro Signore, non v’è Dio se non Lui, d’ogni cosa Creatore, servitelo dunque(Corano, sura VI, 102).

Che bello avere tanti bambini per farne tanti piccoli servi di Dio. Ancora in questi termini si esprimono oggi tanti ferventi cattolici, in perfetta sintonia con quello che prevedevano le religioni nell’antichità.

Quando si sente di una coppia che vorrebbe fare un figlio solo per utilizzarne in futuro gli organi, si concorda normalmente nel dire che quella è una coppia egoista. Perché? Perché il figlio a quel punto è voluto e prodotto solo come mezzo per soddisfare le esigenze di altri esseri umani, il che, di per sé solo viola la dignità e la libertà della persona umana. Realizzare un essere umano perché sia un domani fornitore di cellule, tessuti od organi costituisce una vera e propria strumentalizzazione della persona umana, che viene ridotta a mezzo[2]. Analogamente, stabilire che chi nasce dovrà servire, vuol dire far nascere quel bambino già schiavo, perché c’è un’evidente volontà di impedirgli il suo destino autonomo. Quindi, se fosse vero che Dio crea gli uomini per essere servito, saremmo di fronte a un bell’egoista, altro che Dio-amore.

Eppure, nella Bibbia si affermava proprio che l'uomo aveva come compito principale quello di servire il suo Dio (Dt 13,5); “voi servirete Jahvè” (Es 23,25); “Parla Signore, il tuo servo di ascolta” (1Sam 3, 9-10); e Dio stesso parlava di Mosè come del suo servo (Nm 12, 7). In Ml 1, 6, Dio si presenta come padre, ma soprattutto come padrone, tanto che si ritiene offeso perché le offerte fattegli non sono degne di Lui, e si sente disonorato perché i suoi servi non gli si fanno sacrifici graditi. Lo stesso san Paolo si autodefinisce servo di Cristo (Rm 1, 1: Fil 1, 1), e anche l’Apocalisse (Ap 1, 1) usa questo termine, caratteristico dei profeti nell’antica alleanza,[3] ma probabilmente anche per contrapporlo al servo dell’imperatore romano[4]. Infatti l’Apocalisse insegna che solo Dio va onorato, e riprende le polemiche dei profeti biblici (Is 14, 13-15 contro il re di Babilonia; Ez 28, 2-8 contro il re di Tiro) adattandole contro il culto divino all’imperatore[5].

Anche nell’Islam lo scopo della creazione dell’uomo è la servitù (abdiyyah) verso il proprio Signore, servitù che è perfetta solo nel perfetto Profeta: la servitù consiste nel compiere appieno la volontà del proprio Signore. Nelle sure meccane[6] del Corano il contenuto del patto con Dio è sempre la servitù. L’uomo diventa strumento nelle mani di Dio e, se serve perfettamente, manifesta direttamente la volontà divina. Abbiamo visto che anche in quella religione c’è chi crede di servire Dio ammazzando gli infedeli o distruggendo beni antichi di valore inestimabile.

La religione, insomma, sembra insegnare che l’uomo ha come compito principale quello di servire il suo Dio, e quindi i diritti di Dio vengono al primo posto. Tutto quello che fa il credente, lo fa per Dio.

Ma cosa ha detto Gesù, stando ai vangeli? Gesù ha proposto una nuova relazione con Dio. Se crediamo che il volto di Dio si è rivelato nell’uomo Gesù, guardando Gesù sappiamo che Dio è il Dio dell’amore misericordioso, è il Dio dei peccatori, il Dio dei perduti, il Dio degli umili. Mentre Mosè imponeva l’obbedienza a Dio mediante l’osservanza della legge divina, in un rapporto servo-padrone, Gesù ha proposto una nuova alleanza fra figlio e Padre. Incarnandosi Dio si è umanizzato. Ossia, Dio si fa presente per noi non solo nell’essere umano Gesù, ma in ogni essere umano. Perciò noi non incontriamo il Dio di Gesù nel «sacro», ma nell’«umano». Ecco perché Gesù sottolinea chiaramente che la migliore relazione con Dio non si gioca con la relazione con Dio, ma con la migliore relazione possibile con gli altri esseri umani. La religiosità di Gesù si vive nell’alterità[7]. Voler tutelare i diritti di Dio, voler star bene con Dio, mentre si mantengono relazioni distaccate o negative con altre persone, è il più grande inganno di cui soffrono le persone religiose. Per Gesù, il credente è colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Noi saremo veri credenti se vivremo non per sottomettere gli altri uomini, ma per far fiorire la vita degli altri attorno a noi. Via via che assomiglia sempre di più al Padre, l’uomo diventa vero figlio di Dio fino ad assume la condizione divina, il che avviene quando l’uomo ha eliminato in sé steso ogni traccia di disumanizzazione.

