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I dieci anni di Papa Francesco

di Dario Culot




Mio genero, teologo tomista, saldamente attaccato ai pontificati di papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e che non apprezza molto il pontificato di papa Francesco, mi ha chiesto più volte cosa ha fatto di bene per la Chiesa questo papa, con ciò facendomi capire che – anche per lui come per tanti altri - questo papa non è un gran teologo come il suo predecessore e sta portando la Chiesa alla rovina.

Fra noi due è stata conclusa una tregua tacita: quando ci troviamo evitiamo di discutere di religione perché finiamo per scontrarci, talmente opposte sono le nostre posizioni. Non parlando di religione andiamo d’amore e d’accordo.

Già qualche anno fa avevo scritto un articolo[1] su cosa aveva fatto papa Francesco per la Chiesa, passando dalla teologia speculativa dei papi precedenti a quella narrativa, più legata all’ultimo concilio. Oggi torno sull’argomento, richiamandomi in particolare a un articolo dello spagnolo padre Arregi,[2] che non credo sia stato tradotto in italiano, ma che condivido in buona parte. Anticipo comunque che, a mio parere, queto papa ha ragione nel limitarsi a gettare semi per il futuro, perché il passo della Chiesa è da sempre lentissimo, e cambiamenti radicali spaccherebbero facilmente la comunità. Mi rendo conto che occorre sforzarsi per prendere atto dei limiti delle proprie convinzioni ed essere consapevoli che esistono realtà altre che mai si comprenderanno se non s’intende allargare la propria coscienza culturale; ma mi rendo anche conto che già il solo accennare a un grande cambio di teologia mette in fibrillazione tantissime persone che nella religione cercano soprattutto sicurezza, e ogni cambiamento scuote la loro sicurezza.

Dunque, padre Arregi parte dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre 2013, che è stata come un documento programmatico del pontificato di papa Francesco. Nel documento il papa ha evocato le parole che Luca mette in bocca a Gesù all’inizio della sua missione, nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 18s.): “Lo Spirito del Signore è sopra di me…mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare la liberazione di prigionieri, a proclamare l’anno di grazia” cioè il giubileo di giustizia e di pace sulla Terra. Dunque, secondo papa Francesco, - dice il teologo spagnolo,- solo la bontà personale unita a quella politica può far emergere la gioia di vivere su questa terra, e solo l’allegria condivisa può sostenere nel lungo periodo la lotta per la pace e la giustizia universale: tant’è che nell’Esortazione si afferma chiaramente che il gran pericolo per il mondo (e per i cristiani) è la tristezza (n.2), e il rimedio non sta nel credere ai dogmi, bensì nella realizzare la rivoluzione della tenerezza (n.88). La Buona Novella di Gesù è stata e continua ad essere sovversiva, sia politicamente che religiosamente, e nessun documento papale prima di questo aveva espresso con tanta forza questo concetto.

Poi, c’è indubbiamente da ricordare l’apporto fuori del comune che questo papa ha dato alle grandi cause politiche globali del nostro tempo: la sua rivendicazione di giustizia come condizione per la pace; la sua denuncia di una economia succube della finanza che porta a gravi esclusioni e disuguaglianze (nn.53-59); la sua analisi sull’emergenza ecologica; la disuguaglianza che è alla base dei mali sociali (n.202) che scarta ed elimina le persone (n.195) come fossero numeri e non persone. Queste cose papa Francesco ha continuato a proclamarle ai quattro venti, e in tutti i continenti, durante questi suoi dieci anni di pontificato.

A coloro che sostengono che la Chiesa non deve fare politica ma occuparsi solo di Dio e dei problemi etici, il papa replica che la terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. Sebbene «il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica», la Chiesa «non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia» (n. 183).

