Venerdì Santo a Pietraperzia
Lu Signuri di li fasci a Pietraperzia: folklore che incarna un sentimento atavico e non solo
di Angelo Maddalena
Tutte le foto sono di Angelo Maddalena, inviate al nostro settimanale per il presente contributo
Quest’anno il Venerdì Santo, a Pietraperzia, è coinciso quasi esattamente con il 17 aprile, cadeva il giorno dopo. Esattamente cinquant’anni prima, uno dei tanti emigrati di Pietraperzia, veniva “crocifisso cumu a Cristu”, come dice una madre, in un’intervista pubblicata su Vimeo e curata da Marco Farvella, circa quindici anni fa. La signora Stella, madre di Tonino Micciché, senza saperlo rievoca una citazione di un documentario trasmesso alla RAI sulle feste religiose in Sicilia, di quei documentari alla maniera di Vittorio De Seta. In quel documentario con taglio antropologico, la voce narrante diceva che il Cristo crocifisso di tante processioni siciliane e del sud Italia in generale così come la Madonna portata in processione dietro al Crocifisso e così come “la ladata” (da laudatio), cioè il pianto della madonna “cantato” da un gruppo di confrati (come succede ancora oggi a Pietraperzia durante la processione del Venerdì Santo), rappresentano simbolicamente il dolore di un popolo per i figli emigrati, spesso operai che perdono la vita come nel caso di Tonino Micciché, ma in generale il dolore per la ferita dell’emigrazione, che Anne Morelli chiama “deportazione economica”. E non è un caso che a popolare la processione del Venerdì Santo sono soprattutto gli emigrati che tornano nei paesi, per esempio a Pietraperzia, per partecipare a questo rito ancestrale e frutto di un “sentimento atavico”, per usare le parole di don Pino Rabita, parroco della parrocchia della Madonna della Grazie di Pietraperzia.
La mattina del Giovedì Santo ho incontrato al Belvedere del castello Barresi di Pietraperzia una coppia di americani, Steve e Sheryl. Lei è oriunda di Pietraperzia: “My great grandfather”, mi dice, per farmi capire che suo bisnonno era di qui. Il giovedì sera c’è una scenografia insolita (almeno per me che non mi trovavo in paese in questi giorni da più di dieci anni) davanti le tre Chiese centrali del paese: sulla facciata di Santa Maria, nella piazza centrale, c’è un disegno di luce che riproduce il crocifisso di legno della processione del Venerdì, sulla facciata della Chiesa Madre c’è una gigantografia del volto della Madonna Addolorata, è una proiezione di quella che viene portata in processione la sera del venerdì. In questi giorni, a Pietraperzia, non sono solo emigrati che ritornano e paesani a riempire le strade, a partire dalla sera del giovedì, per il rito dei sepolcri, ma anche turisti venuti da ogni dove (molti francesi, che si confondono con emigrati paesani in Francia di ritorno in questi giorni?). Diverse TV locali riprendono la processione per fare la diretta (ho visto una troupe poco che stava arrivando da fuori). Filippo, che non tornava in paese da dieci anni, mi dice a proposito: “Fa vedere la processione da un’angolazione che sorprende anche chi l’ha vista molte volte”. Una signora vicino a lui afferma: “Ogni anno è un emozione”. Frase forse banale ma significativa: vuol dire che è sempre una nuova emozione o qualcosa che rimane soprattutto nella sfera emotiva? L’anno scorso su Rai News regionale è stato fatto un servizio ed è stato intervistato Giuseppe Maddalena, governatore della Confraternita Maria SS del Soccorso, presentata in un depliant promozionale come “la più antica istituzione esistente a Pietraperzia”. La risonanza della processione è stata forse amplificata da quando è stata dichiarata “Eredità Immateriale della Regione Siciliana”. Giuseppe Maddalena è anche autore del libro Lu Signùri di li fasci, storia di una tradizione secolare (Maurizio Vetri editore, Enna, 2021). Dieci anni fa ho scritto un piccolo libretto, In cammino coi ladatori, in cui riportavo le parole di Giuseppe circa il calo di curiosità a livello popolare, riferito alla fase preparatoria della ladata, e cioè almeno un mese prima della processione, una sera alla settimana, il gruppo dei