Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Sacrificio, una visuale diversa 

(continua)

di Dario Culot


Pubblicato il volume di Dario Culot (qui sotto la copertina) che ripropone in una nuova veste editoriale, ed in un unico libro, molti dei suoi contributi apparsi sul nostro settimanale: https://www.ilpozzodigiacobbe.it/equilibri-precari/gesu-questo-sconosciuto/

3. Vorrei ora soffermarmi ulteriormente sul tema del sacrificio (sacrum facere, cioè consacrare a Dio), altra colonna portante del cristianesimo. Il termine «sacrificio» va inteso sia come grave privazione, con aspetti che vanno dal disagio alla sofferenza, sia come offerta fatta alla divinità. Il sacrificio è un dovere per il credente (n. 2099 Catechismo), il che sembra farci intendere che si entra nel mondo di Dio solo attraverso la sofferenza. Questo termine è ovviamente collegato al fatto che Gesù è morto in croce sacrificandosi e soffrendo per noi peccatori. E allora anche noi cristiani dobbiamo soffrire per imitazione: “La sofferenza deve essere dolce e saporosa per amore di Cristo…la sola strada che porta alla vita è quella della santa croce e della mortificazione quotidiana…Gesù è morto in croce per te… se davvero vuoi amare il Signore e servirlo, ti resta soltanto il patire…”[1]

Il problema è che con questa interpretazione della crocifissione sono subito diventati secondari tutti gli insegnamenti terreni di Gesù, tanto che, di questi, non c’è traccia nel Credo.

Credo fermamente che tutti siamo oggi convinti che l’uccisione di un innocente sia un male, un atto che dovrebbe offendere Dio, eppure il sacrificio di Gesù ci viene presentato come un bene perché voluto da Dio. Già Kierkegaard[2] aveva acutamente osservato che, se Dio domanda ad Abramo di uccidere Isacco, significa che la validità dell’obbligo morale “non uccidere” può essere sospesa dall’Essere Supremo, secondo le sue insindacabili intenzioni ignote all’uomo: per la durata di tale azione è cioè sospesa l'immoralità dell'azione umana; anzi, ciò che è di per sé malvagio diventa improvvisamente buono perché è gradito a Dio.

Poiché ogni teocrazia difende innanzitutto i diritti di Dio, che devono prevalere su quelli degli uomini, è grazie a questa convinzione che – come ha osservato più volte Alberto Maggi - in nome di Dio non si esita ad ammazzare anche gli uomini. Anzi, mai si ammazza con tanto gusto come quando si uccide in nome del proprio Dio unico[3]. Però in tal modo il dovere nel campo dell'etica perde l'assolutezza quando viene messo a confronto col dovere assoluto che l’uomo ha verso Dio. Ma allora si deve ritenere che il dovere è semplicemente l'espressione della volontà imprevedibile e capricciosa di Dio, ed è sempre Lui a stabilire l’ordine del bene e del male, per di più da persona a persona, perché la sospensione vale solo per Abramo, ma non per gli altri padri contemporanei di Abramo, che se sacrificassero il proprio figlio offenderebbero Dio. Insomma, qui c’è qualcosa che non torna.

Inoltre non può neanche essere vero che Gesù è morto per tutti i nostri peccati indistintamente. Stando ai vangeli si dice che Gesù ha perdonato i pubblicani, la prostituta, gli apostoli codardi senza attendere la sua morte espiatoria, come se il perdono dovesse essere condizionato da essa. Anche qui c’è qualcosa che non quadra, perché se Dio aspettava la morte del figlio per perdonarci, Gesù avrebbe detto cose non vere quando diceva: “ti sono perdonati i tuoi peccati, va’ in pace” (es. Lc 7, 48-50: alla prostituta in casa del fariseo; Mc 2, 8-11: al paralitico portato dai quattro).