A questa prima condizione socio-politica va aggiunta però la necessità di una profonda trasformazione dell’istituzione ecclesiale nei campi della teologia, della morale e dell’organizzazione del potere. Anche di questo si parla nella sua Evangelii Gaudium. Riporto alcuni paragrafi:

Quando il progresso delle scienze, mantenendosi con rigore accademico nel campo del loro specifico oggetto, rende evidente una determinata conclusione che la ragione non può negare, la fede non la contraddice. Tanto meno i credenti possono pretendere che un’opinione scientifica a loro gradita, e che non è stata neppure sufficientemente comprovata, acquisisca il peso di un dogma di fede (n.243);

si disapprovano coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare (n.94);

si dimentica che uomini e donne hanno oggi necessità di trovare nella Chiesa una spiritualità che li sani, li liberi, li ricolmi di vita e di pace e che nel medesimo tempo li chiami alla comunione solidale (n.89);

la Chiesa deve essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo (n.114); sì che sentendosi piccoli ma forti nell’amore di Dio, come san Francesco d’Assisi, tutti i cristiani sono chiamati a prendersi cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo (n.216);

in particolare si deve tener presente che il modello non è la sfera, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto (n.236);

insomma  Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri (n.270);

perciò non possiamo pretendere che tutti i popoli di tutti i continenti, nell’esprimere la fede cristiana, imitino le modalità adottate dai popoli europei in un determinato momento della storia, perché la fede non può chiudersi dentro i confini della comprensione e dell’espressione di una cultura particolare. È indiscutibile che una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo (n.118);

e allora non si deve pensare che l’annuncio evangelico sia da trasmettere sempre con determinate formule stabilite, o con parole precise che esprimano un contenuto assolutamente invariabile. Si trasmette in forme così diverse che sarebbe impossibile descriverle o catalogarle, e nelle quali il Popolo di Dio, con i suoi innumerevoli gesti e segni, è soggetto collettivo. Di conseguenza, se il Vangelo si è incarnato in una cultura, non si comunica più solamente attraverso l’annuncio da persona a persona. Questo deve farci pensare che, in quei Paesi dove il cristianesimo è minoranza, oltre ad incoraggiare ciascun battezzato ad annunciare il Vangelo, le Chiese particolari devono promuovere attivamente forme, almeno iniziali, di inculturazione. Ciò a cui si deve tendere, in definitiva, è che la predicazione del Vangelo, espressa con categorie proprie della cultura in cui è annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura. Benché questi processi siano sempre lenti, a volte la paura ci paralizza troppo. Se consentiamo ai dubbi e ai timori di soffocare qualsiasi audacia, può accadere che, al posto di essere creativi, semplicemente noi restiamo comodi senza provocare alcun avanzamento e, in tal caso, non saremo partecipi di processi storici con la nostra cooperazione, ma semplicemente spettatori di una sterile stagnazione della Chiesa (n.129)[3].

Infine, ed è un punto fondamentale dell’Enciclica, si afferma che: “Non credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare decentralizzazione” (n.16).

Piuttosto evidente, dice Arregi, che ci si trova davanti a un documento pieno di stimoli e di freschezza. Ma, aggiunge costernato lo stesso autore, nello stesso documento si trovano anche molti riferimenti alla vecchia teologia della morte sacrificale, espiatoria del Figlio di Dio, al fatto che Gesù ha versato il suo sangue per noi (nn. 178, 229, 274), per cui egli si chiede come proclamare un simile vangelo possa risultare un lieto evento e motivo di allegria. Lo stesso documento papale rivendica una maggior presenza femminile nella Chiesa, ma contemporaneamente afferma che il sacerdozio, riservato agli uomini come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione (n.104). Perciò, alla fine, l’autore si chiede come mai il messaggio politico dell’Evangelii Gaudium, tanto nella sua denuncia come nel suo annuncio, parli il linguaggio di oggi, mentre il messaggio più propriamente religioso ed ecclesiastico continui ad esser legato alle categorie del passato, incapaci di ispirare ormai la stragrande maggioranza della nostra società.

Dunque, pur facendo intravedere una primavera, mancano segnali chiari di un nuovo linguaggio teologico. Ma del resto, dopo cinquecento anni dal concilio di Trento, e dopo i pontificati di Giovanni Paolo e Benedetto, era quanto mai difficile colmare il gap fra la cultura moderna-postmoderna e il sistema ecclesiastico.

