Foto di Paola Cazzaniga




L’erranza

parte 1


di Miriam Camerini



Quando è iniziata la pandemia io ero la donna più stanca del mondo.

La carta geografica delle elementari oramai per me aveva assunto tutto un suo senso: mi spostavo incessantemente dalle Marche al Veneto, dall’Emilia al Lazio al Friuli, dal Piemonte al Trentino alla Toscana. Tornavo a Milano, facevo un bucato e prima che fosse asciutto ero già di nuovo su un treno.

Mi proponevo di scrivere a Italo, che per un breve tempo aveva offerto carrozze-coiffeur, perché le ripristinasse al più presto: io non ero mai a casa un numero sufficiente di ore per lavarmi i capelli e sarei stata la loro più grata (e una volta tanto pettinata) passeggera. Ogni tanto andavo anche a Parigi, a Belgrado, a Berlino, a Sofia, a Vienna, a Budapest e a Zurigo: un po’ per lavoro, un po’ per piacere, un po’ per vedere delle amiche e degli amici, anche se non è che questa distinzione mi fosse poi mai stata chiarissima. Quando sapevo che avrei trascorso un weekend a Milano lo comunicavo con anticipo a parenti e amiche, così da programmare di vederci, come avrei fatto con chi andavo a trovare in un luogo insolito.

A Milano avevo sì una casa, ma senza cucina e senza armadio, perché mangiare mangiavo fuori e i vestiti li tenevo un po’ in valigia, un po’ in tintoria (quelli che non sapevo lavare da sola) e un po’ in lavatrice.

Perché lo facevo? Perché così era il mio lavoro, e – lo ripeto – era anche fra le cose che mi davano più piacere al mondo: viaggiare, incontrare persone, parlare, cantare, raccontare, insegnare, spiegare.

Partecipavo a convegni, presentazioni di libri e seminari. Allestivo spettacoli, oppure ne ero parte, in scena. L’unico fattore unificante eravamo io e “l’ebraismo”, o meglio: il mio ebraismo, di donna, relativamente giovane, osservante, istruita, aperta al dialogo con l’Altro e allo scambio di idee.

Studiavo per diventar rabbino, dicevo, ma in realtà non studiavo affatto, perché diventar rabbino è difficilissimo e per farlo davvero avrei dovuto smettere di spostarmi e lavorare continuamente, ma invece aprire i libri e ficcarmici dentro giorno e notte.

Quando è iniziata la pandemia io avevo un innamorato che mi mancava sempre perché non lo vedevo quasi mai: lui era russo ma abitava in Canada, ci eravamo conosciuti in Germania ed eravamo stati assieme in Svezia e in Grecia, oltre che ognuno a casa dall’altro. Con lui abitavamo assieme Yiddishland, quel luogo dell’anima e della mente in cui si parla una lingua che non ha mai avuto un suolo suo, ma solo un popolo, errante per definizione: quello ebraico. Lui quella lingua da viaggio, lo yiddish, la insegnava, io di lui mi ero innamorata per impararla, o magari anche il contrario.

All’inizio di questa settimana sono stata - per la prima volta in anni - sulla spianata delle Moschee, o Monte del Tempio che dir si voglia: accompagnavo un’amica che voleva scrivere per il quotidiano di cui è corrispondente da qui sulla riapertura di quel luogo dopo la “guerra” delle scorse due settimane. Io sono ebrea e anche israeliana e credo da sempre nell’importanza della Diaspora, della sua storia, cultura, spiritualità e anche moralità. Non ho mai sentito centrale nel mio ebraismo l’esistenza dello Stato di Israele come entità politica, come “Stato ebraico”, anche se non posso non sentire la santità della Terra, radicata nella Bibbia e nella Letteratura rabbinica post-esilica.

Credo nell’esistenza e nella difficile e non scontata sopravvivenza del popolo ebraico in due millenni di esilio, nel suo assumere forme diverse, eppure consistenti ovunque nel mondo e nella Storia, credo nelle lingue, nelle interazioni, cattive e buone, con tutti i popoli e le realtà con cui il popolo ebraico si è trovato a vivere. Sulla spianata delle moschee, quel luogo che in arabo si chiama – non a caso – “proibito”, l’altro giorno ho sentito forte la necessità che quel luogo resti “altrui”, ho saputo di non aver alcun desiderio di esso come luogo santo dell’ebraismo.

Dalle mie labbra, un po’ ironica, è uscita la parafrasi del Salmo 137, che dice: “Se ti dimentico, Gerusalemme… Si attacchi la mia lingua al palato...”.

“Se ti dimentico, Diaspora, se dimentico il mio essere ebrea della Diaspora...” ho voluto invece dire, e soprattutto dirmi.



Foto di Paola Cazzaniga