Comunque per la Chiesa il sacrificio è tuttora un obbligo che implica normalmente sofferenza. Le persone più pie sono riuscite a trasformare la sofferenza perfino in virtù, dimenticando che nella Bibbia Dio l’aveva inventata come punizione per i peccati dell’uomo (Gn 3, 17-19). Ma stando invece ai vangeli, Gesù voleva portare nella nostra vita solo gioia piena (Gv 15, 11) e non sofferenza; voleva eliminare ogni paura di Dio, e ci ha insegnato che si entra nel mondo di Dio, cioè nella condizione divina, assomigliando al Padre, cioè praticando l’amore gratuitamente come fa lui, non soffrendo. Infatti, mentre il “padre” del giudaismo e di tutte le culture antiche era l’emblema dell’autorità, come il pater familias latino, il Padre di Gesù è quello che accoglie il figlio prodigo (Lc 15, 20) e pone fine alle sue sofferenze: un’idea di padre scandalosamente diversa e pericolosa perché tendente a sovvertire l’intera struttura sociale fondata sul principio di autorità e di patriarcato. Sta di fatto che dopo duemila anni d’insegnamento della dottrina cattolica la nostra religione si tiene ancora strettamente avvinghiata al sacrificio, assai poco all’amore gioioso:[4] ciò vuol dire che l’insegnamento del magistero è riuscito a cancellare il messaggio di Gesù mentre, seguendo Paolo, ha messo al centro della religione la sofferenza e il sacrificio.

Superfluo dire che, su questa linea, è stata la Chiesa a trasformare la tavola dell’ultima cena di Gesù in altare. Ma l’altare, elemento apparentemente essenziale nella nostra religione, è del tutto assente nei vangeli[5]. E mentre la tavola significa segno profano di fraternità, condivisione e anche di allegria, l’altare significa luogo sacro del sacrificio: non per niente l’art.1383 del Catechismo, prima di equipararlo alla mensa, lo ricorda per l’appunto come luogo di sacrificio. L’altare presuppone sempre un’idea di Dio cui bisogna sacrificare. Se la messa è abbinata all’altare, ecco che viene abbinata anche al sacrificio. Se c’è il sacrificio, c’è bisogno del mediatore, del sacerdote,[6] come avveniva nel Tempio di Gerusalemme.

È stata la Chiesa, non Gesù, a insegnarci che per essere graditi a Dio bisogna fare tanti sacrifici, fioretti, digiuni, penitenze. L’idea secondo cui i sacrifici sono graditi a Dio viene sempre da Paolo (Fil 4, 18), ed è arrivata fino a noi attraverso i secoli[7]. Eppure nella sua vita terrena Gesù ha ripetuto più volte che vuole misericordia, non sacrifici (Mt 9, 13; Mt 12, 7): evidentemente al Dio di Gesù non interessa ricevere grandi sacrifici che salgono verticalmente dal basso verso l’alto dei cieli, mentre vorrebbe vedere misericordia dagli uomini verso gli altri uomini, muovendoci quindi in senso orizzontale (Mt 9, 13; 12, 7). Perciò – se crediamo a quanto ha detto Gesù - non dobbiamo offrire né i nostri sacrifici, né la nostra sofferenza al Signore. In effetti c’è da chiedersi che se ne fa Dio delle nostre sofferenze?[8]

Se si resta dell’idea che Cristo ha dovuto sacrificarsi per noi, vuol dire che Dio ha previsto fin dall’inizio una spietata violenza, ma allora solo il Figlio terreno – non il Padre - sarebbe a questo punto misericordioso. Peggio, la fonte della violenza non sarebbe più neanche il diavolo, ma proprio Dio, iroso e implacabile castigatore perfino di un Figlio innocente, per cui si fa fatica ad accettare l’idea che questo Dio sia anche infinitamente giusto. La misericordia divina? L’amore di Dio? Emergerebbero solo la violenza e la volontà di creare sofferenza necessarie per placare col sangue altrui il proprio smisurato orgoglio personale.