Oggi, a dieci anni di distanza dall’Esortazione del 2013, l’autore dell’articolo (e non solo lui) continua a non vedere segnali di quella primavera pur annunciata, anche se molti sperano che i germogli di questa stagione nuova siano comunque ormai irreversibili. E ancorché i giorni dei calendari vaticani siano più simili a secoli, per cui dieci anni non sono niente, oggi nel mondo laico dieci anni sono già tanti. Lo erano meno nei secoli passati, ma in questi ultimi dieci anni il mondo è profondamente cambiato mentre la Chiesa quasi per nulla, sì che il suo ritardo si è moltiplicato, e il solco fra mondo e Chiesa si è ulteriormente allargato non perché la società secolare si è allontanata, ma perché la Chiesa continua ad essere abbarbicata al passato[4]. Dieci anni corrispondono, nel mondo secolare, a due normali legislature nella maggior parte dei Paesi, e a un governo laico devono bastare cinque anni per chiarire cosa intende fare e cosa non fare, nonché quello che può fare e quello che non potrà fare. Pertanto, dieci anni dovrebbero essere un tempo più che sufficiente affinché anche un papa dia segni inequivocabili di ciò che vuol e non vuole fare, di ciò che può e non può fare, tanto più che egli è il titolare (quasi unico al mondo) di una potestà piena e assoluta; è l’unico monarca assoluto rimasto nel mondo occidentale.

Ad ogni primavera la vita rinasce senza sosta e il suo rinascere incessante è irreversibile nonostante tutto, e malgrado questa umanità alla deriva cerchi spesso di bloccarla. Eppure, dieci anni dopo l’elezione del nuovo vescovo di Roma, l’autore dell’articolo (e non solo lui) non vede segnali di primavera ecclesiale. Perché? Perché il papa vuole ma non può? Perché non vuole? O perché non vuole e non può?

A questo punto l’autore indica alcune circostanze che – a suo giudizio – hanno lasciato in sospeso la primavera nella Chiesa, che lui (vista la sua età) non aspetta più di vedere nella sua vita.

1. Una teologia che torna ad essere incomprensibile. La parole di papa Francesco continuano ad essere modellate sulla teologia di sempre: la stessa immagine di Dio come Ente Supremo, ancorché misericordioso, che interviene in questo mondo; lo stesso vecchio diavolo; la stessa idea dell’essere umano come centro e culmine della creazione; lo stesso peccato e la stessa idea della croce espiatoria per i nostri peccati; la stessa rappresentazione del cielo e dell’inferno nell’aldilà; gli stessi dogmi e lo stesso Diritto canonico con tre-quattro ritocchi di poco conto. Finché non cambia la teologia non arriverà alcuna primavera nella Chiesa. Il vescovo John Shelby Spong aveva pubblicato nel 1999 il libro Perché il cristianesimo deve cambiare o morire? E da subito dopo il concilio la Chiesa cattolica sembra aver optato per morire invece che per rinnovarsi.

2. Una visione insostenibile dell’omosessualità. “Se una persona è gay e cerca Dio e ha buona volontà, chi sono io per giudicarlo?” Così aveva detto il papa in aereo tornando dal Brasile nel 2013. In tanti avevano pensato a una netta rottura col passato, ma non molto tempo fa ha chiarito che l’omosessualità non è un delitto però è un peccato[5].

Durante questi dieci anni, papa Francesco si è riferito ripetutamente alla teoria di genere come a una ‘colonizzazione ideologica,’[6] cioè non basata sull’uso della forza fisica, ma culturale e pur sempre pericolosa perché costituisce un attentato alla creazione. Siamo chiaramente davanti a un’offesa contro le persone Lgbtq che sono tali per natura, e questa sua prospettiva di genere, nell’attuale società occidentale è sempre meno condivisa.

