Quale immagine di Dio mi sono fatto?
di Dario Culot
Tenterò (probabilmente in maniera maldestra e inadeguata) di chiarire che, abbandonare il teismo, cioè l’immagine di un Dio ben circoscritto e spiegato attraverso i dogmi, non significa abbracciare l’ateismo, ma vuol dire cercare una più ampia creatività spirituale, rifiutando ogni certezza dogmatica e rifuggendo «la coercizione di un’immagine imposta e fissa»[1].
Ricordo anche che lo stesso san Paolo aveva affermato che la Parola di Dio non si lascia incatenare (2Tm 2, 9). Non ricordo invece quale teologo aveva detto assai argutamente: “Certamente i dogmi, anche quelli conciliari, volevano preservare un’esperienza iniziale; però, se oggi non riescono a farlo, devono essere dichiarati prescritti d’ufficio: è arrivata la loro data di scadenza. Però rifiutare i dogmi non significa rifiutare il Vangelo”. Ogni dogma, infatti, è necessariamente condizionato dal momento storico in cui viene pronunciato e dall’ambiente culturale in cui viene pronunciato,[2] perché proviene sempre da uomini come noi che hanno anche a lungo discusso e si sono scontrati sul punto, per cui oggi è difficile che un dogma pronunciato millecinquecento e più anni fa sia ancora idoneo a trasmettere l’esperienza che allora intendeva comunicare, quando si era convinti che la Terra fosse al centro dell’universo e che il sole girasse attorno alla Terra.
Insomma il post-tesimo è un modo diverso di pensare all’immagine di Dio, o meglio di cercar di avvicinarsi al Mistero. Probabilmente come diceva David Maria Turoldo: “Dio non è una risposta, è la Domanda”. Finalmente abbiamo un papa il quale ha riconosciuto che le differenti linee di pensiero all’interno della Chiesa possono farla crescere. Ciò che papa Francesco ha ripetutamente detto sul poliedro si applica anche al pensiero della Chiesa. Coloro che invece sognano un cubo monolitico, una dottrina difesa da tutti senza alcuna diversa sfumatura, non sono ben centrati (“Evangelii Gaudium” n. 40).
Piuttosto del Dio teista che apprezza lo spargimento di sangue, di cui ci hanno a lungo parlato, accetto più volentieri l’idea di un Dio post-teista che dona più essere alle proprie creature, che Lui già ama[3]. Quello che è certo è che le due immagini, se assolutizzate, sono incompatibili fra di loro. Ma non mi preoccupo se non riesco a farmi un’immagine precisa di Dio. Se proprio dovessi farmene una, più che all’Essere perfettissimo, Signore e Creatore del cielo e della terra, più di ogni definizione filosofica e metafisica che si può trovare nei libri, mi piace quest’immagine che ho trovato nel racconto di una passeggiata unica e indimenticabile fatta dallo scrittore montanaro Mauro Corona, il quale un giorno d’inverno stava tornando da una lunga camminata lungo le sponde solitarie del torrente Vajont dove per chilometri il peso della neve aveva incurvato le piante lungo entrambe le rive creando una lunghissima galleria di alberi con arabeschi di indescrivibile bellezza: “Uno spesso strato di ghiaccio teneva a basso volume la voce del torrente. Pareva di camminare in un altro mondo, sospesi per aria, in Paradiso. Quasi all’uscita della valle c’è un larice alto e scontroso. è cresciuto storto, non ama compagnia, vuole stare da solo. Sulla punta del larice si era posato un ciuffolotto. Il sole, ormai al tramonto, entrava da occidente nel varco di roccia illuminando come una lama infuocata larice e uccellino. L’albero era diventato un arcobaleno, il ciuffolotto una palla incandescente. Sospeso a venti metri d’altezza, pareva lui stesso un pezzettino di sole. Per effetto della luce radente attorno al suo corpicino s’allungava un alone rosso-viola d’incredibile fulgore. In cinquant’anni non avevo mai visto una cosa simile. Nella valle la natura era ammutolita. Non un rumore, un fruscio, una voce. Solo quella pallina lassù, come una stella sulla punta del larice, emetteva qualche pit pit. Provai una pace e una serenità senza tempo. Fui costretto a sedermi. Ero frastornato da quella visione. Non durò molto, qualche minuto in tutto. Poi il sole si allontanò e il ciuffolotto volò con lui. L’ambiente di colpo si fece gelido, le ombre della sera vennero a dirmi che tutto era finito. Il giorno dopo raccontai questo strano fenomeno all’amico Ottavio. Ascoltò in silenzio. Conclusi dicendo che, forse, il ciuffolotto sul larice era Dio. Meravigliato del mio forse, il vecchio bracconiere rispose: «Era lui, chi vuoi che sia stato, era lui»[4].