Il termine servo, invece, resta del tutto estraneo al messaggio dei vangeli sinottici, dove la relazione fra Gesù ed i discepoli viene descritta utilizzando i termini di fratello, sorella e madre, che di per sé escludono la relazione di inferiorità e sottomissione propria del servo[8]. L’espressione servo di Dio non compare mai neanche nelle lettere di Giovanni e nemmeno nel suo Vangelo[9] dove, anzi, vien detto chiaramente che Gesù chiama i suoi discepoli amici (Gv 15, 15; cfr. anche Mc 2, 19; Lc 12, 4). Fra essere chiamati servi oppure amici è evidente che corre una bella differenza,[10] ed è altrettanto evidente che solo la seconda espressione riflette il cambiamento di relazione fra Dio e gli uomini espresso nel nuovo rapporto dei discepoli con Gesù. Fra amici non ci sono gerarchie, ma tutti sono uguali. Allora dovrebbero spiegarci perché per i cattolici doc continuiamo ad essere servi, quando Gesù ha detto papale papale: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo Signore; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15, 15). È facile che un amico ami spontaneamente un altro amico, difficile che il servo ami spontaneamente il suo padrone. E in effetti Dio preferisce essere amato per piacere piuttosto che per dovere[11]. Fra amici non esiste alcuna gerarchia piramidale, ed abbiamo visto che effettivamente la figura che meglio si attaglia a Gesù è il cerchio. Dunque Dio non è geloso della sua divinità, e per questo ha rinunciato al potere e alla sua posizione di privilegio per poter diventare nostro “amico” e per poter entrare il più intimamente possibile nella nostra sfera umana senza abbagliarci o senza umiliarci con la sua abissale superiorità. Se questo è vero, allora è la gerarchia ecclesiastica che sta usurpando quei privilegi a cui Dio stesso ha rinunciato per amore, creando una religione in cui identifichiamo con Dio tutti quei signori paludati che lo rappresentano, dopo essersi posizionati su un gradino più alto del popolo, ridotto invece a gregge.

Se Gesù, che avrebbe ben potuto farsi lavare i piedi dai suoi discepoli dal momento che era veramente superiore ad essi, non lo ha fatto, ma anzi si è posto sotto di loro lavando loro i piedi, com’è che nel clero si fanno chiamare “maestro”, “eccellenza”, “eminenza”? com’è che si fanno baciare l’anello? com’è che accettano che le persone s’inginocchino davanti a loro? È psicologicamente impossibile non sentirsi superiore agli altri e non lasciarsi servire dagli altri quando per anni tutti ti chiamano eccellenza, eminenza, tutti s’inchinano e s’inginocchiano per baciarti la mano, tutti ti cedono il passo e ti danno sempre ragione[12]. Per questo Gesù aveva ammonito gli apostoli affinché nessuno si facesse chiamare maestro, nessuno si facesse chiamare padre, nessuno si facesse chiamare capo, ma il più grande si facesse riconoscere solo per il suo più grande servizio offerto (Mt 23, 8-12). Pietro, a differenza di tanti gerarchi della Chiesa di oggi, aveva alla fine capito molto bene la lezione: quando il centurione Cornelio si prostrò davanti a lui, lo rialzò subito dicendo: “Alzati! Anch’io sono un uomo come te” (At 10, 26). E lo stesso avviene quando l’autore dell’Apocalisse cade ai piedi dell’angelo, e questi immediatamente lo rimprovera rammentandogli che solo Dio è da adorare (Ap 19, 10). Sarebbe bello vedere un’eminenza che ritira imbarazzato la mano quando qualcuno cerca di baciargli la mano inanellata, profondendosi in grandi inchini. E, a proposito, a che serve l’anello se non dimostrare ancora una volta il proprio rango superiore? Dio, da ricco che era, si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (2 Cor 8,9). Attenzione: ci soccorre non con la ricchezza, non con l'onnipotenza, come sarebbe logico, ma con la povertà. La nostra fragilità di creature si vince allora attraverso l’incontro con creature fragili come noi che si abbracciano, si accarezzano, posano su di noi il loro sguardo buono. C’è da domandarsi: i nostri vescovi sanno farsi poveri così, oppure la religione ha finito col dare a tanti uomini di Chiesa occasioni di prestigio, rendendo loro difficile applicare l’idea che Gesù non è venuto per essere servito, ma per servire? (Mt 20, 28).