3. La donna sottomessa ed emarginata. In questi dieci anni il papa ha moltiplicato le prese di posizione per una necessaria uguaglianza di diritti fra donne e uomini in tutti gli ambiti della società civile. Ma all’interno della comunità ecclesiale la donna non può accedere a tutti i posti di responsabilità e di potere perché Dio in persona avrebbe deciso così[7]. Il papa ha fatto un timido riferimento alle diaconesse e ha permesso che qualche donna svolgesse alte funzioni in un dicastero vaticano,[8] ma si tratta pur sempre di funzioni subalterne, comunque sempre slegate dal sacerdozio sacramentale, dall’ordine sacerdotale. Gli argomenti adotti, del tutto anacronistici, sono sempre gli stessi: la differenza assoluta fra sacerdozio comune e sacerdozio sacramentale, l’elezione da parte di Gesù di 12 apostoli maschi, la distinzione fra funzione amministrativa e potere sacramentale derivante dal sacramento dell’Ordine,[9] indispensabile per celebrare l’eucaristia e l’assoluzione sacramentale dai peccati. Nel 2022 papa Francesco ha anche fatto sua la teoria del principio doppio, mariano e petrino, che regge la Chiesa, teoria proposta da Han Urs von Balthasar:[10] Maria simbolizza l’amore, ed è essenziale nella Chiesa, però manca di potere; Pietro e suoi successori – con amore o senza amore – posseggono in esclusiva il potere di rappresentare il maschio Gesù, che come maschio rappresenta Dio Padre. Finché non si rompe questo sistema patriarcale – dice l’autore - non ci potrà essere primavera ecclesiale.

4. Lo stallo dei sinodi. Sinodo vuol dire cammino condiviso, sebbene nel Diritto canonico significhi assemblea del papa con i vescovi. Con papa Francesco abbiamo avuto tre sinodi generali, e il quarto è in corso, ma non sono serviti per andare avanti perché alla fine ci si è voltati verso il punto di partenza. L’autore prevede che lo stesso accadrà con quest’ultimo sinodo. Il primo è stato il Sinodo dei giovani (2018) nel quale i giovani hanno brillato per la propria assenza. Poi è stato convocato il Sinodo dell’Amazzonia (2018-19) nel cui documento finale si proponevano alcuni maschi sposati ‘idonei e riconosciuti, che sono diaconi permanenti, per essere ordinati sacerdoti in alcune zone remote della regione amazzonica (n.111); ma il 3 settembre 2000 papa Francesco ha disapprovato questo paragrafo[11]. Il terzo è stato il Sinodo della Famiglia (2021-22) nel quale si sperava che i divorziati risposati potessero accedere alla comunione, ma il punto è rimasto ambiguo sì che ognuno fa come meglio gli pare, proprio come prima del Sinodo[12]. Infine, nel 2021 è iniziato il quarto Sinodo sulla sinodalità, che di recente è stato prorogato al 2024 non si sa se per guadagnar tempo o perderlo. Ma l’autore pensa che anche questo sinodo terminerà come è cominciato, col richiamo ai carismi certi di verità nella successione episcopale e alla Chiesa come comunità gerarchicamente strutturata (nn,12-14 del Documento preparatorio). Se non si riesce a superare questa impostazione, non ci sarà alcun cammino condiviso, ma si finirà in un vicolo cieco clericale. Per convincersene, dice l’autore, basta guardare alle conclusioni innovative del sinodo tedesco, quando lo stesso cardinal Kasper (finora punto di riferimento del fronte innovatore) ha detto che il cammino sinodale tedesco si è convertito in una farsa del sinodo. E ‘Maria 2.0’, il movimento tedesco delle donne cattoliche romane, ha avvertito che effettivamente c’è il pericolo di un fallimento totale del loro sinodo.

5. Il clericalismo è la radice di tutti i mali. La Chiesa cattolica romana si definisce sulla base di un modello verticale, autoritario, di maschi, per di più celibi. È un modello ormai obsoleto senza alcun fondamento in Gesù e nelle prime generazioni cristiane (tanto che Pietro era sposato), ed è come se oggi si dichiarasse obbligatoria e vincolante la pergamena e il papiro perché allora erano gli unici supporti per scrivere.