ladatori attraversa il paese facendo le prove del canto con ritmo di nenia quasi araba, molto suggestiva. Giuseppe mi faceva notare che fino alla fine del secolo scorso, quello era un rito condiviso dagli abitanti del paese che scendevano in strada e accompagnavano il gruppo dei ladatori. “Adesso”, mi diceva Giuseppe, “non solo non scendono in strada, ma neanche si affacciano dalla finestra o dal balcone”. Era una constatazione desolante che esprime, a detta di Giuseppe, la perdita di un elemento fondamentale della vita spirituale: la curiosità, il desiderio di scendere in strada per condividere un passaggio di persone che celebrano un rito atavico. Giuseppe, insieme ad altri confrati, si è fatto carico di una tradizione (quello della ladata) che stava per perdersi con la scomparsa dei vecchi ladatori. Alla fine di quel libricino avevo pubblicato anche il testo del canto struggente della Madonna che si lamenta per la morte e crocifissione del figlio, simile alla madre di Tonino Micciché e di tante altre madri di emigrati (nella mia canzone La gita dei migranti c’è una strofa che dice: “Ho visto piangere un padre per una figlia emigrata, non vedevo piangere un uomo da tanti anni o forse da secoli, non piange più l’occhio né il cuore, per la spartenza per il dolore”). Come in ogni rifondazione di un’istituzione o di un rito, c’è qualcosa che si perde. Qualcuno tra i più giovani ladatori che faceva parte del gruppo dei vecchi, e che non partecipa più, dice che “una volta nelle prove dei ladatori ci si fermava e si beveva il vino e si mangiava pane e formaggio e questo facilitava la partecipazione popolare”, così come si beveva vino per farsi forza sotto la vara, il basamento portato a spalla da decine di persone per sostenere la croce alta “8,51 metri cioè l’equivalente di 33 palmi siciliani, chiaro riferimento agli anni di Nostro Signore Gesù Cristo”, come si legge sempre nel depliant promozionale. Oggi i sostenitori della vara sono rigorosamente sobri, questo forse toglie una dimensione più convivale, nelle prove dei ladatori e nella processione, ma rende magari più ordinato l’assetto dei sostenitori. A Pietraperzia, lontano dal mare e dalle rotte turistiche, non c’è ancora una dimensione troppo commerciale e mercificante, anche perché negli anni si è insistito molto nel rispetto del silenzio durante la processione. Una volta c’erano i negozietti di alimentari che vendevano tantissimi panini con il tonno o con i salumi dopo la mezzanotte, oggi non è più così, come mi dice Giuseppe, che gestisce uno di questi negozi alimentari (uno dei pochissimi rimasti aperti in paese, tra quelli storici e in generale). La processione del Signùri di li fasci risale alla fine del 1800, almeno a quel periodo risalgono le più antiche fasce di lino, le stesse che danno quella forma di piccola montagna innevata che cammina con un crocifisso in cima, a sua volta posizionato su una palla luminosa che rappresenta il mondo. Questa sera, dopo 13 anni dall’ultima volta, arrivo puntuale per vedere la croce che si alza spinta dai “fascianti” che la sollevano da un lato, è il momento più delicato e più sentito: non riesco a vederlo però, perché tutti gli accessi sono otturati da corpi di uomini e donne che bloccano le strade che danno accesso allo slargo davanti la Chiesa del Carmine, quella che custodisce la croce e il Cristo e da dove inizia la processione. Tento di salire per una stradina che porta al Castello, ci sono due viuzze: via Arco inferiore e via Arco Superiore, nella seconda ci abitano delle mie zie emigrate, una ultracentenaria, ma quest’anno per la prima volta non sono venute da Milano, quindi niente visuale privilegiata dal balcone. Mi avvicino alla calca di persone appostate in fondo alla viuzza, da lì si vede parzialmente, guardando in giù, “l’alzata”, ma lo spazio per posizionarsi è “tutto esaurito”; torno indietro, così come fa un’altra signora dicendo: “Non si vede niente”. Poco distante dalla via Arco Superiore, di fronte la Chiesa Madre, trovo però una novità: il locale dove c’era il Retrò, al quale ho dedicato la canzone La prima estate