E anche se papa Benedetto XVI ha continuato a dirci che Gesù si è offerto in sacrificio per noi,[9] da nessuno dei 4 vangeli risulta che Gesù abbia mai detto di essersi sacrificato per noi;[10] men che meno per l’umanità intera.  Invece, durante il rito della celebrazione eucaristica, si sentono pronunciate dal prete queste parole: “Prese il pane, benedì, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse loro: «Prendete e mangiate: questo è il mio corpo in sacrificio per voi»”.  Ora, anche se non potremmo mai sapere esattamente quali gesti e quali parole sono stati compiuti da Gesù,[11] è un dato indiscutibile che in nessuna delle quattro versioni dell’eucaristia[12] c’è il termine sacrificio, che invece ricorre immancabilmente durante ogni nostra messa[13] (n. 1545 Catechismo), e che costituisce il piatto forte della dottrina poi insegnataci[14]. Va però anche aggiunto che questa formula viene usata solo nella Chiesa italiana:[15] non sentirete la parola sacrificio se andate a messa negli Stati Uniti o in sud America.

Certamente nella Bibbia i sacrifici sono ben presenti. Nell’Antico Testamento si racconta che in un lontano passato nella Geenna si bruciavano in sacrificio perfino i propri figli al dio Moloch (2Re 23, 10; Ger 7, 29-32): nessun sacrificio è troppo grande se ce lo chiede il nostro Dio, come si è visto nell’episodio di Isacco. Sappiamo però che alcuni autori biblici (Amos, Osea, Isaia) già affermavano che Dio era contrario ai sacrifici, al culto. Sappiamo anche dai vangeli (es. Gv 2, 13; 5, 1; 6, 4; 7, 2) che Gesù non ha mai partecipato ai riti officiati dai sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme; anzi con la cacciata dal Tempio dimostra che quel culto sacerdotale basato sui sacrifici (di soli animali) era per lui superato.

Non è un caso, allora, se vari teologi hanno cominciato a mettere in discussione questa idea di sacrificio. Alcuni hanno proprio cancellato il termine sacrificio riferendosi alla crocifissione: hanno fatto giustamente notare come i vangeli associno i sommi sacerdoti – cioè coloro che erano addetti ai sacrifici - alla sofferenza e alla morte di Gesù (cfr. Mt 20, 18; 21, 23; 21, 45; 26, 3; 26, 14).  Confermano che nel sacrificio liturgico gli esecutori del rito sono innocenti, la vittima è colpevole e subito dopo viene definitivamente dimenticata. Qui è però accaduto l’opposto: la vittima è innocente, gli esecutori sono colpevoli, e, subito dopo la morte, la vittima risorge (il tutto accompagnato da terremoto e strappo delle tende del Tempio) e non viene più dimenticata. Ma è soprattutto da tener presente che il sacrificio non consisteva semplicemente nella morte della vittima, ma era essenziale che la vittima morisse secondo un rituale determinato, nell’ambito sacro del Tempio e sopra l’altare. Una vittima uccisa nell’ambito della realtà profana e senza accompagnamento di riti non realizzava un vero sacrificio[16]. Come allora spiega molto bene il cardinale Vanhoye[17], se pensiamo alla morte di Gesù, avvenuta senza riti religiosi, in luogo profano, si è trattato effettivamente di un’esecuzione, e non di un sacrificio santificante. Si deve dunque concludere che neanche gli uomini che hanno condannato Gesù a morte hanno pensato a un sacrificio: la crocifissione non era un atto rituale che univa a Dio ma era esattamente la sua negazione perché separava da Dio; non era qualcosa che attirava la benedizione divina, ma la maledizione di Dio (Dt 21, 22-23)[18]. Infatti chi finisce in croce è maledetto da Dio.

Dunque, forse è giunta l’ora di eliminare non solo la parola, ma anche l’idea di sacrificio dalla nostra dottrina, così come è stata introdotta dalla Chiesa. Tanto più che Gesù risorge, mentre la cosa era impossibile per il capro espiatorio.

È un dato di fatto che, per quanto sia sicura la doppia affermazione del vangelo di Matteo (9,13; 12,7 che si richiama ad Os 6,6), secondo la quale “Dio vuole misericordia e non sacrifici”, nei fatti questa chiara affermazione viene troppo spesso ancora messa in dimenticatoio. Sì è data preferenza a Paolo per cui ci viene ancora oggi ripetuto che Cristo ci ha salvati attraverso il sacrificio di sé stesso (Ef 5,2; Eb 5,1 e 8,3).

