Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Gurver, in Mongolia - foto tratta da commons.wikimedia.org


Francesco in Mongolia

di Stefano Sodaro




Sono ricorsi ieri i sessant’anni dalla morte di Giovanni XXIII, che aveva datato a pochi mesi prima – l’11 aprile 1963 – la sua ultima Enciclica, la “Pacem in terris”.

E proprio ieri il Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, ha comunicato che Papa Francesco si recherà in Mongolia dal 31 agosto al 4 settembre di quest’anno.

Il 13 aprile 2002 Papa Giovanni Paolo II elevò la Missione “sui iuris” di Ulan Bator, capitale della Mongolia, a Prefettura Apostolica ed il 27 agosto 2022 proprio Papa Francesco ha nominato Cardinale il quarant’ottenne Vescovo piemontese, Prefetto Apostolico di Ulan Bator, Giorgio Marengo, dei Missionari della Consolata.

Ci si potrebbe chiedere che ci fanno un Cardinale ed un Papa in Mongolia.

Merita riportare di seguito tre numeri della menzionata “Pacem in terris” di Giovanni XXIII:

«23. Infine la famiglia umana, nei confronti di un passato recente, presenta una configurazione sociale-politica profondamente trasformata. Non più popoli dominatori e popoli dominati: tutti i popoli si sono costituiti o si stanno costituendo in comunità politiche indipendenti.

24. Gli esseri umani, in tutti i paesi e in tutti i continenti, o sono cittadini di uno stato autonomo e indipendente, o stanno per esserlo; nessuno ama sentirsi suddito di poteri politici provenienti dal di fuori della propria comunità umana o gruppo etnico. In moltissimi esseri umani si va così dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica.

Al contrario è diffusa assai largamente la convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità naturale. Per cui le discriminazioni razziali non trovano più alcuna giustificazione, almeno sul piano della ragione e della dottrina; ciò rappresenta una pietra miliare sulla via che conduce all’instaurazione di una convivenza umana informata ai principi sopra esposti. Quando, infatti, negli esseri umani affiora la coscienza dei loro diritti, in quella coscienza non può non sorgere l’avvertimento dei rispettivi doveri: nei soggetti che ne sono titolari, del dovere di far valere i diritti come esigenza ed espressione della loro dignità; e in tutti gli altri esseri umani, del dovere di riconoscere gli stessi diritti e di rispettarli.

25. E quando i rapporti della convivenza si pongono in termini di diritti e di doveri, gli esseri umani si aprono sul mondo dei valori spirituali, e comprendono che cosa sia la verità, la giustizia, l’amore, la libertà; e diventano consapevoli di appartenere a quel mondo. Ma sono pure sulla via che li porta a conoscere meglio il vero Dio, trascendente e personale; e ad assumere il rapporto fra se stessi e Dio a solido fondamento e a criterio supremo della loro vita: di quella che vivono nell’intimità di se stessi e di quella che vivono in relazione con gli altri.»

La terra di Mongolia, in apparenza lontanissima non solo dalle nostre coordinate geografiche ma anche linguistiche, religiose e socio-culturali, rievoca i miti antichi del leggendario Prete Gianni – misteriosissimo presbitero sovrano di regni favolosi nel centro dell’Asia – e del non meno enigmatico “Ebreo Errante”, apparentato al primo quanto ad indecifrabile diasporica identità.

Però, nel nostro registro “rodafiano”, vorremmo qui permetterci un’altra, diversa, annotazione: la Mongolia è terra dove l’istituto familiare della poliandria risulta ancora presente. Paese in cui la fede buddista lamaista, propria anche del Tibet, ha sempre consentito, se non incoraggiato, il matrimonio di un’unica donna con più mariti.

Leggiamo allora il n. 22 della “Pacem in terris”: «In secondo luogo viene un fatto a tutti noto, e cioè l’ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà. Nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica.»

La poliandria va letta come valorizzazione della dignità della donna, in senso esattamente contrario alla poligamia, oppure è ancora, di nuovo, un inaccettabile schiacciamento della sua dignità, soprattutto considerata la particolare configurazione della cosiddetta “poliandria adelfica”, in cui tutti i fratelli devono avere la medesima moglie?

La provocazione è potente.

Sarebbe interessante sapere se la Chiesa locale della Prefettura Apostolica di Ulan Bator – che conta circa 1.500 persone battezzate e 23 preti – abbia sviluppato una propria riflessione al riguardo.

È sempre la “Pacem in terris”, al n. 9, a ribadire che: «Gli esseri umani hanno il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato; e quindi il diritto di creare una famiglia, in parità di diritti e di doveri fra uomo e donna (…).»

Ma proviamo a leggere la diversità culturali, anche quelle più urticanti per la nostra sensibilità, adottando la visione presente ai nn. 60-62 della medesima Enciclica: «(…) gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacché le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico. Inoltre va pure tenuto presente che se anche una guerra a fondo, grazie all’efficacia deterrente delle stesse armi, non avrà luogo, è giustificato il timore che il fatto della sola continuazione degli esperimenti nucleari a scopi bellici possa avere conseguenze fatali per la vita sulla terra.

Per cui giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci. “Non si deve permettere — proclama Pio XII — che la sciagura di una guerra mondiale con le sue rovine economiche e sociali e le sue aberrazioni e perturbamenti morali si rovesci per la terza volta sull’umanità”.

61. Occorre però riconoscere che l’arresto agli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità.

62. È un obiettivo reclamato dalla ragione. È evidente, o almeno dovrebbe esserlo per tutti, che i rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioè nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante.

È un obiettivo desideratissimo. Ed invero chi è che non desidera ardentissimamente che il pericolo della guerra sia eliminato e la pace sia salvaguardata e consolidata?

È un obiettivo della più alta utilità. Dalla pace tutti traggono vantaggi: individui, famiglie, popoli, l’intera famiglia umana. Risuonano ancora oggi severamente ammonitrici le parole di Pio XII: “Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra.”»

Chiediamoci: da dove nasce l’avversione verso le culture altre? Da dove si origina il bellicismo che sembra improvvisamente tornato così di moda?

Il confronto con l’alterità può essere concepito come un’istanza di “conversione” ai nostri modelli, costi quel che costi? Possiamo negare che assai spesso sia pensato proprio così?

Pare del tutto verosimile ipotizzare che Francesco papa affronterà la radicale alterità della Mongolia riattualizzando, secondo ogni declinazione possibile – dunque anche quella familiare in contesti totalmente diversi dal nostro - il messaggio di pace del suo predecessore morto il 3 giugno del 1963. 

Il Papa buono inaugurò il Vaticano II proprio per aprire la Chiesa a quel mondo che, si legge nel passo odierno del Vangelo di Giovanni secondo la liturgia romana, il Figlio di Dio ha voluto salvare e non condannare.

Saltano tutti i nostri assoluti convincimenti di un benessere fondato sul nostro unico assetto morale, che si ritiene indiscutibilmente universale e facilmente esportabile, magari pure con le armi a supporto. Si tratta, invece, di verificare se altrove la pace passi attraverso un rovesciamento completo delle nostre presunte sicurezze etiche.

Bisogna insomma davvero andare in Mongola. Con la sicura benedizione, immaginiamo, di San Giovanni XXIII.