Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano


Come conciliare la legge umana con la legge e la misericordia divina (continua)



di Dario Culot



Si pubblica qui il testo, rivisto e ampliato, della conferenza tenuta dall’autore il 12 marzo 2022 a Trieste, presso la comunità San Martino al Campo, in occasione del 18° anno di conferenze sulla spiritualità

Partendo dal concetto di giustizia umana, possiamo innanzitutto chiederci: cosa è la giustizia? Normalmente una definizione comunemente accettata è questa: riconoscere e rispettare il diritto di ognuno attribuendogli quanto gli è dovuto secondo la legge. Dunque, siamo davanti a un chiaro ed evidente abbinamento fra giustizia e legge.

Stiamo cioè parlando di un rapporto giuridico in cui la legge trova una fredda applicazione, perché non è affatto detto che una volta applicata la legge questo corrisponda all’idea astratta di giustizia che avevamo in mente. Ricordate che già i romani dicevano “dura lex, sed lex” (la legge sarà anche dura, ma è la legge), perché già in allora si erano resi conto che c’è uno solco profondo e incolmabile fra legge e giustizia. Certo chi bazzica nel mondo del diritto impara presto che diritto e giustizia non sono affatto sinonimi. Nel film Il bambino nascosto di Roberto Andò, il padre del maestro di musica, un vecchio giudice, dice: “Se potessi tornare indietro, tra la legge e l’amore sceglierei l’amore”. Questo appunto perché la legalità non sempre coincide con l’umanità, e quindi non porta a realizzare una vera giustizia, concetto che pur abbiamo in mente anche se non in maniera nitida. Temo però che anche se quel giudice fosse tornato indietro avrebbe potuto fare ben poco. Forse il caso dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano rende bene questo concetto[1]. E forse il caso della sindaca Bonaldi di Crema rende bene l’idea di come la giustizia umana, quando è troppo legata all’applicazione della legge, sia spesso insoddisfacente[2].

In effetti ricordo tanti anni fa, quando una signora in aula, dopo aver perso una causa, mi gridò sdegnata in faccia: “E questa Lei la chiama giustizia!?” Le risposi: “Signora, l’hanno male informata. Cosa sta scritto dietro di me? «La legge è uguale per tutti». In quest’aula non si fa giustizia, si applica la legge”.

Allora la cosa non mi turbava. Oggi forse penserei come il vecchio giudice del film. Ma come detto, non credo sia praticamente possibile nella nostra società disapplicare la legge per applicare l’amore misericordioso.

Per capirci ancora meglio faccio subito qualche esempio pratico: se proprietario e inquilino litigano davanti al giudice perché uno afferma di non aver ricevuto il canone pattuito mentre l’altro dice di aver pagato, la legge impone di risolvere il problema in base all’onere della prova (principio giuridico che risale sempre al diritto romano): il proprietario deve provare solo l’esistenza del contratto e qual è il canone pattuito. L’inquilino deve provare di aver pagato quel canone. Perciò, anche se ha pagato, ma non riesce a dimostrarlo, l’inquilino deve essere condannato a un secondo pagamento. Se poi non ha effettivamente pagato perché ha perso il lavoro non per colpa sua, anche questo non ha rilevanza, e l’inquilino viene comunque condannato. Nella causa civile di sicuro non c’è posto per la misericordia umana, a volte neanche per la giustizia.

Non molto di più, almeno in punto ricerca della verità oggettiva, si riesce a fare nel campo penale. Anche qui vige il principio romano secondo cui “Quod non est in actis non est in mundo”, che si traduce con "Ciò che non esiste negli atti processuali semplicemente è come se non esistesse nel mondo". La locuzione richiama il principio secondo cui il giudice, nel decidere, deve tenere conto esclusivamente dagli atti utilizzabili nel fascicolo processuale che ha lì davanti a lui sul tavolo, con l’obbligo di ignorare tutto il resto: quello che emergerà dal fascicolo sarà la verità processuale, che non necessariamente coincide con la verità oggettiva. Ad es., dopo che il dibattimento è stato chiuso, al giudice giunge notizia di una prova determinante che esiste in un altro procedimento, che però non è allegata al processo che si deve decidere. Il fatto non allegato non può essere preso in considerazione. O per fare un altro esempio: se un mafioso, intercettato perché sospettato di un grave omicidio, parlando col suo interlocutore ammette al telefono di aver investito sulle strisce pedonali una mamma con la carrozzina e di essere fuggito senza fermarsi perché aveva la patente sospesa, quella confessione non potrà essere mai utilizzata come prova in nessun processo perché l’intercettazione era stata autorizzata per il reato di omicidio, e i reati confessati non sono connessi all’omicidio; quella confessione, che pur esiste nella realtà, è come se non esistesse e mai Tizio potrà essere condannato per guida senza patente, omissione di soccorso (ed eventualmente omicidio colposo) in base a quella telefonata registrata. O ancora, se quel mafioso, dopo essere stato definitivamente assolto dall’omicidio, confessa pubblicamente di essere stato proprio lui l’omicida, non potrà mai essere sottoposto a un secondo processo (“ne bis in idem”, dicevano sempre gli antichi romani: cioè nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato). Questi limiti processuali sono ovviamente posti a favore di chi finisce sotto processo (immaginate se una persona potesse essere perseguitata senza fine per lo stesso reato: anche se venisse continuamente assolta lo stress e i costi le rovinerebbero la vita). Però è anche vero che certe volte la regola che è utile nella maggioranza dei casi può essere nociva in altri casi particolari.