Papa Francesco si è più volte espresso in termini severi contro la tentazione del clericalismo, ma non ha fatto grandi passi per combatterlo o almeno relativizzarlo. Ha denunciato a ragione che i laici clericalizzati sono una piaga per la Chiesa ma non ha detto che questa piaga deriva dal modello clericale della stessa Chiesa, né che questo modello è la causa principale dei mali sistemici di questa Chiesa cattolica romana (comprese le aggressioni sessuali) e che bisogna abrogarlo in nome della fratellanza universale proclamata da Gesù e cui l’umanità aspira.

Eradicare il modello clericale piramidale, autoritario e maschile richiede però una trasformazione radicale della teologia nel suo insieme e uno smantellamento delle basi dell’attuale codice di Diritto canonico. Non ci sarà primavera nella Chiesa finché questo non succede; allo stesso modo non faranno passi in avanti i sinodi finché l’ultima parola l’avranno il papa e i vescovi nominati dallo stesso, né finché il papa si vedrà attribuiti tutti i poteri (anche se molti sono di fatto esercitati dalla curia che li esercita per lo più in maniera opaca e fuori ogni controllo) e sarà eletto da cardinali nominati dal papa precedente.

S’impone allora per l’autore questa conclusione: la primavera abbozzata da papa Francesco resta in sospeso, completamente in sospeso. E non può valere come scusa l’esistenza – vera o meno - di grandi poteri che operano contro di lui, fuori e soprattutto dentro lo stesso sistema clericale (l’autore fa i nomi dei cardinali Pell, Burke, Brandmüeller, Müeller, Sarah, Rouco, Erdö, Quellet, Viganò, ecc.), ove la lotta per il potere e per vari interessi sono la parte costitutiva del sistema di papato assolutista.

L’autore conclude dicendo che non intende minimamente deprezzare questo papa di mente gesuita e di cuore francescano, uomo come noi e anzi migliore della maggior parte di noi, arrivato con la sua mentalità, la sua teologia, il suo modello di Chiesa, come uno qualsiasi di noi. Fa le cose come pensa sia meglio e al suo meglio, tanto più vista l’età e la salute non al top. Ma anche lui rappresenta un sistema ecclesiastico obsoleto. È ostaggio del papato, della sua storia e dei suoi dogmi inamovibili. È il capo assoluto di un’istituzione in cui deve confrontarsi con un’alternativa assai poco rosea: o cercar di riformarla radicalmente (cosa improbabile per non dire impossibile) o impegnarsi a mantenerla con meri adeguamenti di funzionamento, di riforme curiali (sinodi compresi), il che equivale però a lasciare che decada a poco a poco, al ritmo dell1% annuo di perdite di fedeli, stando le statistiche implacabili socio-religiose di tutto il mondo.

Questo è il bilancio generale che l’autore spagnolo fa dopo dieci anni di pontificato. La valutazione può sembrare forse troppo pessimista, ma l’autore vuol mettere ben in chiaro che non si sente deluso da papa Francesco. E questo per due motivi:

- Dieci anni fa non aveva la minima speranza di una grande riforma ecclesiastica (e 50 anni la stessa non era nemmeno pensabile), per cui se non si hanno grandi aspettative non si hanno neanche grandi delusioni;

- ma soprattutto il fatto che l’attuale istituzione ecclesiale stia crollando non gli sembra né una gran disgrazia, né un motivo per disperarsi.

La speranza del mondo non si gioca infatti sul futuro di questo sistema ecclesiale. Con tutti i dubbi e le contraddizioni che lo assillano l’autore vive nella speranza di poter continuare a custodire, in sé e negli altri, la fiamma che arde nella comunità dei discepoli di Gesù, senza invece più sperare di poter riformare questa istituzione ecclesiastica vaticana, ormai irreformabile.