Ovvio che il ciuffolotto non era Dio, ma forse un’esperienza del genere può evocare la sensazione del Mistero assai meglio di qualsiasi definizione metafisica, che è sempre molto fredda, per cui normalmente non ci coinvolge.
Avete mai fatto un’esperienza del divino in cui – forse – siamo immersi? Avete mai fatto un’esperienza che vi fa pensare, almeno per un momento, che Dio esiste? A me è successo un’unica volta in tutta la mia vita, e potrei riassumere quest’esperienza dicendo solo questo: se vuoi provare un momento di felicità, fai felice qualcuno.
Una sera, in Messico, eravamo a mangiare un panino in una specie di Burghy. Eravamo un gruppetto seduti a un tavolo, quando si è avvicinata un’indigena dalla faccia stanca, molto stanca, carica di ninnoli e oggettini che cercava inutilmente di vendere ai vari clienti, quasi tutti occidentali. Anche noi le abbiamo detto, come tutti gli altri: “No, grazie”. Se ne è andata rassegnata. Subito, mentre ancora se ne stava andando, è come se avessi avuto un suggerimento illuminante dall’esterno. Mi sono alzato, in due passi l’ho raggiunta e le ho chiesto “¿Tiene hambre?” (Ha fame?). Mi ha fatto cenno di sì con la testa. Le ho detto allora di ordinare al banco quello che voleva, e fatto cenno al ragazzo dietro al banco che avrei pagato io. La donna ha preso solo un panino, e nulla da bere: il minimo indispensabile. Di sicuro non ha approfittato. Mentre aspettava che le portassero il panino al nostro tavolo ha scaricato tutto il pesante carico della sua mercanzia su una sedia delle nostre, è andata al bagno a lavarsi le mani e quando è uscita non aveva più le spalle curve e anche la faccia era più distesa. Ha preso il panino, ha ringraziato e non ha neanche voluto sedersi al nostro tavolo ma è uscita dal locale e se ne è andata, col panino in mano. Ho speso qualche euro in più, quindi niente. Eppure, quando siamo usciti dal locale, ero pervaso come da una sensazione mai provata in vita mia, difficile a descrivere con le parole: un caldo fuoco interiore che mi faceva sentir gioioso per aver fatto una cosa giusta con una persona mai vista prima, che non avrei mai più rivisto, contento come se avessi risolto il problema della fame nel mondo. Quel piccolissimo gesto gratuito che avevo compiuto era stato solo mio oppure ‘qualcun altro’ me l’aveva suggerito? In realtà non avevo fatto niente, eppure quel niente mi sembrava un gesto di solidarietà denso di significato. Ovviamente quel gesto non ha bisogno di essere attribuito necessariamente a Dio, ma la gioia che mi ha fatto provare è come se stessi sognando di essere stato ispirato da una vocina dentro di me, che poi ancora mi diceva: “hai fatto quello che è giusto”. Forse è solo questo che Dio ci chiede, come ci ha spiegato Gesù con la parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Accorgersi che c’è l’altro, che l’altro ha un problema, e cercar di dargli una mano.
Ma occorre essere credenti per fare quello che ho fatto? No di certo; anche un ateo poteva assolutamente fare lo stesso. Quindi sia nell’ateo, nell’agnostico e nel credente è possibile trovare valori, provare sentimenti e dubbi del tutto uguali.
Esattamente come a una quercia non interessa molto se la chiamiamo quercia, oak, oppure encina, io non credo che a Dio interessino molto le nostre costruzioni teologiche. Possiamo forse anche pensare che Dio si compiace di tutti i nostri sforzi per stabilire qual è l’essenza reale della sua divinità. Può darsi che perfino apprezzi che si dicano e che si sappiano belle cose sulla sua natura, ma di sicuro non si sente obbligato a retribuire chi le segnala o le propone, come invece ricompensa chi offre un bicchiere d’acqua a un assetato (almeno stando a Mt 25, 37). Ennesima riprova dell’importanza data al fare, all’esperienza, non all’essere, al filosofare; al comportamento, non alla meditazione teologica. Condivido perciò l’idea che dovremmo lasciar perdere i grandi ragionamenti filosofici sul fatto che Dio esiste o non esiste. Più utile, forse, è partire dalle proprie esperienze di umanizzazione, e si può essere credenti anche senza avere di Dio una immagine ben definita.
