Dio è morto e anch’io non mi sento molto bene

di Paola Franchina

Il tema della morte di Dio, caro a Nietzsche, ha affascinato svariati artisti, che si sono cimentati nella rielaborazione personale di tale suggestione. Un esempio ci viene offerto da Woody Allen, il quale, nel copione Dio, mette in atto la morte del Creatore del cielo e della terra.

A comparire sulla scena sono lo scrittore Epàtite e l’attore Diàbete, presentati nell’atto di allestire un dramma.

Scrittore: Siamo personaggi in una commedia e presto vedremo la mia commedia... che è una commedia dentro una commedia. E ci stanno guardando.

Attore: Si. È eccezionalmente metafisico, non trovi?

Scrittore: Non è soltanto metafisico, è stupido!

Attore: Preferiresti essere uno di loro?

Scrittore: (guardando il pubblico) Assolutamente no. Guardali.[1]

I due personaggi decidono di inscenare la storia di uno schiavo, Fidipine, inviato a recapitare un messaggio al re Edipo. Il messaggero, grazie al concorso di eccentrici personaggi, riesce nell’ardua impresa. Le prodezze del protagonista, tuttavia, non sortiscono l’effetto sperato: in luogo di un encomio, il re emette un’amara sentenza di morte che va a gravare sulla testa dello sciagurato messo, colpevole solo dell’essere foriero di notizie. Si assiste ad un crescendo nella tensione narrativa: lo spettatore è incoraggiato ad attendere lo scioglimento dell’intreccio attraverso l’intervento provvidenziale di un deus ex machina.

Scrittore: Ma stai dicendo che Dio arriva alla fine e salva tutto.

Attore: Mi piace! Piacerà al pubblico perché è spettacolare.

Doris: Hai ragione. È come quei film sulla Bibbia fatti ad Hollywood.[2]

La prolessi induce la platea a sperare nel provvedimento salvifico di Dio. Nondimeno, l’apparecchiatura, deputata a far scendere sul palcoscenico il Demiurgo, si inceppa: ad essere messo in atto è un trapasso paradossale, il Dio che dovrebbe presiedere i fenomeni viene fagocitato dal suo stesso macchinario.

Diàbete: Dio...Dio? Dio? Dio, stai bene? C’è un medico in sala?

Dottore: (dalla platea) Io sono un medico.

Trichìnosi: La macchina si è ingarbugliata.

Epàtite: Psst. Esci. Stai rovinando la commedia.

Diàbete: Dio è morto.

Dottore: Aveva la mutua?[3]

Il taglio delle parche colpisce anche l’Onnipotente: a diagnosticarne l’avvenuto decesso è un bizzarro medico, il quale non comprende la gravità dell’avvenimento e si preoccupa di indagare se l’Essere perfettissimo, Signore e Creatore sia iscritto ad un ente di previdenza sociale. Lo stile è sferzante ed ironico, realtà e finzione si mescolano fino a confondersi. Il delirio onirico diviene una cartina di tornasole della condizione umana: l’indomabile tensione verso la riuscita soggettiva, di cui il volto provvidenziale di Dio è avallo, è destinata a frangersi contro la molteplicità caotica dell’esperienza.

In questa desolante prospettiva, un uomo che abbandona il teatro indignato è allegoria della delusione dei mortali.

Uomo: Vi faccio vedere io se sono fittizio o no. Me ne vado e chiedo il rimborso del biglietto. Questa è una commedia stupida. Anzi, non è affatto una commedia. Se vado a teatro, voglio vedere qualcosa con una storia, un inizio, un centro e una fine invece di questa merda. Buona notte. (Esce indignato dal corridoio)[4]

Il finale rimane aperto. La sintesi razionale viene scalzata dal disordine: si assiste all’oblio di ogni prospettiva unificante capace di dare un inizio, un centro e una fine all’esistenza. Dinnanzi all’assurda commedia umana, l’unica soluzione è il rimborso del biglietto: la ricerca di una conclusione soddisfacente o, quantomeno, attendibile sembra essere una lotta titanica.

Diàbete: Poco soddisfacente? Non è neanche attendibile. (Le luci cominciano ad abbassarsi) Il trucco sta nel cominciare col finale quando scrivi una commedia. Trovati un buon finale di effetto, e poi scrivi, tornando indietro.

Epàtite: L’ho già provato. Mi è venuta una commedia senza inizio.

Diàbete: Assurdo.

Epàtite: Assurdo? Cosa è assurdo? [5]

A rimanere sul palcoscenico della realtà è il dominio dispotico dell’assurdo, con le sue aporie: le pretese ottimistiche del positivismo ottocentesco vengono sbugiardate dall’umorismo grottesco che domina l’impianto narrativo. L’epilogo ammicca all’immagine nietzschiana dell’uomo folle che annuncia la fine di ogni orizzonte di senso al di là della storia. Corrosa ogni certezza, a rimanere è la molteplicità vertiginosa dell’interpretazione.

Si incorre, così, in filosofie deboli di vattimiana memoria, incapaci di dare risposte in positivo, con il rischio di arenarsi in un’ermeneutica inesauribile che accoglie il vuoto e la miseria come definitivi.

Diàbete: Era una commedia buona. Mancava solo il finale.

Epàtite: Ma cosa significava?

Diàbete: Niente...assolutamente niente.

Epàtite: Cosa?

Diàbete: Senza significato. È vuota.[6]

La commedia della vita appare vuota, priva di significato. L’unica ancora di salvezza che si profila è abbandonarsi al caos e porsi alla scuola di Dioniso: il Dio pazzo che beve, ride e danza.

Epàtite: Questa è una commedia serissima, con un messaggio! Se va a puttane il messaggio non passa.

Donna: Ma via, il teatro è un divertimento! C’è un vecchio detto, se volete mandare un messaggio, telefonate alla Western Union.[7]

La donna rivendica la licenza di divertirsi, rinunciando ai messaggi edificanti e costruttivi. Epàtite, tuttavia, sembra sottrarsi a siffatta prospettiva. Lo scrittore non può arrendersi alle sabbie mobili del non senso e placare l’indomabile anelito verso un compimento: è proprio in questo spazio, dello sperare contro ogni speranza, che si insinua la Teologia.



NOTE

[1]Copione della commedia Dio di Woody Allen (PDF), su copioni.corrierespettacolo.it.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Ibid.