Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Il gioco e il disastro


di Stefano Sodaro


Maschere sotto la pioggia al Festival di Masskara, Filippine - «La caratteristica principale del Festival di Masskara è la festa del ballo di strada in cui gruppi di danza che indossano maschere allegre e costumi colorati ballano e volteggiano lungo le strade della città al ritmo di musica latina.» - foto e descrizione tratta da commons.wikimedia.org 

Avevo un’amica – non più tale, purtroppo – che odiava chi non approvasse la sua storia clandestina con un uomo, il quale ci teneva enormemente a fare, davanti al mondo, la figura, invece, del realizzato e felice marito padre di famiglia e mai avrebbe voluto che venisse alla luce quella storia.

Avevo un’amica – che vorrei continuasse ad essere tale, ma non lo so – che esteriormente era tutta dolcezza, empatia, disponibilità, bravura, profondità, ma privatamente nient’affatto, anzi, si rivelava una specie di bluff, senza scendere in altri dettagli.

Avevo un amico che era accreditatissimo intellettuale, ritenuto uno dei più obiettivi osservatori della realtà geopolitica attuale, ma in questi giorni, in queste ore, persino in questi secondi, sembra essere stato sfigurato dall’odio che nutre verso chi non appartiene al suo popolo, alla sua gente. Non ci sono più persone per lui, ma buoni e cattivi e lui è buono e sta con i buoni e basta.

Avevo un amico prete, teologo, che sembrava la mente più aperta dell’universo ecclesiale, finché non si innamorò e, nello sforzo di negare tale sentimento per non compromettere la sua – chiamiamola – “carriera”, si è spostato progressivamente verso le lande desolate del tradizionalismo più accanito e aggressivo.

Sono questi disastri amicali completamente alieni rispetto a ciò che sta accadendo in Israele adesso?

Proseguendo nella linea – abbozzata nell’editoriale della scorsa settimana - della considerazione del gioco come dimensione non necessariamente e non soltanto ludico-evasiva, bensì interpretativa, realizzativa anzi, dello stesso nostro stare al mondo, viene da chiedersi perché si decida, ad un certo punto, di “non giocare più” e di produrre così, con simile spegnimento di soggettività, un disastro molto più ampio del proprio sé.

Il Vangelo secondo Matteo – quello di Pasolini, sì – riporta al capitolo 22 la celeberrima descrizione narrativa: Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Cioè, se ci è permesso parafrasare (forse è un permesso eccessivo): “Non rinunciate a giocare il vostro ruolo”. “Restate dentro il gioco che vi compete, non uscitene”.

Il Medio Oriente è la culla, il grembo, il ventre degli innamoramenti più appassionati, coinvolgenti, strazianti e disperati – a partire, ad esempio, dal Cantico dei Cantici –, che dilatano la dimensione privatistica rendendola popolare e condivisa sino a livelli per noi inconcepibili, laddove riteniamo che eros richieda esclusività assoluta e non siano tollerabili alternative di alcun tipo.

Il gioco richiede la diversità del ruolo interpretato, giocato. L’innamoramento, riempito di indissociabile erotismo – incontenibile, travolgente – tende, tutt’al contrario, all’indistinzione, al divenire “uno” o “una”, a fondere i corpi fino a renderli inestricabili, indistinguibili. E tuttavia – come rilevava Lacan – il piacere al suo culmine resta comunque esperienza solitaria, tanto da creare un disagio piuttosto grave quando non si verifichi contemporaneità dell’esperienza orgasmica.

All’interno del volume intitolato L’umanità in gioco, UTET 2017, Marco Aime – uno degli otto autori del libro -, nel suo contributo “Giocare con la parentela, giocare con l’età. Relazioni scherzose in Africa”, afferma, a pag. 19: «(…) come scrive Ernesto Sabato: Anche i grandi carnevali d’altri tempi erano come una catarsi collettiva, qualcosa di essenzialmente sano, qualcosa che permetteva all’uomo, ancora una volta, di sopportare la vita, di farsi carico dell’esistenza, e sono addirittura arrivato a pensare che se Dio esiste, sicuramente è mascherato».»

I nostri carnevali sono, all'opposto, pagamento di tributo al nuovo Cesare costituito dalla cultura neoliberale iper-consumistica ed iper-individualista. E non ci vuole molto, dunque, a trasformarli in “giochi al massacro”, che nulla hanno di giocoso, neppure quel sadismo giocoso che – incomprensibile al sottoscritto, voglio dichiararlo chiaramente – è proprio del mondo bdsm. Sono piuttosto perversioni del senso, del significato, del gioco.

Potremmo dire che agli antipodi della cultura bellica sta la cultura queer. O forse, ancora più precisamente – ma non abbiamo il tempo di spiegare meglio ora – la cultura nepantla, alla quale appartiene, ad esclusivo giudizio però del qui scrivente, e dunque si tratta di giudizio del tutto opinabile e contrastabile, l’opera d’arte pittorica di Greta Broglio, alias Haregrungy, intitolata Gesù Cristo era una donna, riprodotta di seguito.

Il disastro dell’assenza, devastante, del gioco postula, esige, l’elaborazione di una nuova liturgia – sabbatica, domenicale o del venerdì –, di una nuova attitudine alla celebrazione, che scelga di partire da chi è vittima, dimenticato/a, silenziato/a, oppresso/a. La liturgia dei poveri è l’antidoto, giocoso, al disastro in corso. Ma forse ormai è troppo tardi.

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