Su Dio, di cui non sappiamo nulla, possiamo fare solo ipotesi. Dio è un’incomprensibilità nascosta, e anche quando diciamo di Lui un sacco di cose che non capiamo per cercare di spiegarlo, quando cioè Dio entra nel nostro discorso come ‘termine’, possiamo essere già certi di aver già sbagliato, di esserci inventati una definizione sbagliata e che capiamo ancora di meno di prima.
Io posso credere all’interpretazione di Dio data da Gesù, che è soprattutto un’interpretazione in negativo: Gesù ci ha detto semplicemente che quello offertoci dalla religione ufficiale non è il vero volto di Dio, perché Dio non è violento, non ammazza i nostri nemici, è invece come un Padre per il quale tutti i figli sono uguali. Agire allora con violenza è contro la natura divina, ma anche umana.
Gesù, pur non dando mai una definizione di Dio, ci ha detto come si comporta: e allora forse ci basta sapere che Dio si comporta come il padre del figliol prodigo,[5] come il buon samaritano che trova sul sentiero un ferito e si preoccupa di curarlo, e a quel punto tutte le definizioni passano in secondo piano, perdono d’importanza. Allora, come scriveva Dietrich Bonhoeffer in una lettera alla sua fidanzata, “Essere cristiani non significa essere religiosi, ma significa essere umani”. Forse, la Chiesa,[6] la religione cristiana, devono solo umanizzarsi di più, devono essere più vicine a tutti gli esseri umani, devono essere in sintonia con tutto ciò che è veramente umano. Perché, in definitiva, né più né meno è quello che – secondo noi cristiani - Dio ha fatto in Gesù: si è umanizzato; cioè si è spogliato del suo rango, è diventato come uno dei tanti ed è vissuto nella condizione degli ultimi di questo mondo, di allora e di adesso. Cosa è rimasto a quel Dio? È rimasto quello che vediamo in Gesù, la sua profonda umanità. Questa bontà profondamente umana di cui abbiamo tanto bisogno e che fa tanto bene a tutti. Ecco il centro stesso del Vangelo[7].
Una volta escluso che possiamo dire con certezza, con dei dogmi, qualcosa di Dio, nel caso della fede cristiana il rapporto è incentrato su Gesù, perché Gesù è l’unica manifestazione concreta e visibile di un Dio invisibile. Fede diventa allora dare adesione individuale a Gesù, seguire con fiducia Gesù imitandone il comportamento. Dunque, uno ha fede non se dice di credere in Dio, e neanche se dice di credere a quello che insegna la Chiesa, ma solo se vive e crede come Gesù.
Il Dio che Gesù ha fatto conoscere non è poi lontano, da cercare e trovare in un luogo sacro, obbedendo a una categoria di persone sacre, ma è un Dio innamorato degli uomini che, prendendo l’iniziativa, si avvicina e chiede di essere accolto nella nostra esistenza per fondersi con noi e dilatare la nostra capacità d’amore. Evidente che se Dio mi è intimo non c’è bisogno di andare a cercarlo in un luogo particolare; se Dio mi è intimo non c’è bisogno andare da un addetto al culto, per dirgli che dica a Dio le cose che Dio sa già; se Dio mi è intimo non ci guida attraverso l’osservanza di una sua legge, ma attraverso la comunicazione crescente del suo amore e della sua capacità d’amore. Non per niente i primi cristiani venivano denunciati come atei, perché non avevano templi, non avevano statue delle loro divinità, non avevano sacerdoti né liturgie: sembravano proprio degli atei.