Mi obietterà qualche cattolico non ancora convinto che in Lc 1, 38 si legge che Maria disse: «eccomi sono la serva del Signore». E allora, se la Madonna è serva, noi possiamo essere forse qualcosa di diverso? In effetti, Maria è l’ultima serva del Signore perché, da fedele israelita era ancora attaccata alla vecchia alleanza, pensava di doversi inserire ancora nell’antica tradizione,[13] dove l’uomo è al servizio di Dio. Maria e Giuseppe, anche dopo aver accettato la nascita straordinaria, sono ligi alla legge mosaica, tant’è che, dopo la nascita di Gesù, portano il bambino al Tempio per adempiere alle prescrizioni legali, per rendere Gesù figlio di Abramo con la circoncisione ed il riscatto, senza aver ancora capito che Gesù è figlio di Dio, non di Abramo. Ma mentre c’è la legge che spinge Maria e Giuseppe verso il Tempio perché sono ancora succubi della legge, c’è qualcuno che è già contrario ed è lo Spirito che emerge prepotentemente in Simeone. Spirito e legge non possono convivere, l’uno esige la eliminazione dell’altro. A differenza di Zaccaria, quel sacerdote giusto, pio, ma scettico che non si aspetta più niente, Simeone riconosce nel bimbo il futuro, riconosce nel piccolo le tracce dell’Assoluto. Simeone, che vede in Gesù la luce per tutte le genti e non il Messia che tutti si aspettavano e che avrebbe reso Israele il dominatore dei pagani, si oppone ai genitori, ma Maria non capisce,[14] come non capiva l’adorazione dei pastori, ma in cuor suo riflette su tutti questi avvenimenti. Il percorso di Maria sarà una strada inizialmente di totale incomprensione[15] (Mc 3, 21; Mc 3, 31-34; Mt 12, 46-50; Lc 8, 19-21) che inizialmente vedrà Maria insieme al suo clan protesa perfino ad andare a riprendersi quel figlio ritenuto pazzo che predicava in modo tanto strano, e solo dopo una lunga e sofferta scelta accetterà l’insegnamento del Cristo, diventerà sua discepola e lo seguirà fin sotto la croce.

Il rapporto che Gesù vuole che noi abbiamo con lui e con il Padre, è dunque un rapporto di amicizia, e l’amicizia presuppone l’assenza del timore (di Dio), presuppone una piena confidenza e una profonda intimità. Di più: l’amicizia presuppone un rapporto di sostanziale parità, dove l’uno si lega all’altro e ha interesse al bene dell’altro. Infatti, quando i farisei e gli stessi discepoli di Giovanni Battista chiedono come mai il gruppo di Gesù non pratica il digiuno, Gesù risponde loro: «Possono forse digiunare gli amici intimi dello sposo (cioè i figli del baldacchino nuziale, gli amici più intimi che dovranno controllare la verginità della sposa) mentre lo sposo è con loro?» (Mc 2,19; Mt 9, 15). Se quindi è questo il tipo di rapporto che Gesù intende avere con i suoi (e quindi con noi), quando seguiamo le indicazioni del catechismo – che ci insegna la sottomissione e l’ossequioso rispetto verso Dio - siamo lontani anni luce da questa intimità con Dio. Ma siamo anche anni luce lontani da un normale rapporto normale, seppur rispettoso, come fra padre e figlio. Sarà anche vero – affermano i credenti fermi al Catechismo - che Gesù ci dice “non vi chiamo servi, vi chiamo amici,” ma Lui è pur sempre Dio. Insomma, questo Dio sarà anche nostro amico, però, visto che è sempre Dio, è molto più prudente e sicuro usare certe precauzioni, e pensare che quelle parole Gesù le ha dette tanto per scherzare, ma non le pensava realmente; in ogni caso, è più sicuro mantenere una distanza di rispetto e di timore, e ricordarsi sempre qual è il proprio posto nella scala gerarchica. Questo significa, però, andare contro il vangelo e sostanzialmente negare l’affermazione cattolica secondo cui noi possiamo veramente diventare figli di Dio. Se Dio vuol essere trattato come Padre (Mt 6, 9-11) l’uomo non può e non deve comportarsi come un servo, ma deve comportarsi come un figlio (Mt 5, 45). Come figli, non vi sentireste imbarazzati a inginocchiarvi davanti a vostro padre?

