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Viaggio in Italia


di Stefano Agnelli


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5. Il campo profughi




Posso dire di aver fatto anche questo. Tra l’inverno e l’estate del 1996 ho trascorso cinque mesi in un campo profughi come “responsabile operativo”, cioé sul campo, a risolvere i problemi pratici e organizzativi che si presentavano. La città di Valona, in Albania, aveva letteralmente collassato: per le strade si susseguivano continui episodi di violenza, strascico infinito di una rivolta collettiva.

In molti allora avevano attraversato l’Adriatico con mogli e figli, come sette anni prima, riversandosi con ogni mezzo che potesse galleggiare sulle spiagge pugliesi.

Questa ondata improvvisa ed imprevista di “rifugiati politici” - questo era il loro status ufficiale – obbligò il goveno italiano ad allestire in tutta fretta un certo numero di campi d’accoglienza, tra cui quello di Ponti Sette, nella campagna ferrarese, prima dell’abitato di Casaglia, di cui oggi sono qui a scrivere.

Ogni campo conteneva un certo numero di roulottes o “campine”, come le chiamano i Rom, ed unità speciali d’emergenza avevano realizzato gli allacciamenti elettrici, i servizi igienici – in prefabbricati – e le relative vasche biologiche.

Un lavoro davvero ben fatto. Quando venni contattato dalla cooperativa Serena, per lavorare all'interno del campo, i nostri futuri ospiti dovevano ancora arrivare.

Credo fossero ancora al Sud, in qualche centro di prima accoglienza che, come altri in meridione, li avrebbe poi smistati in giro per l’Italia. In assenza di persone il campo appariva surreale, vuoto e recintato com’era, lo si poteva scambiare per un campeggio, se non fosse stato per la presenza di un camper della polizia messo di traverso a bloccare parzialmente il cancello di ingresso. Ci dissero subito che i nostri ospiti non potevano rimanere in Italia, e che, una volta terminata l'emergenza, sarebbero stati rimpatriati. La polizia avrebbe vigilato sulle entrate e le uscite, mentre i profughi avrebbero avuto un foglio provvisorio per circolare, ma essendo il campo lontano dagli abitati, dovemmo poi procurare loro – grazie all’aiuto di volontari locali – delle biciclette.

Qualche giorno dopo che avevamo finito il check delle roulottes, arrivarono. Tutti insieme. Non dimenticherò mai il primo giorno, quando erano ancora felici e speranzosi di essere fra noi.

Li vedevo giocare a pallone dalla finestra dell'ex edificio scolastico al centro del campo, che avevamo attrezzato ad ufficio, infermeria per piccole medicazioni e guardaroba per lenzuola e asciugamani. Avevano fatto un cerchio e si passavano la palla, mentre Tofik – una specie di comico naturale, un Gurdulù alla Calvino de “Il cavaliere inesistente” – la inseguiva senza speranza, tra l’ilarità generale. Poiché portava una canottiera con la bandiera americana, gli improvvisati calciatori lo canzonavano costantemente gridando, con quel po’ di italiano che sapevano, allo scopo di far ridere anche noi: “Tofikù, l’americano! Tofikù l’americano!”

Durante i primi dialoghi che avemmo, tennero a chiarire che loro, fieramente erano “Shquiptar” (pronuncia “Scìptar”) ed il loro paese era la “Shqipheria” (pronuncia “Scìpria”), non l’Albania, parola creata da altri, gli invasori.

Alcuni di loro furono un problema, come Renato o Edward: irrequieti, insolenti e rissosi, ma altri come Batjar o Armando, una vera e propria risorsa per noi operatori. Batjar era tra i pochi operai specializzati del campo: mentre gli altri erano quasi tutti pescatori, lui aveva saldato piastre d'acciaio nei cantieri navali di Valona per una vita intera.

Ogni volta che nasceva una contestazione od un problema - specie alla distribuzione dei pasti, delle carte telefoniche o delle sigarette – Batjar era presente e calmava subito gli animi, rivolgendomi il suo classico intercalare: “Pooh, pooh, pooh Stefàno”, come a dire: “sciocchezze, stai tranquillo, ci penso io”. Pur non capendo i suoi discorsi, ne percepivo i toni. Sempre moderato, parlava con molta calma. Doveva essere un uomo molto saggio e di grande carisma, in quanto tutti lo ascoltavano, sempre.

La vita nel campo si andava spegnendo giorno dopo giorno.

Ricordo che quell’estate fece particolarmente caldo, e mentre abbruttivamo assieme per la noia e l’inedia, facevo sempre più fatica ad ottenere che curassero un minimo il campo. Dovemmo fare anche parecchie correzioni al menù, in quanto alcune verdure - come il radicchio rosso - per noi prelibate, erano per loro “buone per capra o cavallo”, cioè immangiabili. Dopo i primi tre mesi si stufarono di tutto, quella parziale cattività li stava esasperando, e divennero amorfi ed ingestibili.

