Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Immagine tratta da commons.wikimedia.org










Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


***


12. Treni



Nella nostra realtà quotidiana fatta di oggetti macroscopici, per nostra fortuna, reggono ancora i principi della geometria euclidea. Lo spazio tempo, con le sue curvature gravitazionali che potrebbero rendere i viaggi istantanei, gli orologi atomici che misurano il differente scorrere del tempo su di una spiaggia, piuttosto che in altura, lasciamoli dove stanno. Concentriamoci sul viaggio, inteso come dimensione ontologica, dell'anima. Il treno è senza dubbio il mezzo che preferisco. Ne ho presi moltissimi nella mia vita, quasi tutti da pendolare. Conosco a memoria, per averla percorsa quasi ogni giorno, durante gli anni dell’Università, la tratta Ferrara – Bologna, con i suoi paesi, appena intuiti oltre le stazioni ferroviarie attraversate, fissati per sempre nella memoria da case, officine, parchi, scuole, appena intraviste ma in modo ripetuto e costante. Anche i nomi sono evocativi: San Giorgio di Piano, San Pietro in Casale, Castelmaggiore, Galliera – quest’ultima citata da Paolo Rossi, in un brano dei Modena City Ramblers sulle periferie, assieme al mio paese natale: Codigoro. Attraversare in treno la pianura vuol dire – per chi le sa vedere – accorgersi delle trasformazioni antropiche operate dall'uomo sul paesaggio. La campagna appare, in certi punti, ancora attraversata da filari d’alberi da frutto o dalla vite, che contraddistinguevano le colture nel seminativo arborato, una forma di appoderamento ancora ben marcata nella bassa bolognese, e che permetteva di alternare al raccolto di cereali, frutta e uva. I grandi casali a struttura parallepidica, bassi e dal grande tetto spiovente nei quattro lati, sono stati in buona parte recuperati e servono ora da abitazione per poche famiglie. Punteggiano poi la campagna, verso Ferrara, isolate vasche d’acqua rettangolari, un tempo maceri per la coltura della canapa, di cui la città estense vantava il primato. Specchi d’acqua poco profondi in cui le piante, defogliate, venivano immerse in fascine, ed ancorate al fondo mettendovi sopra grossi sassi ovali. Per vedere tutto questo occorre guardare fuori dal finestrino, quasi fosse uno schermo cinematografico, ed in parte è così. Oltre al celebre spot, girato da Federico Fellini negli anni Ottanta, l'intuizione fu già di uno dei pionieri e maestri del cinema, Dziga Vertov, che, grazie al suo cineocchio (Kinoki), cercò di riprendere la realtà com’era, senza considerare che ogni inquadratura ritaglia porzioni di reale, ed è comunque una scelta culturale e percettiva dell'operatore. Entrambi i registi, ma penso anche al Carnè de La bete humaine, ci hanno fornito il punto di vista di una persona che si trovi su di un treno in corsa. Ma è il pensare, l'immaginare la fatica che, in quei momenti, rende la visione un'emozione. Fatica d'uomini a dissodare terreni, piantare filari, scavare vasche, portare calce, mattoni: costruire case. E poi ancora, alzarsi ogni giorno all'alba, tranne che d'inverno, quando il lavoro calava, stare nei campi fino a sera inoltrata, sotto il sole. Eppure qui il contadino era spesso ricco, specie se mezzadro o piccolo proprietario, non come al Sud. L’aia era popolata di galline, faraone, di stie per i conigli, accanto alla stalla – se te la potevi permettere. Ogni tanto si vedono i resti di un forno esterno in muratura, in cui, una volta alla settimana, si faceva il pane per tutto il circondario, bastava portare l’impasto. Ci sono ancora diversi porcili, e col maiale – allevato e macellato in proprio - si faceva un’enorme varietà di cibi, dal prosciutto, al salame, fino ai ciccioli, la mortadella, lo zampone, la coppa di testa (vera leccornia multisapore...).

Basta cambiare treno, salire sull’iperveloce Freccia rossa diretta a Roma, ed il paesaggio cambia. Passato l’Appennino bolognese si scende verso Firenze nel buio rapido delle gallerie, per poi iniziare a percorrere un territorio anticamente insalubre, dove i paesi se ne stanno ancora oggi sulla cima delle colline, arroccati. Poi la piana, lungo il corso del Tevere, che i binari giocano a perdere, l’Agro romano, brullo e quasi spoglio, con radi greggi di pecore a brucare l’erba in gruppi raccolti. Attività più moderne – capannoni di gommisti, ceramiche, lampadari – assieme a sparuti centri commerciali, punteggiano la collina e la pianura durante tutto il viaggio. E anche qui la fatica, una fatica nuova, slegata dai ritmi naturali delle estinte stagioni. Commessi, magazzinieri, operai, turnisti, una folla immensa ogni mattina si reca al lavoro fra mille ansie, fra cui la paura del contagio. Un’umanità che resiste, stretta attorno ai propri cari: coniugi, compagni o figli che siano, famiglie allargate grazie ai nonni che badano ai nipoti, o individui soli, che vivono come sospesi, in cerca di qualcuno o della rassegnazione. Perché tutti Noi abbiamo bisogno di amare e di sentirci amati, è il primo di tutti i bisogni, più forte del cibo, del sonno.

Mi è capitato spesso, quando i treni avevano ancora gli scompartimenti, di fare viaggi interi senza mai guardare dal finestrino. Ricordo un Ferrara – Bologna di metà anni Ottanta, in cui il treno non voleva decidersi a lasciare la stazione, sino a quando abbiamo accumulato un ritardo di due ore, ed era anche un locale, fermava cioè in tutte le stazioni. Era inverno, fuori un freddo polare, all’interno del vagone un caldo torrido e secco, dovuto agli enormi radiatori piazzati proprio sotto ogni sedile o meglio panca di legno – si trattava dell’iconico ex-terza classe. Eppure io ed i miei amici non vi facemmo quasi caso, presi come eravamo dai nostri entusiasmi di ventenni. A volte nei lunghi viaggi, trovavo all’interno del vagone quel che cercavo all'esterno, e non era più un'emozione legata al solo sguardo che dilaga nell'anima, quanto piuttosto un piacevole intrattenersi con perfetti sconosciuti che, al termine del viaggio, non erano più tali. Spesso si divideva anche il cibo. Il gesto che, come avrete capito, preferisco. Spezzare il pane. Massima espressione di umana fratellanza, che rende ogni luogo un’ecclesia.