I primi cristiani, questo, lo avevano capito sicuramente meglio di noi: pensiamo al modo di pregare. Nel mondo antico quando un padrone chiamava un servo, il servo arrivava di corsa e s’inginocchiava. Che significa mettersi in ginocchio? Vuol dire che non ci si può più muovere, perché non siamo come i samurai giapponesi che si muovono velocemente anche in ginocchio, portando tecniche micidiali di difesa e attacco anche da quella posizione, detta suwariwaza. Non basta: mentre s’inginocchia, il servo mette anche le mani giunte o le incrocia sul petto: cioè la totale sottomissione, il blocco del movimento. Ebbene, spesso, ancora oggi, molti pregano così. Per non dire di quei casi più rari in cui il fedele si distende prono a terra con le braccia aperte a croce: la cristallizzazione totale del movimento. Pensiamo a quante volte ci s’inginocchia durante la messa tridentina. Continui inchini e genuflessioni, che riflettono adorazione o penitenza, sono frequentissimi nel rito liturgico tanto caro ai conservatori. Perché? Perché evidentemente Dio sarà anche Padre, sarà anche amico, ma viene tuttora concepito come un padrone orientale, e quindi giù in ginocchio con le mani giunte, come i servi. Ora, vi chiedo: avete mai visto un amico che si mette in ginocchio o si genuflette in continuazione di fronte all’altro? Io no: gli amici al più si abbracciano calorosamente. E lo stesso quando s’incontra dopo qualche tempo il proprio padre. Ma allora inutilmente Gesù ha insistito sul fatto che Dio è Padre, o che noi siamo suoi figli o suoi amici. Invece i primi cristiani, che avevano accolto questa esplosiva novità, avevano capito che non si doveva pregare affatto con questo atteggiamento di sottomissione, tipico degli schiavi. Si pregava in piedi perché in piedi è l’atteggiamento della persona amica e libera. E poi, non le mani giunte, ma le mani alzate per accogliere questo amore. Basta guardare i dipinti nelle catacombe,[16] per vedere che i cristiani di allora pregavano con le mani alzate, in segno di accoglienza dell’amore del Padre. Nelle nostre chiese, solo dopo il concilio Vaticano II, si è introdotto saltuariamente questo modo di pregare quando si recita il Padre Nostro; ma molte persone pie si sentono ancora in colpa se non si mettono in ginocchio al momento dell’elevazione[17] o al momento di ricevere l’ostia, ed in effetti anche papa Benedetto XVI era dell’idea che la comunione la si deve ricevere in bocca ed in ginocchio per dare un segno di profondo rispetto,[18] come se gli apostoli si fossero messi in ginocchio quando Gesù aveva spezzato e dato loro il pane[19].