Perciò altri teologi hanno fatto notare che quando Gesù ha detto “misericordia io voglio, non sacrifici” (Mt 9, 13; Mt 12, 7), in questo sta probabilmente il punto cruciale di tutta la questione religiosa e di tutta la questione di Dio. Il giorno in cui i farisei chiedono a Gesù perché i suoi discepoli non digiunano, in palese violazione della tradizione, quando lo fanno perfino i discepoli di Giovanni (Mc 2, 18-22), egli risponde che categorico che né Lui né i suoi più digiunano: quel giorno la religione ha smesso di essere la religione del sacrificio, della mortificazione e delle privazioni; e ha cominciato ad essere la religione della dignità delle persone, dei diritti delle persone, della felicità delle persone. In questo consiste il Regno di Dio[19].

Inoltre va anche stemperata l’importanza del peccato, e quindi la necessità del sacrificio di Gesù per redimerci pagando le nostre colpe. Ci hanno insegnato che il peccato è un’offesa a Dio,  ma se riteniamo che noi non possiamo offendere Dio,[20] come una formica non può offendeere l’uomo, viene a cadere il presupposto per il sacrificio cruento di Gesù.

Se guardiamo i vangeli, solo due volte Gesù perdona i peccati (Mc 2, 5 al paralitico; Lc 7, 48 alla prostituta). Molto più frequentemente, invece, si dedica a guarire mali e sofferenze[21], perché per Gesù la sofferenza umana è evidentemente molto più importante del peccato. Gesù mai si sofferma a disquisire sull’importanza dei peccati e sull’obbligo di confessarli per cui sembra che il peccato e l’impurità siano presto diventati più un’ossessione della Chiesa che di Gesù, e quindi di Dio[22] visto che dobbiamo accettare l’immagine di Dio che Gesù ci ha proposto.

Da ricordare che Gesù ha sempre rifiutato l’idea che vede nel peccatore una persona impura che occorre evitare e che Dio non gradisce, tanto che mette subito in pratica questo suo proclamato amore universale: nel pubblicano Gesù non vede un ladro (non utilizza le categorie morali), non vede un peccatore (non utilizza le categorie religiose), ma vede una persona: Levi (Mc 2, 14), e va subito a festeggiare a pranzo con lui (Mc 2, 15), senza neanche chiedergli di pentirsi e senza vedere prima se i due possono accordarsi per qualche obiettivo giusto e onesto. Anche nella casa del fariseo, dove la prostituta si presenta senza essere invitata, si scontrano due modi di vedere la realtà: secondo la religione questa è una peccatrice che deve essere cacciata via in malo modo; la religione insegna che neanche per strada ci si può avvicinare alla porta della casa di una prostituta (Pr 5, 8), se si vuole rimanere puri; immaginarsi qui, che è stata lei a entrare e a prendere l’iniziativa. Per Gesù non ci sono peccatori o peccatrici, ma solo uomini e donne, che possono aver anche mantenuto condotte di vita sbagliate, visto che il peccato è qualcosa che diminuisce la persona. Gesù non parla mai di peccatori, di peccatrici, parla di uomini e donne. Gesù chiede al fariseo: «vedi questa donna?» (Lc 7, 44). Non dice: “vedi questa peccatrice?” Il devoto fariseo non vede una donna, ma vede un’impura peccatrice da allontanare con decisione, e quello che agli occhi del fariseo religiosissimo appare una patente trasgressione della legge divina e quindi della volontà di Dio - sì che, visto che Gesù non si avvede della condizione peccaminosa di questa donna non può essere il Maestro che dicono- , per Gesù è una riconoscente manifestazione di fede: la donna ha espresso la sua riconoscenza a Gesù nell’unica maniera di cui è capace, usando tutto l’armamentario[23] di cui dispone: capelli, bocca, profumo e mani esperte nel palpare[24]. Ma soprattutto, scandalo che si aggiunge a scandalo per le persone pie, va fatto notare che Gesù non la invita a non peccare più, non le chiede di pentirsi, non le chiede di cambiar mestiere, per il semplice fatto che per una donna del genere sarebbe stato impossibile:[25] che altro poteva fare? Nessuno l’avrebbe presa con sé; per vivere necessariamente doveva continuare a fare la prostituta.

