Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

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“Sentinella, quanto resta della notte?”

Riflessioni di un ultra ottuagenario

prima puntata




di Pietro Duosi

“La sentinella risponde:

«Viene il mattino, poi anche la notte;

se volete domandare, domandate,

convertitevi, venite!». (Isaia 21,11)

Che strani questi versi, addirittura contraddittori, in ogni caso abbastanza misteriosi, perché non rispondono alla domanda, ma introducono altri temi. Partirei da qui per le mie riflessioni, perché queste parole mi sembra che offrano alcuni spunti di riflessione di un qualche interesse.

Chi scrive è un esperto di niente, se non di vita vissuta con grande intensità, formato nella città più comunista dell'Italia del dopo guerra: Bologna.

Sono stato battezzato, cresimato e ho fatto la prima comunione e questa è stata tutta la mia formazione religiosa. A 15 anni mi sono imbattuto, però, casualmente in due grandi scrittori cattolici (Francois Mouriac e Thomas Merton) che hanno scritto, fra laltro, due libri straordinari (“Giovedì santo” e “Pensieri nella solitudine”) che mi hanno aperto orizzonti inaspettati. Poi di nuovo silenzio profondo fino allincontro casuale con la Fuci di Bologna di don Bettazzi, le settimane di cultura fucina a Camaldoli e poco altro.

Il mio interesse importante e duraturo per quanto attiene la Chiesa risale ai tempi del Concilio, perché Papa Roncalli è stato anche per me quella luce potente che ha squarciato il buio della mente e dello spirito di tante persone, cattolici e non solo. Avendo avuto poi la fortuna di vivere a Bologna dove c'erano persone e strutture impegnate da anni a riflettere sulle necessità di rinnovamento della Chiesa (Alberoni, Dossetti, Bettazzi, Lercaro, che non casualmente ricevette dal Papa lincarico di essere uno dei quattro moderatori del Concilio), l'argomento Chiesa esplose fra i miei interessi in maniera fragorosa e sistematica.

A questo punto le mie conoscenze degli uomini di chiesa si sono estese, ma fra tutti desidero in particolare ricordare mons Luigi Bettazzi (per me più di un fratello, ci conosciamo e frequentiamo da più di 70 anni) e il più grande moralista della Chiesa, il padre Bernard Haering, che ho personalmente conosciuto e frequentato durante il mio periodo romano (sacerdote che considero il mio vero padre spirituale). Poi, negli anni della contestazione, don Milani, padre Davide Maria Turoldo, il card. Martini, e, filtrati dal Centro culturale Veritas di Trieste, i teologi della liberazione, Camillo Torres, i gesuiti di San Salvador, padre Arrupe e la c.d. Chiesa innovatrice e rivoluzionaria, che tante ostilità sollevò nei Papi Giovanni Paolo Secondo e Paolo Sesto.

Posso anche dire di aver intensamente vissuto, in maniera peraltro sempre consapevole, con viva passione e curiosità per la vita, le persone, le situazioni apparentemente più difficili da risolvere. Mai rifiutando le responsabilità. Se ho sbagliato, e ho sbagliato, è stato solo per mia insufficienza e manchevolezza.

Ho letto moltissimo nella mia vita, buoni libri, scelti accuratamente, nessuno a contenuto religioso, ma dove ho rintracciato tutti i temi della vita e della morte, scrittori e poeti letti anche più volte, instancabilmente e sempre e solo se affascinato.

Amo anche il cinema, arte complessa e completa, e la musica sinfonica, che ho avvicinato solo dopo i trent'anni da assoluto autodidatta, ma senza la quale la mia vita sarebbe stata molto povera di ispirazione e bellezza.

La curiosità per la vita, per sforzarmi di comprenderla, è sempre stato il mio tormento ma anche il mio sostegno più robusto.