Nella vita religiosa, dove ancora predomina l’idea di essere, se non proprio schiavi, almeno servi di Dio, il servo si mette al servizio di Dio, ma poi si aspetta naturalmente una ricompensa; si legge, ad esempio nell’Apocalisse (Ap 11, 18): “È giunta l’ora della tua ira, il tempo di giudicare i morti, di dare la ricompensa ai tuoi servi.” E ancora oggi il Catechismo della Chiesa cattolica (nn. 2006 ss. Catechismo) afferma che la retribuzione è dovuta per azioni riconosciute buone. Questa, dunque, è ancora oggi la caratteristica delle persone che vivono all’interno del mondo religioso, nell’osservanza dei precetti e della legge anche quando questa legge le rende appunto dei servi, incapaci di autonomia e di libertà. “Ci sono i tuoi comandi, mio Signore; io ti servo senza discutere, ma poi aspetto la tua ricompensa”. Ma la conferma che questo atteggiamento è lontanissimo dalla Buona Novella, la si trova già nella conosciutissima parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11), solo che raramente dal pulpito ci hanno fatto notare quello che, invece, dovrebbe essere sottolineato. Come ricorderete, il figlio maggiore – per il quale istintivamente noi parteggiamo, proprio perché non abbiamo capito il senso profondo della parabola visto come ce l’hanno sempre spiegata[20] - esprime tutte le sue rimostranze al padre che ha appena accolto con gioia il ritorno dell’altro figlio scapestrato. Se però guardassimo con più attenzione al racconto, capiremmo che il fratello maggiore esprime il suo rifiuto ad entrare in casa attraverso le immagini trite e ritrite dell’atto servile, del comando, della ricompensa, che sono sempre rimasti alla base della nostra religione, e che Dio – per come ce l’ha raccontato Gesù – non accetta. All’inizio, cosa aveva fatto il padre? Il vangelo dice che il padre, il quale non era obbligato a farlo, aveva diviso il suo patrimonio tra i due figli, quindi aveva dato anche al figlio maggiore la sua quota, esattamente come al figlio minore, che se n’era andato e poi se l’era pure mangiata (Lc 15, 12). E allora, perché questo figlio maggiore sta blaterando che “non mi hai mai dato neanche un capretto”? Poteva prenderselo: era ormai roba sua! Cos’è, allora, che ha impedito a questo figlio di godere delle cose sue e non più del padre? Semplicemente il fatto che lui non ha un rapporto di figlio con un padre, ma ha un rapporto servile con un padrone: “ti servo, obbedisco ai tuoi comandi, poi però mi aspetto la ricompensa: diamine! almeno un capretto!” Ecco la mentalità farisaica: il figlio maggiore vede sé stesso come buono, è orgoglioso di esserlo e perciò disprezza il fratello perduto[21]. Allora l’indicazione che ci dà l’evangelista, e che normalmente non ci danno i preti dal pulpito, forse perché essendo sbagliato il titolo della parabola non colgono il senso vero del testo, è questa: chi ancora ha, nel rapporto con Dio, il rapporto di un servo nei confronti di un padrone ha un’idea sbagliata di Dio, perché non solo non crescerà mai, ma non arriverà mai a godere delle cose di Dio. Gesù non vuole nessun uomo al suo servizio, o al servizio di Dio che non ha nessunissimo bisogno di essere servito, ma solo uomini che per amore scelgono di mettersi al servizio di altri uomini[22]. La parabola è indirizzata a tutti coloro che si ritengono i figli maggiori, a coloro che pensano di ottenere l’amore di Dio grazie ai loro sforzi e ai loro impegni, osservando strettamente le regole, in particolare alle persone religiose.

Ad identica conclusione si arriva con il racconto del giudizio finale, quando coloro che sono esclusi dal regno credono di aver servito Dio mediante le loro pratiche religiose, chiamandolo: Signore! Signore! (Mt 7,21), ma non si sono messi al servizio del prossimo (Mt 25, 44); e proprio per questo restano esclusi non avendo il Signore chiesto di essere servito, ma è lui stesso che è venuto per servire (Mt 20, 28), affinché gli uomini abbiano vita in abbondanza: tutto questo resta un severo monito per quanti sono concentrati nelle proprie devozioni, ma sono poi incapaci di vedere le situazioni di necessità degli altri[23]. Quanti sedicenti cattolici sono ancora oggi sempre impegnati ad aggiungere una maglia al fitto tessuto di perfezione e di merito con cui si avvolgono interamente e alla quale non cessano di lavorare?[24]

