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Giulia Fanese, Lydia Natus e Paola Antonella Emanuela

di Stefano Sodaro

24 aprile 1921, concorso per dattilografe - foto tratta da commons.wikimedia.org

Continuiamo, temerariamente, ad ipostatizzare possibili nomi e presenze femminili in ricezione, o quasi evocazione, di incontrovertibili narrazioni muliebri pochissimo considerate, peraltro, dalla cultura maschilista che ancor oggi domina (e, nonostante tutto e tutte, trionfa).

Si è avuto modo di fare qualche cenno alla vicenda storica di Giulia Farnese, amante di Papa Alessandro VI, ed a quella, davvero nota soltanto ad esperti italianisti, di Lydia Natus, con altri sposata ma a lungo compagna del poeta Clemente Rebora, che poi divenne prete rosminiano.

I luoghi di Bolsena, Capodimonte, Vasanello, Carbognano ancora respirano dell’intelligenza e della grazia di “Giulia, la Bella”, che – oltre alla relazione con il Vicario di Cristo (da cui l’appellativo, ironico e dispregiativo, al limite della blasfemia, di “Sponsa Christi”) – ebbe due mariti: Orsino Orsini, designato dallo stesso Papa Borgia, e poi, rimasta vedova, Giovanni Capece Bozzuto, di cui pare invece si fosse davvero innamorata. Sono ricorsi, lo scorso 24 marzo, i cinquecento anni dalla morte di Giulia, le cui lettere rivolte al Pontefice amante lasciano trasparire, tuttavia, qualcosa di diverso e di altro rispetto ad un mero schiacciamento emotivo e ad una sudditanza psicologico, del resto indubitabile, nei confronti del potentissimo partner. Giulia, cioè, è ben consapevole del proprio potere seduttivo ed agisce – libera o costretta che fosse – assecondando anche propri desideri e progetti, nonché valorizzando uno spazio di riconosciuta autorevolezza, tutta interna al Vaticano, che si era ritagliata, a fatica, con la propria avvedutezza, persino scaltrezza.

Sarà il caso di cercare a nord, viceversa, i luoghi frequentati da Lydia Natus: a Parigi, a Milano. Ma qui merita riprodurre per intero la nota 27 che compare a pag. 310 dell’eccezionale volume di Margherita Marchione L’immagine tesa. La vita e l’opera di Clemente Rebora, pubblicato, in prima edizione, nel 1960 dalle Edizioni di Storia e Letteratura.

Margherita Marchione è una religiosa statunitense delle “Maestre Pie Filippini” (fondate da Lucia Filippini, 1672-1732) e non ha pudibonde ritrosie nel riportare, alla citata nota 27, queste testuali parole della Natus: «In questi giorni scriverò del mio primo amore e padre della mia prima e unica creatura; né posso tollerare che si parli di Lui (morto nel 1931 – giorno di S. Lidia – anche dopo tanti e tanti dolori ch’io ne ebbi) male e che si ricordi di tanti e tanti torti che mi fece – tutto fu perdonato, tutto sofferto, tutto lavato col perdono. Io pure non sono una santa ed ebbi certi torti, ma è giusto dire delle disgrazie e della prigione – ne uscì e venne a casa mia in 3 Via Tadino – ove Rebora e io l’accogliemmo con paterno bacio ed abbraccio. Fu una giornata meravigliosa di umanità, umano perdono ed il mio ritratto che mi chiese e la rosa bianca che gli offersi e quei pochi soldi che potei dargli, con un buon bicchiere di vino – fu una delle più divine ore passate con Lui che mi fece tanto penare…».

Cioè, per capirci: il futuro don Clemente Rebora, prete devotissimo e zelantissimo, ma prima (cronologicamente prima) stimatissimo poeta e letterato, accolse con affetto – fino a baci ed abbracci -, nella casa dove viveva con la sua amante, il marito di lei, che pure non tollerava si parlasse male di chi aveva coscientemente sposato. Quell’incontro a tre “fu una delle più divine ore passate”. Riconosciamolo: rivelazione strabiliante, così come al limite dell’incredibile appare l’episodio raccontato, più attuale e moderno di qualunque odierna moralistica fobia affettiva.

Però, si diceva all’inizio, che vorremmo ancora provare ad “ipostatizzare”.

È diffusa l’idea, deleteria, che si possa – anzi quasi si debba – parlare della donna, al singolare, come se esistesse una corrispondente categoria concettuale, in osmosi pressoché metafisica con un ideale immutabile. “La donna”. E la sua dignità. Mulieris dignitatem et vocationem humana et christiana meditatio, quae constanter huic studuit argumento, recentioribus annis maximi fecit momenti, dirà Giovanni Paolo II. Tutto al singolare. La dignità della donna e la sua vocazione - oggetto costante della riflessione umana e cristiana - hanno assunto un rilievo tutto particolare negli anni più recenti.

Solo che “la” donna non esiste. Perché esistono “le” donne. Addirittura Wojtyla parla di un’unica “vocazione” della donna, sempre al singolare, che verrebbe enucleata da una riflessione non solo cristiana ma anche semplicemente umana. Un’umanità al singolare.

Ci si può allora legittimamente domandare quale antropologia sia sottesa a questa gigantografia della donna sublimata e ridotta ad inscalfibile unità sia di genere che di numero.

Le donne sono, al contrario, tante, perché tante sono le nostre stesse soggettività. Possiamo apprendere da Paola Franchina, Vicepresidente dell’Associazione Culturale “Casa Alta”, cosa significhi dedicare la vita alla teologia. Da Emanuela Buccioni, neotestamentarista, coautrice del volume Senza impedimenti. Le donne e il ministero ordinato, appena uscito per Queriniana (Andrea Grillo ed.), che cosa riportino effettivamente le Scritture cristiane sulle presenze femminili del discepolato apostolico gesuano. Da Antonella, che può esserci parente – cugina, cognata -, o collega, o amica, cosa vuol dire affrontare quotidianamente l’impegno lavorativo nei più diversi ambienti e contesti.

Gustavo Gutierrez, che ieri ha compiuto 96 anni, invitava, nel suo testo eponimo Teologia della liberazione, a sperare che un eventuale matrimonio dei preti nel futuro non ne imborghesisse il ministero, ma lo facesse rifiorire evangelicamente. Jürgen Moltmann, mancato lunedì scorso, fece del proprio matrimonio – con Elisabeth Wendel, anch’ella teologa e teologa femminista – il luogo di scaturigine di quel ministero di studio dell’evento di Gesù di Nazaret cui si dedicò sino alla fine dei suoi giorni.

Ci chiediamo se non sia venuto il momento di parlare non delle “mogli di”, bensì dei “mariti di”, sganciando poi definitivamente storia delle donne da risvolti nuziali e familiari.

Giulia Farnese vuol dire Fine Quattrocento e primi decenni del Cincquecento. Lydia Natus ripropone un periodo che possiamo far iniziare dal Risorgimento, transitando per Manzoni. Emanuela, Paola, sono la storia contemporanea della Chiesa del postconcilio. Antonella è la vita di ogni giorno.

Ma - visto che tanto piace La Donna, senza plurali - potrebbe anche essere nome di un’unica interlocutrice delle nostre vite: Paola Antonella Emanuela.

Segnali, sentieri, direzioni, su cui – come settimanale – desideriamo proseguire.

Buona domenica.