In ogni caso, il processo penale è ancora legato all’idea di una giustizia retributiva, visto che noi viaggiamo sempre in base ai principi di diritto che i romani hanno fissato circa duemila anni fa. Essendo cioè figli del diritto romano,[3] per noi la giustizia penale è retributiva: si tira una riga per terra, e i buoni da premiare vanno da una parte, i cattivi che hanno violato la legge e quindi sono da castigare dall’altra. La pena deve risarcire il male compiuto in modo che questa volta sia il colpevole a soffrire. Non interessa sapere qual è stata la sua vita da bambino in avanti. Quali motivi reali lo hanno indirizzato a delinquere. Non interessa che la Costituzione affermi che la pena deve mirare alla rieducazione del condannato: di fatto non ci sono soldi nel bilancio statale per una vera rieducazione. Ancor meno interessa che, secondo i vangeli, Dio non restituisce male per male.

E poi, chi fa le leggi? Il ricco o il povero? Lo scrittore francese Anatole France (premio Nobel per la letteratura nel 1921) aveva ben messo il dito nella piaga facendo notare come la legge nella sua magnanimità proibisce sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti, di chiedere l’elemosina per strada e di rubare il pane. Essendo la legge è uguale per tutti, poi la si applica con lo stesso rigore sia ai ricchi che ai poveri. Però è scontato che quelli che vivono nei palazzi hanno sempre avuto programmi di vita differenti da quelli che vivono nelle baracche,[4] e questo si verifica da sempre. Un grande storico del passato[5] scriveva a proposito della Repubblica romana: “i ricchi e aristocratici hanno infuso nei poveri plebei la paura dei loro misfatti; loro li tiene compatti il bramare le stesse cose, temere le stesse cose, il che fra galantuomini si chiama amicizia, fra furfanti connivenza”[6]. Ecco perché le carceri sono piene di poveracci che hanno rubato poco; più difficile che finisca in carcere il riccone che può permettersi i migliori avvocati e che ha rubato miliardi. Ecco perché, quando vediamo scritto che tutti gli uomini sono uguali, sappiamo che non è così, che non è vero niente. E se insistiamo a dire che vogliamo che siano uguali, passiamo facilmente per sovversivi. Eppure vorremmo solo che le parole dette con solennità fossero vere. Ma come sempre non c’è nulla di nuovo sotto il sole: già lo storico romano Plutarco aveva scritto che i piccoli (come le mosche) restano impigliati nella ragnatela, ma i grandi (i mosconi) la sfondano e vanno oltre[7].

La stessa Bibbia aveva messo in evidenza che la giustizia umana non funziona, perché già allora si vedeva chiaramente che i giusti spesso soffrono ben più dei malvagi (Qo 8, 11). La giustificazione che si dava era questa: siccome le sentenze contro un'azione cattiva non si eseguono prontamente, il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male. La colpa del male non è allora di Dio, ma del sistema giudiziario umano che non funziona. I malvagi si sentono al sicuro perché sanno che la faranno franca, a causa di una giustizia umana inefficiente. Ed ecco allora la speranza che una giustizia ci sarà almeno ad opera di Dio, una volta morti.

Anche nel capo religioso il problema è analogo. Innanzitutto, perché, essendo questo il substrato culturale che ci accompagna da due millenni, non ci si può stupire se anche il nostro rapporto con Dio è stato impostato dalla stessa Chiesa come un rapporto giuridico: infatti ci è stato insegnato che, essendosi il primo uomo reso inadempiente attraverso il peccato, questo rapporto è stato unilateralmente e legittimamente sciolto da Dio. Anche la religione, seguendo la stessa linea di pensiero propria della società civile, ha fornito a sua volta una descrizione completa del mondo e ha offerto un contratto ben definito con obiettivi precisi tirando per terra una riga: se avete obbedito a Dio finirete di qua in paradiso; se disobbedite finirete di là all’inferno[8]. Anche la religione finisce così col cementare l’ordine sociale, mentre la spiritualità cerca di sfuggirgli, e sfida le credenze religiose[9].

Secondo Paolo tutti i nostri peccati sarebbero stati imputati a Gesù come fossero suoi. In altri termini, il Padre ha mandato a morire il Figlio per noi, nel senso che Gesù muore in sostituzione della creatura umana ribelle affinché – dice san Paolo - la Giustizia di Dio sia garantita (Rm 5, 6-8): l’uomo diventa giusto davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua “giustizia” unendolo a Cristo suo Figlio. Con la morte e resurrezione del Figlio, Dio ha cancellato il peccato, ha annullato la sua giusta reazione di condanna verso gli uomini peccatori ingiusti, e ora vede i credenti, alla luce di questo sacrificio (a dire il vero, disumano), non come essi sono nella realtà della loro vita peccaminosa e ribelle, ma perdonati e rinnovati in Cristo.

Ma così si conferma ancora una volta che tutte queste dottissime dottrine insegnateci partono dall’idea che il rapporto fra Dio e gli uomini è regolato come un rapporto giuridico. Se invece – come emerge dai vangeli - il rapporto che ci lega è un rapporto essenzialmente d’amore, questa dottrina fa chiaramente acqua.

Infatti, se il volto di Dio corrisponde al Padre misericordioso descritto da Gesù nella parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11-32), ci troviamo davanti a un Dio follemente innamorato dei due figli che invece non lo amano; ciononostante questo Dio è capace di deformare la Legge pur di lasciar libero il figlio più piccolo (in nessun ordinamento l’eredità va al figlio erede finché il padre è in vita); un Padre che non lo rimprovera quando torna a casa per interesse (ha fame) senza essersi pentito, che neanche gli fa una battutina velenosa del tipo “cosa ti avevo detto?” A differenza della costruzione teologica di Paolo, dalla parabola raccontata da Gesù emerge chiaramente che Dio accetta tranquillamente l’uomo peccatore, tanto che gli corre perfino incontro, per cui non c’è nessun bisogno né dell’espiazione attraverso il sacrificio di sangue di Gesù.