Ecco come emerge di nuovo una nitida incompatibilità fra religione e Dio. La religione induce alla completa incapacità di autonomia: e questo ha trovato fertile terreno particolarmente da noi, perché in Italia siamo avidi di leggi, nel senso che di fronte a ogni problema si pretende l’intervento del carabiniere e del giudice, e non si crede che la gente possa darsi una regolata da sé. C’è sempre bisogno della autorizzazione di un individuo – che nella piramide occupa un posto più in alto, e quindi è superiore - perfino per far festa, come nel caso del figlio maggiore della parabola; ma soprattutto, nella vita quotidiana, questo qualcuno deve sempre dirci se una cosa è bene o è male. Invece Gesù ha detto: ma non lo sai valutare da te? (Lc 12, 57). Le persone religiose, le persone che vivono nella religione, non osano valutare da sé, preferiscono solo obbedire, per cui rimangono immature ed incapaci di autonomia: hanno sempre bisogno di una figura superiore che le autorizzi a far qualsiasi cosa nella vita. Gesù non vuole questo tipo di persone, vuole collaboratori autonomi e responsabili. Ecco infatti che in Marco (Mc 14, 15) si dice che il luogo dell’ultima cena è già stato preparato e arredato, ma poi aggiunge che anche gli apostoli devono preparare lì. Che cosa devono preparare lì se tutto è già preparato? Non si capisce, eppure non siamo davanti a un’inutile ridondanza: il luogo è grande, perché la cena del Signore avviene in una stanza “grande” dove c’è spazio per tutti; teologicamente tutti possono avere accesso al luogo in cui Gesù manifesterà la sua capacità di amare. In questo luogo, però, non si entra tanto in senso fisico; piuttosto siamo davanti a una dimensione nella quale Gesù comunica vita, e anche noi dobbiamo allora collaborare per comunicare vita. Gesù l’ha preparata la cena, ma dopo di lui anche gli altri devono collaborare alla preparazione, facendo le stesse cose, vivendo come lui ho vissuto, e dandosi da fare per gli altri come l’ha fatto lui. Quindi, “preparate anche voi.” All’interno della sua comunità si è tutti fratelli, perché nel cerchio, a differenza che nella piramide, tutti si trovano alla stessa distanza dal centro, tutti sono uguali. Non c’è bisogno di un padre che dica cosa fare, come fare e quando fare[25]: siamo tutti autonomi, adulti e vaccinati. In tal senso si muove nei vangeli già la scelta iniziale dei dodici (Mt 4, 18-22): Giacomo e Giovanni, da pescatori, sono ancora sotto l’autorità del padre, per cui per seguire Gesù devono abbandonare non solo la barca, ma – viene aggiunto non a caso – devono lasciare anche «il padre» al quale erano sottoposti. Con ciò si sottraggono all’autorità del padre che li vincolava. Chi vuol far parte del progetto di Dio sul regno dei cieli deve riconoscere un unico Padre: quello che sta appunto nei cieli, e sottrarsi ad ogni altra autorità. Anche Simone e Andrea erano legati, seppur non dall’autorità del padre: infatti nel seguire Gesù lasciano le reti, arnesi che notoriamente legano e intrappolano. Solo una volta che si è liberi si può seguire Gesù.

Certo che se resto servo devo necessariamente solo obbedire. Gesù, invece, invita alla piena maturità dell’individuo. Ed è per questo che pone sotto processo le istituzioni, non accettando neanche la signoria di un Messia, despota benevolo, che risolva i problemi del popolo mantenendolo in stato di infantilismo[26]. L’unico padre che c’è all’interno della comunità è il Padre che c’è nei cieli, cioè Dio, che non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare come aveva imposto Mosè, ma attraverso la comunicazione intima, interiore, del suo Spirito, cioè della sua capacità d’amore. Questo è l’unico Padre. Lo dice chiaramente Giovanni: «non avete bisogno di nessun maestro. Infatti è lo Spirito il vostro maestro» (1Gv 2, 27). Perché a noi hanno insegnato che dobbiamo avere la Chiesa per maestra? La Chiesa non s’identifica mica con lo Spirito santo, esattamente come la Chiesa non è Cristo. Siamo di nuovo davanti a un passo ignorato dal magistero, che si è sostituito allo Spirito santo.