senza il Retrò, per la prima volta dopo tre anni, è aperto solo per questa sera e vende “pani cunzatu”, c’è un’insegna improvvisata sul muro tra le due porte d’ingresso, con scritto Pani cunzatu e sotto c’è la traduzione anche in inglese: dentro ci sono due uomini e una donna dietro dei banconi con centinaia di panini imbottiti con olio, sarde salate e altri condimenti. Aleggia nell’aria il suono della banda del paese, che intonerà a un certo punto “Ah sì versate lacrime, Angeli mesti in cielo…”. Una delle due bande, quella che segue la statua della Madonna portata dalle donne della Confraternita Maria SS. Addolorata, va avanti con un passo cadenzato con effetto ondeggiante. Qualcuno mi fa notare che le proiezioni sulle facciate delle Chiese sono una trovata un po’ “cinematografica”, segno di una ricerca progressiva di “effetti speciali”, come altre trovate di anni precedenti: dalle immagini di madonne stampate lungo alcuni muri del paese ai servizi televisivi degli anni passati, però di fatto lu Signuri di li fasci tiene uniti gli abitanti del paese presenti e lontani che vivono la processione dalla distanza, attraverso i servizi televisivi e i video degli smartphone, condividendo una dimensione di misticismo forse emotivo ma comunque intenso. A Limito, nell’hinterland milanese, già nel 1982, quando ci andai con i miei genitori, la nutrita comunità di pietrini emigrati di lunga data, celebrano una processione con un Signuri di li fasci in piccolo. È un filo invisibile che unisce gente del Sud sparsa per il mondo. E forse in questo filo passa anche, per chi vuole sentirlo, quell’ “urlo nel silenzio” di tanta sofferenza di madri e di crocifissi della storia, vicini e lontani. “La Passione di Cristo e lo scandalo della guerra”, è il titolo dell’articolo di Bruno Forte su Avvenire di questo Venerdì Santo. “Gesù è il Figlio venuto nella carne, che si consegna alla morte in obbedienza al padre per amore nostro e dal trono della Croce (…) consegna lo Spirito per rendere chiunque crederà in lui partecipe della vita divina, costruttore di pace. Questo dono passa attraverso la sofferenza del Figlio abbandonato per noi” (…). “Marco e Matteo riportano a loro volta il grido di Gesù morente: «Mio Dio mio Dio, perché mi hai abbandonato?». (…) “È la domanda che tanti si stanno ponendo nell’Ucraina devastata dalle micidiali armi di Putin, come nella Russia stessa, che conta i suoi tanti giovani caduti in battaglia, in Israele come tra i Palestinesi di Gaza, ridotta a macerie e terra di morti: dov’è Dio in tanta distruzione e dolore?”. Poco dopo Bruno Forte scrive: “Cristo è l’abbandonato, ma non è il disperato!”. Le processioni e il folklore contribuiscono a farci sentire il dolore dell’abbandono senza farci cadere nella disperazione, o rimangono solo in una dimensione emotiva e potenzialmente alienante? Bisognerebbe leggere, tanto per cominciare, il libro di Leonardo Sciascia dal titolo Le feste religiose in Sicilia, magari quella pagina che recita così: “Ma è davvero il dramma del figlio di Dio fatto uomo che rivive, nei paesi siciliani, il Venerdì Santo? O non è invece il dramma dell’uomo, semplicemente uomo, tradito dal suo vicino, assassinato dalla legge? O, in definitiva, non è nemmeno questo, ed è soltanto il dramma di una madre, il dramma dell’addolorata? Il vero dramma è suo, terreno, carnale. Non il dramma, dunque, del divino sacrificio e dell’umana redenzione; ma quello del male di vivere, dell’oscuro, viscerale sgomento di fronte alla morte, del chiuso e perenne lutto dei viventi”. La morte e il lutto di cui parla Sciascia è declinato e forse riferito soprattutto a un sentimento tipicamente siciliano e del sud in generale, tanto che lui stesso ne scrive nel libro L’affaire Moro, nelle pagine in cui parla del carattere di Aldo Moro, che era di Bari, e del “pessimismo meridionale”, che è un senso del tragico, un senso mistico forse, comunque metafisico, ma già siamo andati oltre forse, oltre il venerdì Santo, o ci siamo ancora dentro epperò possiamo continuare ad approfondire in questo senso… oltre la processione del Venerdì Santo.