Insomma, una cultura tutta laica, pochissimo religiosa, e molto costruita sui problemi e percorsi della vita, delle persone, non guidata da norme e precetti religiosi. Un amore sviscerato per le persone, da cui sono sempre stato attratto in modo totale e che mi ha assorbito nel privato e sostenuto nel mio impegno di lavoro. Direi, per riprendere una frase celebre di don Vatta, una vita che si è costruita per le persone e tra le persone, nelle fabbriche, nelle officine e negli uffici, traendo in questi percorsi e fuori dai sentieri istituzionali e accademici le ragioni del mio vivere.

Bologna, città dove sono nato e vissuto fino alla laurea, era una città contraddittoria. Dominava il partito comunista, quello uscito dalla guerra, duro e puro, ma le chiese alla domenica, e non solo, erano sempre piene di preti e di messe, frequentate prevalentemente da donne. Una domenica, al termine della messa, il sacerdote, un bravo vecchio molto avanti negli anni, disse: “E ora preghiamo per il primo fra noi che morirà” (eravamo più di cento). Fu questo il mio primo incontro con la morte, almeno con l'idea della morte, e avevo forse 10 anni. La cosa mi sembrò un po' stravagante, ma non mi impensierì, perché davo per scontato che c'erano molte persone che mi avrebbero preceduto. Ma mi colpì sopratutto lidea che molti sembrarono turbati, mentre io consideravo la morte come parte della vita e dunque qualcosa di cui non aver paura. Di fatto, in famiglia, non avevo ancora conosciuto la morte, quella vera, reale, quella definitiva.

Ho detto che ho sempre amato il cinema. Vi introduco, ora, in una scena celebre, indimenticabile e suggestiva, in cui protagonista è la Morte.

Un cavaliere, Antonius Block, siamo ai tempi delle crociate, riposa con il suo cavallo sulla riva del mare. Cè un bellissimo tramonto (lo si intuisce, perché il film, come è noto, è girato in bianco e nero). Sta tornando dopo molti anni al suo castello, a sua moglie, ai suoi figli e forse sta pensando alla gioia con cui verrà accolto. Allimprovviso, gli appare davanti un altro cavaliere, senza corazza né cavallo, vestito con un mantello nero che lascia scoperto solo il tondo del viso, bianco come fosse dipinto. E si siede davanti a lui, sulla spiaggia.

“Antonius Block: Chi sei tu?

  • Sono la Morte.

  • Sei venuta a prendermi?

  • È già da molto che ti cammino a fianco.

  • Me n'ero accorto.

  • Sei pronto?

  • Il mio spirito lo è. Non il mio corpo. Dammi ancora del tempo!

  • Tutti lo vorrebbero… Ma non concedo tregua.

“Ma la mia famiglia, i miei figli, i miei servi mi attendono per la cena”.

La Morte sorride senza rispondere.

“Ti faccio una proposta” riprende Block. “Giochiamo una partita a scacchi, ma faremo una sola mossa a testa ad ogni nostro incontro e rinvieremo la successiva a quando ci rincontreremo e sarai tu a decidere quando sarà. Questo mi consentirà di allungare un po' la mia vita”

“Acconsento” dice la Morte

“E se dovessi essere io a vincere la partita?” aggiunge Block

La morte sorrise di nuovo: “Non è mai successo, ma avrai salva la vita” e sparì.

Quelli di voi che amano il cinema avranno riconosciuto in queste battute il film “Il Settimo Sigillo” di Ingemar Bergman, uno dei grandi capolavori della cinematografia di tutti i tempi. Non racconterò altri dettagli, né sopratutto come la Morte riesca a vincere la partita usando un vile inganno. Ma da quel film (che mi ha profondamente emozionato e fatto sì che io lo abbia visto almeno una decina di volte) non sono mai riuscito a disgiungere il concetto della Morte da quello di viltà. La Morte inganna, viene sempre quando non è attesa e coglie sempre di sorpresa.

Peraltro Gesù stesso ammonisce nellepisodio delle dieci vergini: “Vigilate, itaque, quia nescitis diem neque horam”.

Avevo quindici anni. Iniziava il periodo della mia maturità.

Ma iniziava anche il tempo della complessità e della confusione. E della magia, di cui ho sempre subito un gran fascino.