Ma soprattutto c’è il fatto che Gesù ha detto espressamente che lui, manifestazione visibile di Dio, non è venuto per essere servito, ma per servire (Mt 20, 28): e allora come possiamo pensare di essere ancora servi di Dio se Dio ci ha detto di essersi incarnato per servirci? Per non farci fraintendere le parole, nel famoso episodio della lavanda dei piedi (Gv 13, 5), Gesù si mette il grembiule e si fa servo per distruggere l’idea di Dio creata dalla religione, per la quale sono gli uomini a dover servire la divinità, dimostrando che la vera grandezza, quella di Dio, consiste nel servire gli altri e non nel lasciarsi servire.[27] Siamo naturalmente ben lontani dal rituale della settimana santa al quale ci hanno abituati i papi del passato che, vestiti di sacri paramenti e non col grembiule, lavavano i piedi pulitissimi di alcune eminenze che se li erano già lavati e profumati poco prima: allora i piedi della gente comune erano zozzi e puzzolenti,[28] perché allora solo i ricchi potevano permettersi di non camminare scalzi. E c’è ancora di più: nel Vangelo di Giovanni (Gv 13, 1) si dice che Gesù manifestò al massimo il suo amore. Come? Appunto con la lavanda dei piedi. Dopodiché Gesù lascia ai suoi un comandamento nuovo; nuovo nel senso di qualità migliore che sostituisce gli altri. E cosa comanda? Comanda l’unica cosa che non può essere comandata. Chiama ancora comandamento questo invito per contrapporlo agli altri 10 di Mosè, perché chi vive con amore servizievole ha una guida di vita sufficiente e non ha neanche bisogno degli altri 10 comandamenti.

Più chiaro di così! E invece la nostra religione è tornata a Mosè, senza minimamente accettare l’idea che noi uomini non siamo stati creati per servire Dio. E così i credenti doc sono ancora tutti contenti di essere servi di Dio. Perché? Perché la religione non può accettare che non si serva Dio perché questo renderebbe immediatamente inutile il culto. Il culto è essenziale per adorare e servire Dio. Eppure, anche se lo stesso papa Benedetto XVI ha riconosciuto che Dio non ha bisogno di sacrifici (richiamando Sal 50, 9-14), che Dio non cerca vitelli e capri, bensì l’uomo, e che solo il libero “sì” dell’uomo può essere la vera adorazione di Dio,[29] l’istituzione religiosa continua imperterrita a presentare al suo gregge un Dio che chiede, un Dio al quale – come servi - bisogna offrire sacrifici digiuni, penitenze, preghiere continue, un Dio al quale bisogna dare, dare e ancora dare. In realtà ci presenta ancora il Dio dell’Antico Testamento quando Gesù, nei vangeli, ci ha presentato l’esatto contrario: Dio non chiede, perché non ne ha bisogno di niente, ma dà. Anche al momento di offrire un comandamento nuovo (Gv 13, 34), che sostituisce tutti gli altri, Gesù non chiede nulla per sé, non chiede nulla per Dio, ma solo per gli uomini, superando così il precetto ebraico secondo cui si deve innanzitutto amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze (Dt 6, 5): fra l’altro, - come già detto - cosa un po’ dura per un servo; forse più facile per un amico. Dio non esige offerte, ma è Lui che si offre essendo l’Emmanuele, il Dio con noi, quindi non un Dio lontano, da cercare nell’alto dei cieli, ma già qui vicino a noi.

Frecciatina finale? Se le cose stanno così, anche la comunione va ricevuta stando in piedi e sulla mano come quando nostro padre ci passa un pezzo di pane, proprio perché siamo figli e non servi. Se ci auto-proclamiamo figli di Dio ma poi ci comportiamo da servi stiamo manipolando le parole, e già chiamare le cose con il loro nome è un atto rivoluzionario[30]. Come rivoluzionario è il Vangelo.

 

 

 


NOTE

[1]The new Saint Joseph Baltimore Catechism, ed. Catholic Book Publishing Corp., N.Y (USA).,1969, 9.

[2]  Culot D., Il figlio naturale, ed. Giuffrè, Milano, 2004, 491 s.

[3] La parola “servo” nell'AT designa in maniera particolare i profeti (ad es. Amos 3, 7: “il Signore non fa niente senza aver rivelato il suo disegno ai suoi servi, i profeti”).

[4] Ad es., Domiziano pretendeva di essere chiamato dominus et deus noster (Signore e nostro Dio) (Svetonio, Vita dei Cesari, VIII (Domiziano), 13), e come tutti gli dei voleva avere sotto di sé dei servitori.

[5] Maggioni B., L’Apocalisse, ed. Cittadella, Assisi, 2012, 49s.

