Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

"Particolare di una scena nella coppa della lettera "P" con una donna con squadra e divisori; utilizzando una bussola per misurare le distanze su un diagramma. Nella mano sinistra tiene un quadrato, uno strumento per testare o disegnare angoli retti. È osservata da un gruppo di studenti. Nel Medioevo è raro vedere donne rappresentate come insegnanti, in particolare quando gli studenti sembrano essere monaci. È molto probabilmente la personificazione della Geometria, basata sul famoso libro De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Martianus Capella , [V sec.] Una fonte standard per le immagini allegoriche delle sette arti liberali. Illustrazione all'inizio degli Elementa di Euclide, nella traduzione attribuita ad Adelardo di Bath. "


Descrizione riprodotta testualmente da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Woman_teaching_geometry.jpg



Canto per una monaca



di Stefano Sodaro



Qualcuna, e qualcuno, forse ricorderà il film La storia di una monaca, del 1959, con Audrey Hepburn, per la regia di Fred Zinnemann, laureato in giurisprudenza ed appartenente al popolo ebraico.

Le traversie vocazionali di Suor Lucia, alias  Gabrielle Van Der Mel – nella finzione cinematografica -, alias Audrey Hepuburn nell’interpretazione filmica, si concludono con l’uscita risoluta, e di forte impatto emotivo per lo spettatore (più che per la spettatrice, si può supporre) della protagonista dalla porta del convento, in abiti civili e borsetta.

È un simbolo, potente al tempo più di oggi, di affrancamento, di libertà, ma è in qualche modo anche richiamo, evocazione, di un fallimento delle strutture istituzionali chiesastiche, religiose, confessionali, simili alle “istituzioni totali” di cui parlò Franco Basaglia, che possono essere solo distrutte e non riformate.

È così?

Per il manicomio e le sue logiche paurose di internamento forzato certamente sì, per un monastero che volesse – volesse, non dovesse – aprirsi come spazio ospitale di una normale casa di famiglia, magari numerosamente frequentata in nome di una motivazione peculiare, anche no.

Eppure, se la realtà ecclesiale delle religiose è oggi abbastanza in evidenza – sia per le loro legittime istanze di riconoscimento, sia, purtroppo, per fenomeni di abuso che hanno segnato talora anche le loro esistenze -, non altrettanto avviene per coloro che, tra le religiose, hanno scelto, di propria volontà, la vita monastica. E tra queste, occorre poi ulteriormente distinguere tra chi vive in ordini di antica, ed antichissima, istituzione e chi invece in forme nuove, neppure ancora strutturate compiutamente dal punto di vista giuridico.

Essere suora non è lo stesso che essere monaca.

E una monaca non è l’equivalente femminile di un monaco. Ad esempio, perché non può essere prete. Ma c’è ben di più.

Una monaca è segno – in senso sacramentale, proprio, teologico – di quell’irriducibile alterità, che nella Chiesa, cattolica, non riesce ancora ad essere interlocutrice ascoltata per riforme essenziali, profonde, radicali.

Che cosa fa una monaca, come un monaco, di utile? Assolutamente niente. 

Una monaca, come un monaco, non serve assolutamente a niente. Così come non serve a niente la poesia. 

E qui sta la forza della sua testimonianza, una forza strepitosa: ardere come un cero per puro amore, per puro gusto di essere, di vivere. E basta.

Nella vicenda della Comunità di Bose, ancora in corso, nessuno, ma proprio nessuno, si è mai posto la domanda su come stiano – adesso, in questo momento – le Sorelle di quel Monastero. Quali siano le loro attese, le loro domande, i loro dubbi, i loro desideri, i loro sogni, i loro progetti, le loro volontà di vivere il monachesimo con tutta la libertà e con tutto l’amore cui hanno diritto. 

Sì, proprio così: l’amore cui hanno diritto. C’è un diritto all’amore che necessariamente impregna le fondazioni di vita monastica, le quali altrimenti – se tale diritto viene anche solo offuscato, annebbiato - possono cessare oggi stesso.

Ci può essere, senza dubbio, chi, nel nostro contesto laico ed ultra-post-moderno, crede alla “vocazione” e chi invece no.

Il monachesimo non è prima di tutto ministeriale – come accade invece per presbiterato e diaconato ed episcopato, dove sarebbe la Comunità a dover giudicare dell’utilità per essa della “vocazione” –, quanto una dedizione, appassionata, ad un ideale di totalità. che ideale poi non è perché è persona. Un “Tu” che non coincide affatto, però – ed è correzione decisiva, fondamentale appunto -, con la stucchevole retorica, nauseabonda, dello “Sposo Gesù”, ma con la nuzialità di Dio che riguarda l’intero Popolo che è infatti “di Dio”. E non solo il Popolo cristiano, dal momento che l’alleanza con Israele mai è stata revocata dal suo Dio.