Voglio però concludere evidenziando un punto non toccato dal teologo spagnolo: la teoria del pluralismo religioso[13]. Il concilio Vaticano II, pur non trattando a fondo l’argomento ha aperto una breccia. Per secoli, fino al concilio, la Chiesa aveva proclamato l’esclusivismo della religione cattolica: extra ecclesiam nulla salus,[14] era il suo motto. Il concilio ha ammesso la possibilità di salvezza anche al di fuori della Chiesa,[15] pur rimanendo tutti in misteriosa connessione con essa. Un piccolo passo, dunque, perché se l’inclusivismo è, in fin dei conti vicino all’esclusivismo perché afferma che la salvezza, anche fuori del cristianesimo, è comunque cristiana: tutti sono salvati attraverso Cristo. Perciò il cambio che sembrava assai profondo, in realtà non lo è[16]. Ma anche questo misterioso inclusivismo sembra superato perché con una coraggiosa spinta di papa Francesco che ha abbandonato anche il criterio conciliare andando più avanti[17].

È stato correttamente detto che la prospettiva del pluralismo religioso imporrà di riscrivere tutta la teologia, perché la teologia del pluralismo non è una teologia settoriale (del genitivo), ma abrogativo (dell’ablativo), nel senso che parte da un principio mai contemplato in precedenza dalla religione cattolica. Ciò significa che non ci sono più popoli eletti o religioni preferite da Dio: quindi, anche il cristianesimo dovrà presentarsi in modo nuovo. Se tutte le decisioni precedenti sono pensate ed espresse partendo da un linguaggio che non conosce questo principio innovativo vuol dire che perdono di significato e vanno reimpostate. Che resta infatti di una religione una volta che la si spoglia di tutto il fondamento culturale (solo nel cristianesimo c’è tutta la Verità perché rivelata direttamente da Dio)? Una volta che si afferma che ogni religione costituisce solo una mappa fra le tante di un vasto territorio, sempre imperfetta e sempre migliorabile? Si potrà ancora parlare di Rivelazione divina esclusiva? Si potrà parlare di storia della salvezza come si è fatto fino ad oggi, sapendo che tutte le religioni non hanno più di 5000 anni mentre il solo homo sapiens calpesta la terra da 100.000-150.000 anni? Può la religione arroccarsi dietro le sue affermazioni immutabili, quando la scienza fa progressi quasi quotidianamente? Si può oggi essere religiosi senza credere alla scienza?[18]

La cosa più grave non è dunque che papa Francesco fatica a far partire una nuova primavera nella Chiesa. La cosa più grave è che la maggior parte della Chiesa è restia ad ogni cambiamento in nome della Tradizione e pensando di essere sempre in possesso della Verità assoluta. Ancor di più: rifiuta financo di riflettere su queste nuove problematiche senza rendersi conto che le domande religiose dell’umanità sono ormai lontane anni luce da ciò che il magistero continua a insegnarci come nulla fosse. Non so perché, ma questo atteggiamento mi ricorda tanto l’orchestrina che continuava a suonare sul Titanic che affondava.

Come ha detto sempre padre Arregi, la speranza non sta allora nello sperare o nell’attendere che qualcosa di meglio succeda nell’istituzione, ma nel vivere ispirati dallo Spirito, lasciandosi cioè inspirare dallo Spirito trasformatore e facendo germogliare giorno dopo giorno un piccolo seme per una futura pienezza di vita comune, alla quale tutta l’umanità aspira.

 

 


NOTE

[1] Sul n. 537/2019 di questo giornale (https://sites.google.com/site/edizione500rodafa/numero-537---29-dicembre-2019/cosa-ha-fatto-finora-papa-francesco-per-la-chiesa).

[2] Arregi J.F., La primavera pendiente, “Umbrales de luz” – settore Reflexiones, del 28.2.2023.