Torniamo dunque al richiamo secondo il quale prende sempre più piede la necessità di interpretare in modo nuovo i vangeli. Dopo aver affinato nei secoli la propria sensibilità, la propria coscienza, anche il magistero ha ormai acquistato la capacità di superare dei mali che prima non sembravano tali, e che ora – se mantenuti – metterebbero a disagio l’intera società[26]. I vangeli ci mostrano un cammino, e man mano che la storia prosegue noi uomini siamo in grado di comprendere sempre meglio il significato reale di ciò che il testo voleva dirci. Oggi, rivisto il tutto, si comincia a dire che ciò che ci salva è il modo di vivere di Gesù, non la sua morte, non il suo sacrificio. Ed è la risurrezione operata da Dio che porta alla riconciliazione, non di nuovo il sacrificio di Gesù.

La settimana prossima cercherò di sintetizzare al massimo il corposo lavoro di S. Mark Heim (Saved from sacrifice), professore di teologia al seminario di Andover Newton Theological School (in Massachussetts - USA), il quale ha chiarito che il termine «sacrificio» è uno dei termini più fraintesi in assoluto, ed è possibie cambiare la prospettiva che abbiamo acquisito su questo termine. Come vedremo questo autore cerca di salvare capra e cavoli.

 

                                                                                                                                               (continua)


NOTE

[1] De imitatione Christi, Libro II, Cap.XII.

[2] Richiamato da Buber M., L'eclissi di Dio, ed. Passigli, Firenze-Antella, 2001,107ss.

[3] Maggi A., Religione del libro o fede nell’uomo, relazione tenuta in Ancona, 2010, in www.studibiblici.it/scritti/conferenze.

[4] Mi richiamo alle foto della Maria gioia e della Maria sofferente all’inizio dell’articolo Cosa è richiesto per essere cristiani?, del 9.6.2024 di questo giornale, https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-769-9-giugno-2024/dario-culot-cristiani-credenti.

[5] Castillo J.M., Simboli di libertà, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 100.

[6] Pio XI, nella sua Enciclica del 20.12.1935, Ad catholici sacerdotii, § 1, in www.vatican.va/SommiPontefici/PioXI/Encicliche, afferma che la maestà del sacerdozio giudaico costituisce modello per il sacerdozio cristiano. Ma eliminando la distinzione sacro/profano, puro/impuro, vietando a chicchessia di farsi chiamare maestro, Gesù ha distrutto la maestà del sacerdozio giudaico.

[7] “Poiché la chiesa cattolica, istruita dallo Spirito santo, conforme alle sacre scritture e all’antica tradizione, ha insegnato nei sacri concili, e recentissimamente in questo concilio ecumenico, che il purgatorio esiste e che le anime lì tenute possono essere aiutate dai suffragi dei fedeli e in modo particolarissimo col santo sacrificio della messa...” (Concilio di Trento, Sessione XXV, 3-4.12.1563, Decreto sul purgatorio, in www.totustuustools.net/voce Concili).

[8] Maggi A.,Cos’è il peccato, incontro di Assisi, 2013, in https://www.studibiblici.it/audioconferenze.html.

[9] Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 102.

[10] Questa è un’idea di Paolo (Eb 10, 10; Rm 5, 19; Col 1, 24; 2 Tm 1, 12; 2, 9).

[11] Haag H.,  Da Gesù al sacerdozio, ed. Claudiana, Torino, 2001,91.