Ed emerge altrettanto chiaramente che l’espiazione, al posto della misericordia, andrà anche bene in un rapporto giuridico, ma non certamente in un rapporto d’amore. Vuoi vedere che aveva ragione il concilio Vaticano II a dire che nella genesi dell’ateismo attuale possono aver avuto non piccola parte proprio i credenti che ci hanno presentato un’immagine assolutamente inadeguata di Dio?[10]

Dunque, se guardiamo a Gesù, è chiaro che la Giustizia divina è innanzitutto gratuità, e nulla ha a che vedere con i contratti, nulla a che vedere con la retribuzione. Se nel giudaismo il numero 7 indica la perfezione, quando Pietro pensa che si debba perdonare al massimo 7 volte pensa di essere perfetto. Invece Gesù gli risponde che deve perdonare 70 volte 7 (Mt 18, 21s.).

In altre parole, mentre Gesù ha in poco tempo sovvertito le leggi proprio richiamandosi a un Dio-Padre, la religione ha creato ancora più leggi, più rituali e più strutture. Infatti, a partire da Costantino, l’idea fondamentale della Chiesa è sempre stata quella di riservarsi una facoltà di sindacato sulle decisioni dello Stato e di autorizzare la resistenza qualora esse fossero state contrarie alla propria legislazione divina, considerata superiore a quella umana. Il clero ha così acquista potere laico oltre che religioso.

Questo era vero allora, ed è vero ancora oggi. Ad esempio, nel 2006, il papa, partendo dal presupposto che i principi non negoziabili (niente aborto, niente divorzio, niente eutanasia, tutela legislativa dell’embrione, salvaguardia della famiglia fondata sul matrimonio monogamico fra persone di sesso diverso ed esclusione di altri tipi di unione) sono iscritti nella natura stessa e quindi sono comuni a tutta l’umanità, ha richiamato alla difesa di questi principi tutto il Partito Popolare Europeo: la produzione legislativa di tutti i parlamenti, dunque, dovrebbe essere subordinata alla legge naturale così come pensata e interpretata dalla Chiesa. Col che, anche senza volerlo, la Chiesa da movimento spirituale si trasforma e resta un centro di potere politico.

Questo è avvenuto ovviamente per gradi: all’epoca dell’Impero Romano la Chiesa non si presentava come una cellula che pretendeva d’invadere l’esistente organismo statale, ma malgrado tutto era una cellula che tendeva a separarsi dallo Stato e diventare organismo autonomo. L’atteggiamento verso lo Stato non era di partecipazione adesiva, quanto di disinteresse e distacco. Anche se la Chiesa non intendeva fondare la città celeste direttamente sulle rovine di quella terrena, i suoi aderenti si dichiaravano innanzitutto cittadini della prima, vedendo una graduazione gerarchica tra il mondo celeste e quello profano, inferiore e subordinato al primo (Col 3, 1-2: “Fratelli, …cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”). Dovendosi i candidati al Regno celeste guadagnarselo già su questa terra, era indispensabile l’ossequio a una legislazione divina fatta valere in terra da un’autorità delegata da Dio; occorreva obbedire rigorosamente alle leggi divine così come concepite ed esternate dalle sue gerarchie. In definitiva, anche se non lo voleva direttamente, il cristianesimo si poneva come un concorrente dello Stato, una società dentro la società statale, uno Stato nello Stato. L’asserita separazione del temporale dallo spirituale era solo un accomodamento reticente e pieno di riserve mentali insidiose per lo Stato romano. Il lealismo cristiano verso questo Stato era infatti superficiale perché, pur dichiarando in teoria di volerlo rispettare, in concreto provava a scalzarlo costituendo un nuovo mondo per suo conto. Malgrado tutte le buone intenzioni, cioè, chi era membro della Chiesa doveva obbedire sia alla Chiesa che allo Stato, ma siccome l’uomo non può essere diviso nettamente a metà, permaneva sempre un settore dove Stato e Chiesa concorrevano, e dove l’obbedienza alla Chiesa significava disobbedienza allo Stato.

Tutto questo ovviamente non ha nulla a che vedere con l’amore o la misericordia, perché fin che si vede l’obbedienza alla legge come un rapporto giuridico, si è come davanti a una partita doppia commerciale: dare-avere (osservanza della legge-premio; violazione della legge-castigo), e un atto giuridico non potrà mai essere un atto d’amore. Immaginate se fosse imposto per legge quante volte in un giorno la mamma può prendere in braccio il suo bambino, quante volte lo può baciare, o quale deve essere il castigo per ogni tipo di marachella.

Invece la legge divina, secondo Gesù, non dovrebbe mai essere pura contabilità, e non può neanche essere retributiva, ma va ben oltre, come risulta chiaramente dalla parabola del debito enorme (Mt 18, 27-33). In questa parabola, il creditore (Dio) condona gratuitamente, non si aspetta niente in cambio, perché il suo debitore (uomo) senza alcun merito, non è un suo nemico. Il grande debitore appena condonato (l’uomo), non rimette invece il debito di un suo piccolo debitore (un altro uomo): sia ben chiaro che chi è stato condonato (perdonato) non sta chiedendo nulla di illegale al suo piccolo debitore, ma solo il rispetto della legge. Dunque, qui capiamo subito l’enorme differenza fra giustizia divina e giustizia umana.

Il nostro sguardo sulla giustizia divina è rimasta di tipo giuridico-legalista: ‘tu hai fatto il male, adesso ti arriva la sanzione, adesso vai all’inferno’[11], cioè noi vediamo soltanto che il male richiede una pena. Quindi ci aspettiamo il premio per il buono e il castigo per il cattivo. Ma il Vangelo non ragiona così, ha una giustizia molto più profonda. In fondo premiare il buono (la nostra meritocrazia) e punire il cattivo somiglia molto di più alla vendetta che alla giustizia; assomiglia più all’occhio per occhio, del codice di Hammurabi. ‘Adesso vai all’inferno’, è vendetta più che giustizia. La giustizia evangelica va in un’altra direzione: cerca di ripescare la persona che facendo il male ha fatto innanzitutto male a sé stessa, e le offre una possibilità di rinascita cioè di liberazione dal male. Questa è l’ottica della misericordia, quindi è quella qualità d’amore che è indistruttibile; praticamente il male di fronte alla misericordia non può nulla perché la misericordia ha la capacità di liberare il prigioniero dalla schiavitù che il male ha stabilito, dalla distruzione che il male ha realizzato. La misericordia ha a che fare con la risurrezione.