[6] La sura è un capitolo del Corano (che viene dal verbo “recitare, salmodiare”). Ci sono 114 capitoli nel Corano, con oltre 6.200 versetti: a parte quello brevissimo introduttivo, gli altri sono per ordine di lunghezza decrescente. La rivelazione dell’angelo Gabriele a Maometto durò circa vent’anni, dal 610 al 632 d.C. La prima parte avvenne nei pressi de La Mecca (sure meccane, indirizzate soprattutto ai politeisti con inviti alla conversione); la seconda presso Medina (sure medinesi, legate alla necessità di costruire un nuovo sistema sociale).

[7] Castillo J.M., omelia su Mt 5, 17-37 del 12.2.2023.

[8] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 1991, 195.

[9] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo,ed. Cittadella, Assisi, 1989,114.

[10] È stato fatto notare che in tedesco la parentela fra le parole frei (libero) e freund (amico) permette di ricostruire una nozione primitiva della libertà come appartenenza al gruppo ristretto di coloro che si chiamano reciprocamente “amici”; questa appartenenza conferisce un privilegio negato allo schiavo, il quale è solo tra estranei, al pari di una cosa che chiunque può utilizzare. Dunque il senso primitivo del termine “libertà” non è “liberato da qualcosa” ma quello di appartenenza a un gruppo (Benveniste E., Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee - Economia, parentela, società, ed. Einaudi, Torino, 1976, 247ss.).

[11] Daniélou J., Trinità e mistero dell'esistenza, ed. Queriniana, Brescia,1969, 26.

[12] Arias J., Il dio in cui non credo, ed. Cittadella, Assisi, 1997, 72.

[13] Da Spinetoli O., La Madonna della Lumen Gentium, ed. Paoline, Roma, 1968, 115.

[14] Maggi A., Non ancora madonna, ed. Cittadella, Assisi, 2004, 76.

[15] Tant’è che, nonostante Simeone, i genitori completano nel Tempio tutto quello che si doveva fare secondo la Legge (Lc 2, 39). 

[16] Ad es. la giovane donna col velo nelle catacombe di Priscilla; oppure l’orante nelle catacombe di S. Callisto, per non dire di Noè o dei giovani di Babilonia salvati dalle fiamme della fornace.

[17] Teniamo presente che i banchi furono introdotti nelle chiese appena nel 1600, e che fino al 1200 la gente a messa stava abitualmente in piedi (Sirboni S., A Messa in piedi o in ginocchio?, “Famiglia Cristiana”, n.49/2012, 12).

[18] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 219. Ma secondo la riforma liturgica del 1973 la Conferenza episcopale può ripristinare l’antica tradizione di ricevere la comunione sulla mano sinistra (l’ostia va presa e messa in bocca con la destra), per cui i vescovi possono decidere fra ostia sulla mano e in bocca (Famiglia Cristiana”, n.25/2012, 11).

[19] In alcune chiese americane (chiesa di S. Agnes a Saint Paul, oppure la chiesa di S. Charles a Bayport – MN, USA) ho trovato perfettamente rispettata l’idea del papa emerito, perché proprio al momento della comunione mettono dei piccoli inginocchiatoi davanti all’altare affinché la gente che arriva per ricevere l’ostia si metta in ginocchio davanti al prete: veri servi di Dio.

[20] Neanche l’ex papa ci ha spiegato perché questo fratello maggior vede solo l’ingiustizia nel benevolo trattamento del fratello minore (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. Rizzoli, Milano, 2008, 242 ss.).

[21] Castillo J.M., Dio e la nostra felicità, ed. Cittadella, Assisi, 2011, 179s.

[22] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi,1989, 98.

[23] Maggi A., Parabole come pietre, ed. Cittadella, Assisi, 2007, 129 s.

[24] Mauriac F., La farisea, ed. Oscar Mondadori, Milano, 1970, 82.

[25] Maggi A., Quale Vangelo per l’uomo d’oggi?, relazione tenuta a Jesi nel 2010, 15.

[26] Mateos J., L’utopia di Gesù, ed. Cittadella, Assisi, 1991, 15.

[27] Maggi A., La follia di Dio, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 143.

[28] Questo lavaggio era considerato tanto umiliante che era vietato persino ai servi ebrei, e delegato solo agli schiavi (Ravasi G., La lavanda dei piedi, “Famiglia Cristiana”, n. 45/2013, 120).

[29] Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 276.

[30] Carofiglio G., La manomissione delle parole, Rizzoli, Milano,2010, 101.