[12] Cfr. Vangelo di Matteo (Mt 26, 26-30), di Marco (Mc 14, 22-26), di Luca (Lc 22, 15-20) e prima lettera di Paolo ai Corinzi (1 Cor 11, 23-25)

[13] Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, ed. Paoline, Roma, 1965,329: la somma eucarestia, cioè l’azione di grazie a Dio sulla terra, è la messa. Gnerre C., Apologetica, ed. Il settimanale di padre Pio, Castelpetroso (IS), 2004, 140: “Solo nella Messa c’è Dio che si offre in sacrificio”. 

[14] Benedetto XVI, La gioia della fede, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2012, 46s. I protestanti hanno da sempre negato che la messa fosse un sacrificio, perché in tal modo si trasferiva sulla messa ciò che era specifico della morte di Cristo, avvenuta una sola volta con effetti eterni: tant’è che Cristo non ci ha chiesto di offrire e immolare, ma di prendere e mangiare ciò che è stato offerto e immolato (Ricca P., L’Ultima Cena, anzi la Prima, ed. Claudiana, Torino, 2013, 217).

[15]  Se andate in Spagna, negli Stati Uniti o in sud America non sentirete la parola sacrificio.

[16] Castillo J.M., Simboli di liberta, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 72s.

[17] Vanhoye A., Lettera agli ebrei, ed. PIB, Roma, 1969.

[18] Castillo J.M., Simboli di liberta, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 73.

[19] Castillo J.M., Teología popular, II, Desclée De Brouwer, Bilbao (EI), 2013, 91.

[20] Vedi gli articoli Il peccato non è violazione della legge divina, e I peccati secondo Gesù, rispettivamenti ai nn. 471 e 485 del 2018 di questo giornale.

[21] Che Gesù sia sempre sensibile alle sofferenze della gente è confermato in continuazione nei vangeli. Per fare qualche es., pensiamo alla vedova di Nain o al cieco Bartimeo: cfr. Lc 7, 13: “Donna non piangere”; Mc 10, 51: “Cosa vuoi che io faccia per te?”

Vedi più ampiamente Castillo J.M., Vittime del peccato, Fazi, 2012, 64 e 58.

[22] Salonia G., Attenzione ai principi – attenzione all’uomo, in A partire dai cocci rotti, Cittadella, Assisi, 2001, 245.

[23] Maggi A., Versetti pericolosi, ed. Fazi, Roma, 2011, 85.

[24] Il verbo è lo stesso usato da Paolo in 1Cor 7, 1, tradotto comunemente con l’invito all’uomo di “non toccare la donna”; ovviamente l’uomo non la tocca con la punta di un dito.

[25] Maggi A.,Come leggere il Vangelo e non perdere la fede, ed. Cittadella, Assisi,2009, 60.

[26] Oggi è effettivamente inaccettabile quanto si reputava giusto in passato. Papa Innocenzo IV aveva autorizzato l’uso della tortura nel processo ecclesiastico alle streghe, in data 15.5.1252 con bolla Ad extirpanda, in www.icar.beniculturali.it/MagnumBullariumRomanum/InnocenzoIV/parteII/XXVII/p.552 (testo solo in latino), ed il rogo era stato giustificato come comandato dalle Sacre Scritture (Es 22, 17; Lv 20, 27; Gv 15,6). Chiaro che oggi il vangelo di Giovanni viene letto e interpretato in modo diverso. Con la bolla Romanus Pontifex, in Bollarium Romanum, in http://www.icar.beniculturali.it/biblio/pdf/bolTau/tomo_05/02_T05_96_143.pdf, papa Niccolò V, l’8.1.1454, donava – ma non era mica sua! - al re Alfonso del Portogallo tutta l’Africa, affinché gli abitanti arrivassero a conoscere il vero Dio, e non quello dei musulmani, convinto che in tal modo “si prestava a Dio il massimo ossequio”. Sennonché il dono comprendeva “la piena e libera facoltà d’appropriarsi, per sé e i suoi successori,” dei beni e, soprattutto, gli conferiva il diritto di conquistare e “sottomettere a perpetua schiavitù queste genti”. Chiaro che qui ha inizio, dietro allo schermo di Dio, quel colonialismo e quel commercio di schiavi con cui gli europei si sarebbero arricchiti nel XVII e XVIII secolo.