Anche nella nostra vita, allora, non dovrebbe valere la logica della giustizia retributiva, ma della misericordia, che vede in ogni altro l’unica chiesa in cui Dio abita[12]. Così si comporta il Dio di Gesù, se crediamo alla vita di Gesù, il quale non solo ha detto di amare i nemici (Lc 6, 27), ma lui stesso ha vissuto questo principio fino alla croce, chiedendo a Dio di perdonare i suoi carnefici (Lc 23, 34).

Solo la piena coscienza dell’amore gratuito di Dio, della sua predilezione per gli ultimi, può costituire un utile antidoto alla concezione della giustizia retributiva che domina la cultura ed è penetrata a fondo anche nella nostra Chiesa.

Ora va anche detto che i valori dei vangeli sono lì ad indicare una meta da raggiungere, mentre non dovrebbero mai essere trasformati in norme giuridiche vincolanti di comportamento.

Faccio di nuovo qualche esempio pratico per capirci meglio: si pensi a come l’indissolubilità del matrimonio sia stata trasformata dal magistero in norma giuridica. Certo, Dio vorrebbe che l’amore fosse fedele nel tempo, come lo è il suo, ma – a differenza di quel che avveniva nell’Antico Testamento - Egli non ci impone leggi perché restiamo fedeli[13]. Però nei vangeli l’invito alla povertà è molto più insistito rispetto all’indissolubilità del matrimonio; eppure la Chiesa non si è mai sognata di trasformare questo valore in norma giuridica vincolante[14]. È allora del tutto evidente che la trasformazione di un obiettivo in norma giuridica è opera degli uomini, non certo di Dio; è opera del magistero, il quale dovrebbe anche spiegarci perché ha trasformato alcuni valori in leggi divine (come se Dio stesso lo volesse), e altri no.

È una constatazione di fatto che la religione, nel corso dei secoli, si è appiattita su concetti giuridici e su valori propri di ogni società civile, e ogni società tendenzialmente è stata sempre punitiva emanando le sue leggi. La religione, poi, ha qualche problema in più: essendo la Legge interpretata solo dal magistero una volta diventata il centro della vita religiosa, questo porta a concepire il rapporto con Dio in termini giuridici di potere,[15] sottomissione ed obbedienza[16] e giammai in termini di slancio filiale o di fedeltà per amore. Il diritto reclama obbedienza, non amore. Dio si trasforma nel padre-padrone, detentore di ogni potere, che verifica se i suoi servi, che non hanno alcun potere, hanno adempiuto alle prestazioni cui sono tenuti in base alla sua legge. Il rapporto con lui, che dovrebbe essere vitale, finisce per essere un freddo rapporto giuridico. L’esperienza personale che si può fare di Dio[17] – e che dovrebbe essere alla base di un rapporto con Lui[18]- ha ceduto il passo all’insegnamento di un codice,[19] perché la teologia per troppo tempo non ha ammesso che un’idea o un'argomentazione si possano fondare anche sulle esperienze di vita personali: non viene data importanza al soggetto con le sue esperienza, i suoi bisogni, le sue tragedie, le sue speranze[20]. Invece l’esperienza è fondamentale in ogni settore della nostra vita. Ricordo che Galileo Galilei ha cominciato a fare scienza rovesciando il principio d’autorità che veniva dagli antichi, ma pretendeva che ogni ipotesi venisse verificata con esperimenti appositi. Il magistero, invece, si fonda ancora sul principio di autorità. Da troppo tempo la Chiesa ha sostituito l'esperienza, che va rinnovata per ogni generazione, con le sue certezze ideologiche che poi impone d’autorità, e una Chiesa che pensa solo alle sue certezze ideologiche sicuramente snatura il suo mandato divino.

Eppure, basta leggere il Vangelo di Giovanni, dove vien chiaramente fatto intendere che la propria esperienza (e quindi la libera coscienza) prevale sull’autorità dottrinale del magistero docente[21]. Nell’episodio del nato cieco, dopo che questi ha riacquistato la vista grazie al “peccatore” Gesù, il quale ha operato in violazione della Legge guarendolo di sabato, i capi religiosi fanno pressione sull’ex cieco affinché dia adesione al dogma del riposo del sabato: «Da’ gloria a Dio! noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore» (Gv 9, 24). Ma anche se il magistero di allora – come quello di oggi - non accettava il dissenso e pretendeva che nessuno potesse andare contro la verità di un suo enunciato dottrinale,[22] il guarito risponde in base alla sua esperienza senza entrare nel campo dottrinale e ribatte «Se sia peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9, 25). Traduzione: “io di leggi e di teologia non capisco niente, ma so che prima non ci vedevo, mentre adesso ci vedo, per cui, per me, va bene così” (Gv 9, 25).

Ogni magistero, ancora oggi, va normalmente avanti con le sue certezze dogmatiche, con la sua verità che non si possono discutere, certo che essa corrisponda alla realtà effettiva; ma di fatto si disinteressa della realtà: «noi sappiamo» e altro non gli interessa; «noi sappiamo» e siamo stati costituiti da Dio per essere maestri per gli altri. E per difendere il proprio sistema teologico si preferisce by-passare la realtà della guarigione; per glorificare il proprio dio che è interessato solo all’osservanza della Legge, non ci si cura della sofferenza degli uomini. Il cieco guarito ha invece sperimentato sulla sua pelle la misericordia di Dio,[23] si è fatto una sua idea personale su Dio e dalla sua esperienza trae proprie conclusioni diverse da quelle che aveva appreso dal magistero: «una cosa io so», infischiandosene del rapporto fra peccato e Legge che sta tanto a cuore al magistero: «Se sia peccatore, non lo so». Il racconto è lì a dimostrarci che l’esperienza concreta dell’uomo è più importante di qualunque verità dottrinale fatta scendere dall’alto.