Molti di loro avevano sperato di rimanere in Italia, e quando divenne chiaro che sarebbero stati rimpatriati ci trovammo di fronte ad uno sciopero della fame. Fortunatamente Batjar riuscì a ridurli alla ragione, ma credo ci abbia messo mano anche Shiqerì (pronuncia: Sicerì). Dato che durante la rivolta anche le prigioni erano state aperte, alcuni dei nostri ospiti erano ex carcerati, o per meglio dire evasi “legalizzati” dallo status di rifugiati. Shiqerì era fra questi.

Una ventina di giorni dopo il loro arrivo venni condotto nella sua roulotte, mi voleva conoscere perché aveva molto apprezzato il mio lavoro, o almeno così mi venne riferito. Si noti che io non l’avevo mai visto, perché viveva servito e riverito all'interno della sua roulotte, né sapevo della sua esistenza.

Mi accolse come un amico fraterno, in perfetto stile malavitoso, offrendomi del vino bianco e del pesce fritto. Quest’ultimo alimento era servito raramente alla mensa del campo, perché costoso, ma era il più ambito, poiché i nostri ospiti erano quasi tutti pescatori e risiedevano appunto in una città di mare. Nonostante fosse vietato cucinare nelle roulottes, per motivi di sicurezza, - tanto che i fornelli non erano nemmeno allacciati al gas – il mio ospite si era procurato un piccolo fornello elettrico e, quel che è peggio, vi aveva fritto nell’olio del pesce pescato nei canali attorno al campo, altamente inquinati. Decisi di mangiarlo, come avevo visto fare dagli antropologi di fronte a certi intrugli propinati loro da una tribù amazzonica, per accattivarsene la simpatia. Parlammo a lungo in francese, che Shiqerì conosceva bene, senza entrare più di tanto nei dettagli della gestione del campo. Mi incoraggiò a continuare, disse che stavo facendo un buon lavoro e che avevo un buon cuore, lui l’aveva capito. Ringraziai e presi congedo. Circa un mese dopo la polizia lascio il campo – devo dire senza alcun motivo, e fra le proteste delle nostre due assistenti sociali di riferimento - pertanto ci furono impartite istruzioni di chiudere ogni sera a chiave il cancello d’ingresso, quando lasciavamo il campo alle otto e mezza. Poche sere dopo l’introduzione di questa novità finimmo sui giornali locali.

Alcuni ragazzi con i loro scooter passarono una notte per la stretta strada che conduceva a Casaglia, forse per insultare gli ospiti del campo. Uno di questi perse il controllo del mezzo, ed ebbe la gamba destra amputata di netto dal muretto del piccolo ponte che si trovava davanti al cancello. Richiamati dalle urla Shiqerì, Levend, Armando ed altri scavalcarono la recinzione ed intervennero salvando la vita al ragazzo.

Per chi non avesse nozioni in merito dirò che l’amputazione aveva tranciato di netto l’arteria femorale, e quando questo succede si hanno soltanto una ventina di secondi per intervenire, poi il soggetto corre il rischio di morire dissanguato. Ora, mentre Levend ed Armando lo tenevano fermo a terra e lo tranquillizzavano, mentendogli sulla perdita della gamba, Shiqerì, levatosi la cintura, la passava attorno alla coscia del ragazzo, e stringendo a più non posso, riusciva a bloccare la fuoriuscita del sangue arterioso. Qualche automobilista di passaggio fece poi il resto, chiamando i soccorsi. La gamba venne recuperata e riattaccata con successo, tanto che a distanza di un mese il ragazzo, estremamente commosso, venne personalmente al campo per ringraziare che gli aveva salvato la vita.

Durante l’estate la situazione a Valona tornò alla normalità, il campo venne chiuso ed i miei amici rimpatriati. Tra lacrime ed abbracci, mi promisero che, una volta sul ponte della nave che li riportava indietro, avrebbero gridato tutti assieme il mio nome. A conclusione dirò che ancora oggi mi chiedo, con insoddisfabile curiosità, se l’abbiano poi fatto veramente quelle teste matte. Forse, un giorno o l'altro, Covid permettendo, prenderò coraggio e raccoglierò quell'invito fattomi da alcuni di loro, di raggiungerli a Valona, anche se oramai sono passati molti anni. Mi piacerebbe, se non altro, vedere la città, il posto dove vivono, per sentire nuovamente la loro vicinanza, almeno in spirito. Una sorta di genius loci che immagino diverso in ogni città.