Però non è il caso di sfuggire ancora con eleganza alla domanda posta sopra: chi ha nella mente e nel cuore, in questo momento, le Sorelle di Bose? Perché lo sguardo, di cronisti, osservatori, commentatori, esperti, teologi, politologi, filosofi, psicologi è volto sempre altrove?

Chiariamoci subito: qui non c’entra niente la questione del provvedimento canonico, allo stato non ancora eseguito, relativo alle sorti canoniche di Enzo Bianchi. Per un momento vorremmo non parlare di un nome di cui tutti parlano. Vorremmo parlare di coloro di cui nessuno parla. Vorremmo parlare di “Altro”. 

Ad esempio, di quelle giovani donne che hanno scelto di impegnarsi per la vita con Qualcuno che sosta sulla Serra d’Ivrea, così come sosta negli occhi di un’innamorata, nello studio di una teologa, nelle pratiche di una dirigente d’azienda, nelle lezioni di una docente, nei fogli di una scrittrice, nella recitazione di un’attrice, nelle istruzioni di una regista, nelle mani e nelle ginocchia di un’alpinista, nel camice bianco di una analista e medico, nelle apprensioni di una mamma, nello struggimento di chi non ha scelto la propria solitudine.

Le giovani monache sono come le nostre giovani ragazze, smettiamola con la retorica degli stati di vita. 

E chi è giovane patisce questo tempo di pandemia con una sofferenza enorme e pur essa silenziata e taciuta.

Chi sta in questo momento pensando che sarebbe necessario, non solo per la Chiesa ma anche per l’intera nostra “cultura”, intesa come sapore della vita, valorizzare l’esperienza delle monache di Bose nella novità fondativa del loro esserci?

Respingiamo pure, come una tentazione da deserto quaresimale, ogni indebita ammirazione per scelte singolari, personali, financo considerate individuali ed eccezionali.

Tutto al contrario: non ammirazione, bensì impasto della vita monastica con la vita comune e viceversa. Empatia, dunque, condivisione persino.

Qualcuno lo ha detto: solo il monaco sa essere sposato, solo chi è sposato sa essere monaco. Ecco: è il momento di formulare anche la versione femminile. Solo una monaca sa essere sposata, solo chi è sposata sa essere monaca.

Ci si potrebbe interrogare, forse, chissà, sul monachesimo, ad esempio, di un Raimon Panikkar od anche di un David Maria Turoldo, ma avremmo ancora a che fare con preti, sia come sia. Riconosciamolo con serenità e sincerità.

Ci si dovrebbe invece interrogare, piuttosto, sul monachesimo di una Adriana Zarri, o di una Sorella Maria dell’Eremo di Campello.

Ma, poi, sarebbe necessario interrogare il monachesimo di chi non è monaca. E non è provocazione ad effetto, boutade.

Una appassionatissima dedizione monastica può stare tutta intera nella vita di chi ha famiglia, marito, figli o di chi, come nel film citato, da un convento se n’è andata per obbligo di coscienza e, pertanto, per obbligo di rispondenza alla chiamata di Dio, la cui voce coincide con quella della coscienza.

Per quanto riguarda la linea editoriale del nostro giornale, facciamo una scelta di campo, non si può rimanere neutrali. E scegliamo di guardare alla presenza, là a Bose, delle Sorelle. Di guardare a loro come a Sorelle nostre, prima ancora che come sorelle di altrettanti fratelli dentro le mura di un monastero.

Se provassimo a capovolgere la prospettiva e a non raccontare dunque sempre narrazioni esclusive di maschi, di uomini, per quanto santi e benemeriti, ne avrebbe una gran beneficio non solo la Chiesa e la società, ma anche, più concretamente e semplicemente, la nostra psiche.

E star bene psichicamente è un enorme valore da perseguire tutte e tutti assieme, qualunque sia la nostra condizione.

Del precetto evangelico di amare il prossimo si dimentica, pressoché sempre, il termine di paragone, di confronto, che è l’amore di sé. Amare il prossimo come se stesse, se stessi.

Oggi, prima domenica di Quaresima, sarebbe significativo deconfessionalizzare inviti a penitenze e mortificazioni per lasciar invece parlare la vita. Per convertirsi – tutte, tutti - alla verità delle nostre vite vissute, siano credenti, laiche, agnostiche, atee o indifferenti.

Le nostre vite vissute, le vite delle Sorelle monache a Bose.

Far fiorire il deserto.

Buona domenica.