A coloro che sono invece ancora convinti che la Verità Assoluta sia già incamerata nel Depositum fidei della Chiesa, che quindi la fede consiste nel credere alla dottrina insegnata dal magistero, e che chi non obbedisce all’autorità del magistero deve essere allontanato dalla Chiesa, ricordo semplicemente il finale di questo racconto: il cieco nato, una volta guarito e cacciato dalla sinagoga (cioè dalla chiesa) perché non ha voluto ammettere pubblicamente che Gesù era un peccatore avendolo guarito di sabato, incontra di nuovo Gesù e fa l’affermazione fondamentale di fede: “Credo, Signore” (Gv 9, 38). E allora, se il Vangelo ci sta dicendo la verità, arriviamo a questa conclusione tremenda: la fede in Gesù e nel suo Vangelo è possibile e autentica quando uno si comporta in maniera tale da vedersi rifiutato e scomunicato dalla religione ufficiale[24].

L’istituzione, con la sua pretesa di essere infallibile, è convinta che la sua dottrina infallibilmente insegnata non può essere errata, per cui il nato cieco deve riconoscere che per lui sarebbe stato meglio restare privo di vista piuttosto che essere guarito di sabato da un peccatore (Gv 9, 24); la conoscenza dei capi religiosi si fonda sulla dottrina e in base a questa Gesù è peccatore perché ha violato il comandamento del sabato; la conoscenza dell’ex cieco è basata sull’esperienza per cui, se prima non vedeva e ora vede, Gesù è il suo salvatore. Il magistero oppone la sua dottrina alla vita[25]. Gesù non vuole dottrina, ma esperienza; non vuole che vi sia un magistero docente e un gregge di pecore obbediente e discente; non vuole soggetti agenti e saccenti (sacerdoti) e soggetti pazienti e obbedienti (laici); non vuole né capi, né maestri; “Tra voi non sia così!” egli ha ribadito: “nessuno si faccia chiamare capo, nessuno si faccia chiamare maestro, nessuno si faccia chiamare padre” (Mt 23, 8-10).

Altro esempio di contrasto fra esperienza e dottrina, e quindi fra giustizia e legge.

A noi hanno insegnato la dottrina della giustificazione, dottrina che parte dal peccato a causa del quale l’uomo non è “accettabile” agli occhi di Dio, che è il puro[26] e il giusto per eccellenza. Per rimediare alla rottura del rapporto con Dio, non essendo l’uomo capace di diventare giusto davanti a Dio con le proprie azioni, Dio stesso – come si è visto sopra parlando di san Paolo - avrebbe sacrificato il proprio figlio Gesù per i nostri peccati, resuscitandolo per la nostra giustificazione[27] (Rm 4, 25). In altri termini, il Padre manda a morire il Figlio per noi, nel senso che Gesù muore in sostituzione della creatura umana ribelle affinché – dice san Paolo - la Giustizia di Dio[28] sia garantita (Rm 5, 6-8): l’uomo diventa giusto davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua “giustizia” unendolo a Cristo suo Figlio[29]. Questa unione con Cristo la si ottiene mediante la fede (che, per Paolo, è credere alle dottrine insegnate dall’autorità), e la fede ci rende giusti.

Ebbene, mi sembra sia stato correttamente replicato che, se la morte sacrificale di Gesù Cristo ha migliorato la disposizione di Dio verso gli umani, se Dio è ora anche disposto ad aprire le porte della salvezza agli umani, essi devono ancora meritarla, volerla, esserne degni, seguendo una vita retta e religiosamente accettabile. Perché Dio, per quanto sia ora benevolo e misericordioso verso i "peccatori", non ha ancora nessuna intenzione di introdurre a casa sua gli empi che persistono nel male, che indulgono nel vizio e che non mostrano alcun desiderio di migliorarsi. Pertanto, anche dopo la redenzione, Dio continua a sentirsi maldisposto verso i "cattivi", che non può amare né perdonare finché persistono nelle loro cattive disposizioni[30].

Però così si conferma ancora una volta che tutte queste dottissime dottrine insegnateci partono dall’idea che il rapporto fra Dio e gli uomini sia regolato come un rapporto giuridico. Ma se – come invece emerge dai vangeli - il rapporto che ci lega è un rapporto essenzialmente d’amore, siamo davanti a un’architettura teologica piuttosto zoppicante. Infatti, se il volto di Dio corrisponde al Padre misericordioso descritto da Gesù nella parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11-32), com’è pensabile che un simile Dio-Padre non accetti l’uomo così com’è, anche se peccatore, anche se ingiusto, anche se impuro? Come è possibile accettare il Dio occhiuto e severo mostratoci dal magistero, disposto a castigare l’uomo per ogni più piccolo errore? A differenza della costruzione teologica di Paolo, dalla parabola raccontata da Gesù emerge chiaramente che Dio accetta tranquillamente l’uomo peccatore, tanto che gli corre perfino incontro, per cui – mi sembra - non c’è nessun bisogno né della giustificazione[31] né dell’espiazione attraverso il sacrificio di sangue di Gesù. Se, come il padre della parabola, Dio non ha mai smesso di amare tutti gli uomini, anche quelli che si sono comportati male, non si vede perché si debba sostenere che l’uomo non è presentabile agli occhi di Dio, e che il loro rapporto è stato interrotto da Dio, quando invece questo Dio corre incontro all’uomo peccatore. Il Dio che ci fa intravedere Gesù è un Dio profondamente umano. Gesù si qualifica come Figlio dell’uomo. Figlio dell’uomo significa l’uomo nella sua pienezza, diversissimo dalla persona profondamente religiosa che diventa spesso persona disumana, e un Dio che manda a morire suo figlio ci appare più disumano che umano, in netto contrasto con l’immagine che ci è stata trasmessa da Gesù.

