The Rabbi is in


Dopo Shabat: Blues


di Miriam Camerini

Potrebbe essere un modo per combattere la raskha, parola usata dagli ebrei francofoni dei paesi arabi, sensazione nota anche come “end of shabbat blues”, ossia quello sconforto che pervade i più alla fine del Sabato, quando il giorno di festa si dilegua e la settimana ricomincia.

La havdalah, separazione, è la breve cerimonia domestica che aiuta a ritornare pienamente padroni dei cinque sensi, annusando spezie profumate, bevendo vino e accendendo un lume, come abbiamo fatto per accogliere lo Shabbat, la sera precedente, cantando un inno al profeta Elia che presto arriverà ad annunciare la venuta del Messia, magari già questa settimana.

Nel frattempo, però, casomai dovesse tardare ancora un momento, ci auguriamo che la settimana porti benedizioni e ricchezze, che siano soddisfacenti le opere delle nostre mani, il nostro lavoro, gli incontri e le unioni di ogni genere, i nostri viaggi.

Ecco, io questa cosa dei viaggi la prendo come sappiamo abbastanza sul serio e dunque è già il secondo sabato sera in cui, appena uscito il Sabato e mentre ancora aspiro le spezie e bevo il vino della havdalah, già sto anche facendo rapidamente assai una piccola valigia e mi preparo a (ri)partire.

Lo scorso sabato ero a Budapest. Arrivata da Gerusalemme appena un paio d’ore prima dello Shabbat, di venerdì pomeriggio, lì ho trascorso un giorno di festa e di riposo meraviglioso, dolcissimo e di una serenità rara, complice il mio amico ungherese e un clima delizioso: freddo ma sereno e soleggiato.

Alla fine del Sabato abbiamo ricomposto la mia valigia, preso con noi una coperta - poi subito persa da qualche parte - e siamo saliti su un treno notturno (la mia vera casa, oramai lo so) dove una cuccetta tutta per noi con tanto di bagno ci avrebbe dolcemente cullati per tutta la notte fino alla Svizzera. Domenica mattina abbiamo visto l’alba dal finestrino, la luce rosa che si rifletteva sulla neve bianca dei monti e dei laghi mentre facevamo colazione sdraiati e felici come due bambini nella culla oscillante e viaggiante. Al volo siamo scesi dal treno a Zurigo, abbiamo depositato i bagagli negli efficienti armadietti e sono corsa a casa di mia sorella, la quale non aveva detto ai bambini che la zia stava per arrivare, così che la sorpresa fosse perfetta. Ci siamo coccolati e raccontati le prime cose e poi tutti fuori a mangiare nell’unico locale quasi kasher - ossia completamente vegetariano - della città. Ricomincia finalmente il piccolo tour di Caffe Odessa, il progetto musicale che oramai da anni portiamo a spasso per l’Italia e l’Europa, i miei amici-collaboratori-musicisti e io, per raccontare la musica ebraica delle molte diaspore, la sua molteplice e variegata ricchezza. A Bellinzona ci attende una bella sala con un’ottima acustica e un sole radioso: in poco tempo allestiamo il palco e i suoni e ci apprestiamo a partire per quel “viaggio” che tante volte abbiamo percorso e che pure ogni volta ci sorprende, emoziona e diverte: da Sefarad al Marocco, da Varsavia a Parigi a Istanbul, attraccando per un po’ a New York, a Genova e Odessa, sulle rive del Danubio e del Mar Rosso, sostando nei kibutzim della Galilea e del Negev, percorrendo la Podolia e tornando dai Balcani in Babilonia.

Mi commuovo ogni volta che canto una delle più recenti aggiunte al nostro repertorio, l’unico “omaggio” che ci concediamo in questa occasione legata alla memoria della Shoah: Mayn Shvester Khaye poesia struggente di Binem Heller dedicata alla sorella “bruciata a Treblinka da un tedesco”, la sorella Khaya che si occupava dei fratellini, ma che si dimenticava di giocare con loro. Per essa scrive Heller in yiddish la sua canzone in questi tempi così oscuri, sicuro che presso Dio siede alla destra come una figlia prediletta.

Gli amici venuti da Milano e da Budapest e da Lugano sono felici e partecipi, la serata è magica. In preda all’entusiasmo ci lanciamo fino a Lugano per una cena che ha molti aspetti artistici, sorprendenti ed emozionanti; il ritorno a Milano nella notte è a precisamente due mesi da quando l’ho lasciata alla fine di novembre: il divano letto resta sempre la miglior garanzia di vincere l’insonnia che sempre mi prende quando torno a “casa”.

L’indomani è frettoloso ma un po’ attutito dalle gioie della sera prima, nel pomeriggio mi attende a Genova una lezione a Palazzo Ducale sulla donna nelle Scritture bibliche e nella società ebraica oggi: una amica di mia madre mi sorprende con la sua presenza e mi sento subito a casa. Genova è una città con la quale ho sempre avuto un rapporto di fascinazione e repulsione, attrazione e timore: decido di trascorrervi ancora un paio di giorni, che passano in piacevole compagnia e con una visita alla bella mostra di Escher.

Le due giornate seguenti sono ancora dedicate alla Memoria, con una performance allestita all’Accademia di Brera assieme a talentuosi allievi di pittura che si prestano – voci e corpi – al teatro per leggere Brecht, Terrore e Miseria del Terzo Reich, un testo che ho tirato giù dagli scaffali in casa dei miei genitori: ci avevo lavorato a fine liceo e ancora ricordo l’emozione di una prima quasi-regia mia. Anche questa volta l’emozione c’è, canto il Moritat di Makie Messer e Manuel mi accompagna alla chitarra. Video e presenza si mescolano, la mattina - dal mio divano, sempre - ho parlato a studenti universitari e liceali della serie TV israeliana Shtisel, ambientata nel quartiere “ultraortodosso” di Geulla, a Gerusalmme.

Lo Shabat trascorre calmo, con genitori e un paio di amiche e amici: avevo bisogno di questa sosta casalinga. Sabato sera sono già di nuovo sul treno per Genova, la signora del chioschetto aperto tutta la notte vicino alla stazione Principe ormai ha capito il mio via-vai e mi saluta con calore quando attraverso la piazza per la II volta in soli 3 giorni.

Domenica è giorno di concerto: gli amici di Caffe Odessa arrivano a Genova, io ho appena finito di studiare con Gerusalemme il Talmud, ci troviamo in teatro, proviamo i suoni, un rapido aperitivo nei carruggi e si va in scena! Anche in questo caso il teatro è pieno e chi non c’è può seguire su youtube da casa (https://www.youtube.com/watch?v=kS4yLsLk54Y). L’energia è forte, la serata è dedicata a chi l’ha pensata e voluta, che ci ha lasciati proprio un mese fa, all’inizio dell’anno solare.

Dopo lo spettacolo andiamo a mangiare pesce e brindare “lechaim!” alla vita. Non c’è nulla da fare: stare sul palco, cantare e condividere con gli amici amati l’emozione e la musica sono fra le cose più belle della mia vita, e ogni volta che lo rifaccio dopo una pausa capisco quanto mi è mancato.


Foto di Paola Cazzaniga

Numero 646 - 30 gennaio 2022