Ma per essere cristiano non occorre allora neanche credere a tutte le definizioni dogmatiche che la Chiesa ci ha chiesto di credere su Dio? No. Quando Gesù s’incontra con un paralitico stranamente lo congeda dicendogli: «ti dico alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua» (Mc 2, 11). Vediamo che Gesù sta spostando il concetto di ‘sacro’ dalla religione e dal Tempio all’essere umano e al mondo che sta fuori del Tempio; si passa dalla Legge divina alla persona (perché “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” - Mc 2,27); dall’esterno all’interno della persona. Ma soprattutto, per ottenere la guarigione il paralitico deve collaborare, e soprattutto disobbedire al magistero: infatti prendere il lettuccio di sabato era proibito dalla legge. Ma non appena disobbedisce l’invalido riesce ad andar via sulle sue gambe. Ma se a questo punto il paralitico era ormai guarito, in grado di camminare da solo, perché non può andare dove gli pare e piace? Perché Gesù gli dice di andare a casa sua? Perché, visto che Gesù si trova nella casa di Israele (l’unica nella quale ci sarà salvezza, secondo la religione), il paralitico guarito non deve integrarsi nel popolo di Israele, ma deve ritornare a casa sua[8]. Per essere seguaci di Gesù non ci si deve integrare nella Chiesa.
Mi si potrebbe obiettare che dopo aver cercato di smontare la dottrina ortodossa, non sono in grado di presentare un’alternativa valida e di offrire una nuova immagine convincente di Dio. È vero.
Ma forse il cristianesimo dovrebbe essere un modo diverso di vivere, non una questione di dottrine o dogmi, perché dai vangeli risulta che il Dio di Gesù ci interpella ogni giorno sul nostro modo concreto di vivere, non su quello in cui diciamo di credere. Come diceva infatti Erasmo da Rotterdam (1469-1536): “Voi non sarete condannati se non saprete se lo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio ha una o due origini, ma non sfuggirete alla dannazione se non coltiverete i frutti dello Spirito che sono amore, gioia, pace...”[9].
In altre parole, se noi cristiani non fossimo così preoccupati per le definizioni teoriche e dottrinali, ma lo fossimo per il vivere (come è vissuto Gesù? cosa ha fatto Gesù?), se accogliessimo il suo invito alla conversione (metanoia), se il centro della nostra vita diventasse non “chi è Dio e chi sono io?”, ma “come si comporta Dio e per chi sono io?” forse vivremmo veramente la nuova vita che il Vangelo ci invita a vivere.
NOTE
[1] Arregi J. e al., Per un cristianesimo post-teista, in “Adista documenti”, n. 35/2021, 5.
[2] Pensiamo solo al fatto che, quando nei concili di Nicea e Calcedonia si discuteva della natura ed essenza di Dio e di Gesù, i padri conciliari avevano a disposizioni solo i termini physis, ousia, prosopon o hypostasis (senza neanche concordare tutti sul significato di questi termini, tratti dalla filosofia). Oggi, queste categorie mentali non dicono niente, al di fuori dello stretto ambiente filosofico. Oggi utilizziamo strumenti intellettuali differenti, e la frase di Gesù “E voi chi dite che io sia?” ci interpella personalmente, senza dover essere legati alla risposta del dogma.
[3] Kerney R., Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, Campo dei Fiori-Fazi, Roma, 2012, 105.
[4] Corona M., Nel legno e nella pietra - Apparizione, ed. Mondadori, Milano, 2003, 95s.
[5] Il perdono da parte di Dio è gratuito, come dimostra la parabola, ma la Chiesa ha sempre fatto resistenza, sostenendo che doveva essere meritato, ad es. offrendo la propria sofferenza a Dio: insomma occorre offrire qualcosa a Dio per ottenere in cambio il perdono (Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 213).
[6] Il magistero non ha il compito di dire che cosa è Dio o come bisogna vivere per conoscere Dio, ma ha la funzione di raccogliere ciò che la comunità sperimenta per poterlo poi proporre secondo i modelli culturali del tempo, testimoniandolo. Quindi quella del magistero è una funzione all’interno della comunità, non all’esterno (Molari C., Amare fino a morirne, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), 2024, 213).
[7] Castillo J.M., La Buona Notizia di Gesù, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2024, 9.
[8]Idem, 99. Si può anche notare che quest’idea c’era già nella Bibbia (Ez 47, 21): Dio divide il territorio secondo le tribù d’Israele, ma aggiunge che il territorio va condiviso fra queste tribù e i forestieri che abitano in mezzo alle tribù. C’è dunque una riconciliazione con i forestieri insediati, che però non vengono amalgamati. Chissà se i nostri politici che si dichiarano credenti e sventolano la Bibbia, ma poi si oppongono ad ogni ingresso di stranieri, hanno mai letto questo passo della Bibbia.
[9] Baiton R., Vita e morte di Michele Serveto, Fazi editore, Roma, 2012, 26.
Pubblicato il volume di Dario Culot che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/