E come ci si può dire cristiani, dicendo che si amano tutte le persone, non però i divorziati, non gli omosessuali, non i musulmani, non gli immigrati neri? Non sono forse proprio questi i credenti che hanno presentato un’immagine assolutamente inadeguata di Dio?

Ecco perché l’insegnamento di Gesù che si trova nei vangeli, visto nell’ottica di questo tipo di credenti che hanno indotto molti a rifiutare Dio in sé, è ancora oggi visto come eretico e scandalizzante, quindi esplosivo: preferiscono il Dio della religione, la quale continua ad insegnarci che Dio è cattolico, ci assicura che il malvagio non solo non è amato da Dio ma non sfuggirà alla Giustizia Divina quand’anche riuscisse a sfuggire alla piccola giustizia umana, e dà più importanza ai meriti nostri che alla misericordia di Dio. Non importa se questi meriti saranno perseguiti sulla terra per paura[32] dell’al-di-là, e non per amore. Si aggiunge perfino che, anche i puri che avranno alla fine meritato il paradiso saranno divisi per gradi di beatitudine, a seconda dei meriti maturati durante l’esistenza terrena[33]. Ancora oggi la maggior parte della gente sembra incapace di immaginare una generosità priva di qualche vincolo; sembra incapace di pensare che l’ingiustizia su questa terra possa restare impunita[34]. Non riesce a credere che, senza merito personale, la misericordia di Dio possa comunque salvare.

Eppure Gesù, col suo messaggio, si richiamava alla Bibbia, perché proprio nella Bibbia Dio non usa un criterio meritocratico per legarsi agli uomini, visto che da sempre abita le famiglie imperfette (pensiamo solo a Caino e Abele; ai fratelli che vendono Giuseppe, tutto un susseguirsi di inganni, litigi, conflitti)[35].

(continua)


NOTE

[1] Non ho letto le circa 900 pagine della sentenza di condanna, ma da quel poco che ho letto sui giornali penso che nei gradi successivi l’ex sindaco verrà assolto perché dubito che le intercettazioni usate contro di lui siano utilizzabili nel processo.

[2] Nel momento in cui si rischia di essere chiamati a rispondere di tutto quanto accade nella propria città in modo indiscriminato, quasi come fosse una responsabilità oggettiva, è chiaro che amministrare diventa impossibile. La sindaca aveva ricevuto a giugno 2021 un avviso di garanzia di lesioni colpose in quanto un bambino si era schiacciato le dita di una mano all’asilo in una porta tagliafuoco. La sua posizione è stata archiviata dopo sei mesi, con evidente spreco di tempo, denaro e stress per la sindaca.

[3] E sia ben chiaro, il diritto romano non è arrivato fino a noi perché c’è stata un’autorità religiosa o laica che ce lo ha imposto, ma perché la sua autorevolezza deriva dalla sua riconosciuta intrinseca razionalità.

[4] Harari Y.N., Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017, 92.

[5] Sallustio, La guerra di Giugurta, cap.XXXI.

[6] Non è cambiato molto nel tempo: stando a quel che si vede attorno noi occidentali non siamo proprio anime belle esenti da colpe, visto che paghiamo regimi autoritari e spietati che ci fanno comodo per ottenere energia a prezzi per noi vantaggiosi (salvo strapparci le vesti quando i prezzi salgono), o per tenere potenziali immigrati lontani dalle nostre frontiere; insomma è difficile sostenere che non siamo conniventi con questi regimi, anche se preferiamo parlare di amicizia.

[7] Plutarco, Vite parallele, - Solone: “Le leggi scritte sono in tutto simili a tele di ragno; atte a prendere e ritenere gli imbelli ed i poveri, ma lacerate poi vengono dai potenti e dai ricchi”. E aveva anche aggiunto: “A nulla giova che le leggi vogliano l’uguaglianza se questa uguaglianza viene tolta ai poveri dai loro debiti”.

[8] Harari Y.N., Homo Deus, Bompiani, Milano, 2017, 283s.

[9] Idem, 286.

[10] Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes §19 – del 7.12.1965.

[11] Oggi più che mai è difficile continuare a sostenere che chi muore in peccato mortale finisce all’inferno per l’eternità visto che la Chiesa ha abolito la pena di morte anche dal Catechismo, dopo un percorso iniziato da papa Giovanni Paolo II (§27 dell’Enciclica Evangelium vitae del 25.3.1995). Se infatti, la progressiva comprensione del Vangelo ci porta a dire che l’ideale evangelico di giustizia non si identifica con la punizione del colpevole, ma include la logica della misericordia di Dio, mirando al riscatto del peccatore, come si può pensare che proprio Dio neghi per sempre ogni possibilità di riscatto a chi ha sbagliato (magari mangiando solo un panino di prosciutto di venerdì)?

[12] Secondo Paolo, appunto, siamo noi il Tempio del Dio vivente (2Cor 6, 16), e negli Atti degli apostoli (At 7, 48 e 17, 24) Stefano ribadisce che Dio non abita in costruzioni o templi fatti dall’uomo, sì che oggi non lo si trova neanche in nessun edificio-chiesa, per quanto grande e splendida esso possa essere.

[13] Ma la fedeltà è fatta anche di aspetti assolutamente non normabili, quali l’attesa, la speranza, la capacità di perdonarsi. Quale coppia in crisi può trovare conforto in una fredda legge che elenca la fedeltà come requisito essenziale del matrimonio? La norma non basta per reggere un matrimonio.

[14] Conferenza di don Sergio Chiesa, La Chiesa nel mondo contemporaneo in atteggiamento di ascolto e offerta, tenuta a Vicenza il 18.1.2013.

[15] E anche il clero, venendo a far parte un pochino di questo potere, ne trae beneficio.

[16] L'obbedienza ha senso solo dove si danno ordini, ma per dare ordini bisogna avere potere. Il contenuto sottaciuto dell'obbedienza è l'ideologia del potere ecclesiastico (Drewermann E., Funzionari di Dio, ed. Raetia, Bolzano, 1995, 316).