[3] Coerentemente si chiedevano già molti anni fa in Sud America: “se non abbiamo il ‘vino’ dell’Europa, se non abbiamo la sua cultura - che non è né migliore né peggiore della nostra, – se non abbiamo la tradizione ben sistemata in una spiritualità fatta per quelle latitudini e in quei processi storici (troppo spesso, ahimè, con pretese di egemonia), non si dovrà usare da noi la ‘chicha,’ (nda: una specie di birra artigianale) bevanda delle nostre culture ricchissime e il filtro della nostra storia? O sarà che solo in un ‘vino’ del Primo Mondo si può bere la realtà di Dio?” (P. Casaldàliga e José M. Vigil, La spiritualità della liberazione, Cittadella, Assisi, 1995, 19).

[4] Non a caso, nel 2012, poco prima di morire, il cardinal Martini diceva che «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni» (https://www.corriere.it/cronache/12_settembre_02/le-parole-ultima-intervista_cdb2993e-f50b-11e1-9f30-3ee01883d8dd.shtml).

[5] Intervista con l'Associated Press dl 25.1.2023. Vedi il mio articolo La storia di Sodoma secondo la Bibbia, al n.619/2021 di questo giornale.

[6]  Intervista al quotidiano argentino La Nación — la conversazione è stata tradotta in inglese dalla Catholic News Agency.

[7] Vedi i miei articoli sulla Donna e il sacerdozio al n.542/20 e sul Patriarcato al n.689/22 di questo giornale.

[8] Dopo l’uscita dell’articolo di Arregi, papa Francesco ha fatto un piccolo passo ulteriore, avendo permesso per la prima volta che delle donne abbiano diritto di voto nel sinodo tuttora in corso.

[9] Vedi sul punto quanto detto il mese scorso nell’articolo Chiesa e governo.

[10] Uno dei principali teologi del secolo XX, ma teologo conservatore, nel suo libro Il complesso antiromano del 1974, ed. Queriniana, Brescia.

[11] Richiamo però il mio articolo un po’ dissonante, Querida Amazonia, del 23.2020 n. 546 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa20201/numero-546-1-marzo-2020/querida-amazon%C3%ADa).

[12] Anche su questo punto non concordo pienamente con l’autore, infatti al § 305 dell’AL si legge: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa»; e nella nota 351 a piè pagina  si legge: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. Ap. Amoris laetitia 19.3.2016). Quindi, anche se non detto papale papale, c’è un evidente spiraglio.

[13] Pensiamo solo al Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi del 4.2.2019, ove si afferma che il pluralismo religioso è dovuto alla sapienza di Dio.

Il pluralismo religioso è stato sempre visto dalla Chiesa come una realtà negativa, peccaminosa, contraria alla volontà di Dio, una vera e propria punizione divina (Mori B., Per un cristianesimo senza religione, Gabrielli editore, San Pietro in Cariano (VR), 2022, 81). Miticamente proveniva da un castigo di Dio stesso per il peccato dellorgoglio umano: egli confuse le lingue ed ebbe così origine la diversità culturale e religiosa (Babele). Il pluralismo religioso sarebbe stato frutto del peccato: pertanto non era accettabile che potesse figurare allinterno del piano di Dio.

[14] Cfr. il mio articolo su questo giornale del 21.10.2018, al n. 475.

[15] Costituzione dogmatica sulla Chiesa – Lumen gentium del 21.11.1964, §16. Cfr. anche Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Gaudium et spes, del 7.12.1965, §22: Cristo, infatti, è morto per tutti (40) e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale.

[16] Vigil, J.M., Horizonte, Belo Horizonte, v. 5, n. 10, p. 48s., giugno 2007.

[17] Vigil José M. sembra essere stato uno dei primi ad accorgersene, ed è un dato di fatto che solo recentemente la pluralità ha cominciato ad essere vista come riflesso dell’infinita ricchezza di Dio e quindi come qualcosa di positivo, il che porta ad escludere che noi si possa essere un popolo o una religione di eletti (Vigil J.M., Il paradigma pluralista e i compiti della teologia, “Concilium” n.1 del 2007, 44s.).

[18] Tutte domande poste, senza dar risposta, dal citato Vigil, Idem, p52s.