[17] Oggi si dice con maggior frequenza che per credere in Dio, per farsi un’immagine più corretta di Dio occorre fare esperienza di Dio. Ma resta la domanda: se Dio è trascendente, come possiamo farne esperienza? Come ha ben spiegato il teologo Carlo Molari (Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008, 44) ogni volta che progettiamo la giustizia, sappiamo di non poter mai realizzare pienamente la Giustizia, sempre più esigente delle nostre modeste umane realizzazioni. Allo stesso modo, ogni volta che pensiamo avvertiamo che la Verità in azione nella nostra mente è più grande delle nostre idee; ogni volta che amiamo ci rendiamo conto che il Bene che ci attira supera quello che possiamo offrire. Questa, come dice Molari, è la prima esperienza della trascendenza che noi chiamiamo Dio. Verità, bontà e bellezza, ecc. fanno parte delle cosiddette trascendentalia, qualità dell'assoluto che ci trascendono e che ci rinviano all'idea della Realtà ineffabile, che nelle religioni viene chiamata Dio (Lenaers R., Benché Dio non stia nell'alto dei cieli, ed. Massari, Bolsena (VT), 2012, 204).

Va poi aggiunto che ogni esperienza personale è poi inconoscibile fuori dell'esperienza vissuta: solo Mosè sa cosa è successo davanti al roveto e siamo noi che abbiamo interpretato l'esperienza che lui stesso ha descritto con parole insufficienti (Panikkar Raimon dialoga con il rabbino Pinchas Lapide, Parliamo dello stesso Dio?, ed. Jaca Book, Milano, 2014, 17ss.).

Insomma, quello che possiamo descrivere è una mera intuizione di un Assoluto che resta misterioso, è intuizione che nel nostro esistere siamo di fronte a un X per eccellenza, indefinibile e inafferrabile. È intuizione che fuori di noi c’è un Bene, una Verità, una Giustizia che preesiste esternamente a noi, che poi in noi può esprimersi. Platone aveva descritto quest’idea parlando del mondo delle idee. Il termine idea viene da Platone, ma si tratta di una delle tante parole che hanno cambiato di senso nel corso del tempo. Per noi, oggi, l'idea è un qualcosa creato dalla nostra mente; per Platone le idee non sono astrazioni dell'Io pensante, ma sono entità reali, esistenti in un mondo separato indipendentemente dal fatto che vi sia un soggetto che le pensa: sono cose, e perciò oggi sarebbe più chiaro parlare della teoria platonica delle forme, anziché di quella delle idee (Dal Maschio E.A., Platone, ed. Hachette Fascicoli s.r.l. Milano, 2015, 52s.). Quando vediamo uomini diversi, oggetti diversi, o diciamo che un'azione è giusta, siamo davanti a copie (forme) imperfette di un unico esemplare (uomo, oggetto, giustizia) che esiste allo stato puro. In quanto copie non sono né propriamente reali, ma neanche puro non-essere (sarebbero illusioni): in quanto partecipano all'essere si collocano a metà strada, ma solo l'originale è vera realtà.

Qualcuno potrebbe obiettare che ogni mio pensiero è semplicemente un pensiero mio, destinato a morire con me, e quindi un’illusione perché non rispecchia una realtà esterna a me. I miei pensieri sono esclusivamente miei. Se mi faccio un’immagine di Dio, prima che io lo pensassi non avevo quel pensiero; con la mia morte anche quel mio pensiero sparisce. Questo pensiero è dunque esclusivamente mio, esiste soltanto nel mio tempo; finito il mio tempo sparisce anche quella che io pensavo essere una realtà esterna a me. Non può essere questa un’esperienza di Dio. Il filosofo Bonazzi Mauro ha però giustamente fatto quest’osservazione: il pensiero che 2 + 2 fa 4, esiste solo perché lo penso io o perché lo pensano altre persone? Anche quando nessuna di queste persone (me compreso) ci sarà questo pensiero continuerà ad esistere, come sicuramente esisteva già all’epoca dei dinosauri e prima che l’uomo apparisse sulla terra, e come sicuramente ci sarà nel caso che l’intera umanità scomparisse (ad es. per una guerra nucleare). Cioè questo è un pensiero valido a prescindere, nel senso che esiste di per sé, perché nessuno pensa oggi che in un futuro anche lontano 2 + 2 non farà più 4, come nessuno pensa che prima che io nascessi 2 + 2 non faceva 4. Siamo davanti a un pensiero che esiste fuori del tempo, mentre noi uomini siamo tempo e spazio. Dunque, siamo davanti dimensione diverse, a noi sconosciute, a una realtà che rispetto al nostro tempo è qui, ma può essere anche fuori del tempo. Quindi pensando che 2 più 2 fa 4 noi stiamo facendo esperienza di una realtà che esiste fuori del tempo e dello spazio, quindi fuori della nostra dimensione immanente. Quindi perché anche il Bene, la Giustizia, allo stesso modo, non potrebbero esistere come realtà anche se nessuno lo pensa?

[18] Teniamo presente che la fede d’Israele nasce dall’esperienza di essere stati liberati (non creati) da Dio: il famoso episodio dell’uscita liberatoria dall’Egitto.

[19] Mateos J. e Camacho F., L’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, ed. Cittadella, Assisi,1989, 27.

[20] Drewermann E., Funzionari di Dio, ed. Raetia, Bolzano, 1995, 122

[21]Maggi A., Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore, in www.studibiblici.it/Multimedia/audio_conferenze/tre_giorni_biblica_2012.

[22] Per usare oggi le parole usate dal papa al fine di negare che la propria coscienza possa validamente ancorarsi alla propria esperienza, pretendendo che essa si ancori sempre all’insegnamento del magistero (Ratzinger J. – Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 117).

[23] È stato fatto notare come una creazione senza male manifesterebbe la bontà e la sapienza di Dio, ma non manifesterebbe pienamente la sua misericordia (Congar Y., Il problema del male, in “Dio, l’uomo e l’universo,” a cura di de Bivout de la Saudée, ed. Marietti, Genova, 1952, 574).

[24] Castillo,J.M., El Evangelio marginado, Desclèe De Brouwer, Bilbao, 2018,119.

[25] Maggi A., La follia di Dio, ed. Cittadella, Assisi, 2010, 113 s.

[26] Quest’idea di puro/impuro non è esclusiva dell’Occidente. Ad es. anche nello shintoismo giapponese, prima di entrare nel santuario di Izumo per chiedere la grazia di trovare l’anima gemella, occorre un passaggio di purificazione, perché non si va a chiedere un favore con anima e corpo sudici (“Il venerdì di Repubblica”, 4.2.2022, n.1768, 35). Anche i musulmani continuano ad avere l'acquasantiera, da noi caduta quasi in disuso ma che serviva per le purificazioni accedendo al luogo sacro (la chiesa). Come ha spiegato Saleh Igbaria il presidente della comunità islamica di Trieste per l’inaugurazione della moschea: “Nel secondo piano, oltre all'anticamera da cui si accede al luogo di preghiera, ci sono i bagni e lo spazio per le abluzioni. «Nell'Islam c'è una distinzione fra “pulito” e “puro” . Basta farsi una doccia per essere puliti. Ma per entrare nel luogo di preghiera bisogna essere puri, e la purezza si può perdere in tanti modi senza per questo diventare sporchi visivamente: ecco perché bisogna fare le abluzioni prima di pregare» (in http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2016/07/03/news/apre-le-porte-la-moschea-di-via-maiolica 1.13762510? ref).

[27] I nn.654, 1987ss. del Catechismo affermano che la giustificazione è il dono dello Spirito Santo che ci monda dai peccati, ci rinnova interiormente come uomini e ci comunica la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, accordata mediante il battesimo.

[28] Altro personaggio convinto di sapere in cosa consista la giustizia di Dio.

[29] Benedetto XVI, udienza generale 26.11.2008, in www.vatican.va.

[30] Mori B., Tra miti e nuove narrazioni, “Adista” 23.10.21, n.37, 7.

[31]La teoria della giustificazione è frutto di una visione giuridica dei rapporti Dio-uomo, esattamente come la teoria della soddisfazione di sant’Anselmo rimasta in vigore per circa un millennio. Quando uno ha commesso un reato, la sua fedina penale resta macchiata; per farla tornare pulita occorre la riabilitazione. Nel campo religioso, l’uomo non è a posto con i criteri di giustizia stabiliti e rivelati da Dio, perché ha peccato. Per tornare ad essere giusto di fronte a Dio, deve essere redento (riabilitato). Giustificare è dichiarare una persona giusta, non condannabile. Il fariseo Paolo appoggia la sua costruzione sulla Bibbia, ove si prevede il giorno del giudizio in cui Dio condannerà e punirà coloro che hanno infranto le sue Leggi: sarà un giorno d’ira (At 17, 31; Rm 2, 8). Giacomo, invece, evidenzia che Dio accetta le persone come giuste davanti alla prova delle loro opere, le quali dimostrano che la loro era una fede vivente. Il §22 della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione – Ausburg (Augusta) 31.10.1999, In www.vatican.va/curiaromana/PontificioConsiglio/UnitàdeiCristiani/DialogoconleChieseeComunitàEcclesialid’Occidente/FederazioneLuteranaMondiale - ha statuito che, quando l’uomo partecipa a Cristo nella fede, Dio non gli imputa il suo peccato e fa agire in lui un amore attivo mediante lo Spirito Santo. Il §26 aggiunge che l’insegnamento della «giustificazione soltanto per mezzo della fede» distingue, senza tuttavia separarli, il rinnovamento della condotta di vita, necessariamente conseguenza della giustificazione e senza la quale non vi sarebbe la fede, dalla giustificazione stessa. Nel §37, infine, la Chiesa cattolica e quelle luterane concordano che le buone opere sono la conseguenza della giustificazione e ne rappresentano i frutti. Quando il giustificato vive in Cristo e agisce nella grazia che ha ricevuto, egli dà, secondo un modo di esprimersi biblico, dei buoni frutti. Anzi, tale conseguenza della giustificazione è per il cristiano anche un dovere da assolvere, in quanto egli lotta contro il peccato durante tutta la sua vita; per questo motivo Gesù e gli scritti apostolici esortano i cristiani a compiere opere d’amore.

Mi sembra perciò che abbiano pienamente ragione le Chiese Ortodosse orientali a non dare tutta questa grande importanza alla dottrina della giustificazione: questa dottrina è virtualmente assente nella teologia della chiesa Ortodossa. La Chiesa Ortodossa enfatizza piuttosto la theosis (letteralmente la “divinizzazione”), ossia il processo graduale grazie al quale i Cristiani diventano sempre più simili a Cristo, assumono lentamente la condizione divina, lasciando solo noi occidentali a litigare sul punto.

[32] La fede - per molti protestanti - viene ancora oggi suscitata dalla paura, dalla percezione della realtà trascendente.

[33] Così aveva affermato il Concilio ecumenico di Firenze, richiamato in “Famiglia Cristiana” n.42/2011, 11: le anime “vedono chiaramente Dio, uno e trino, come egli è, ma alcune in modo più perfetto di altre, a seconda della diversità dei meriti”.

[34] Schillebeeckx E., Per amore del Vangelo, ed. Cittadella, Assisi, 1993, 189.

[35] Nella Bibbia il popolo d'Israele è stato scelto da Dio per essere il popolo testimone, quello che dovrebbe presentare al mondo il Dio vero. Eppure il popolo di Dio è pieno di prevaricazioni, di abbandoni, di tradimenti, di esitazioni... Perché nella Bibbia si parla sempre dell'Alleanza che si rinnova? Di un Dio che ritorna di continuo? Perché c'è sempre questo tradimento o cedimento del popolo che non è all'altezza della missione che Dio gli ha affidato. Eppure Dio continua con la sua Fedeltà.