L’anno nuovo


di Miriam Camerini



Farsi aiutare è importante

Saper chiedere, sapere a chi chiedere, sentirsi autorizzate a chiedere

Saper dare, sapere di aver dato e di essere disposta a dare

Sapere che, come dice mia madre, “La vita è una ruota”, il che non significa che tu dai e chi da te ha ricevuto a te renderà, bensì che tu dai a qualcuno che darà ad altri, i quali daranno ad altre e altre daranno a te, all’infinito e senza bilance, metri, pallottolieri o altre misurazioni; l’amore non si conta: se si conta migra altrove e te lo perdi.

Questa settimana non è stata facile: ho dovuto prendere una decisione importante e difficile (non voglio allarmare nessuno: la salute c’è tutta grazie a Dio e quando c’è quella tutto il resto non è grave) e – una volta presa – ho dovuto iniziare a metterla in pratica, renderla percorribile fra non poche complicazioni.

Ero a “casa”, proprio la casa quella per antonomasia, la casa dei miei genitori; era l’inizio dell’anno ebraico: Rosh-Hashana. Un doppio archè, dunque: un principio alla seconda, di tempo e di luogo.

Sono tornata - dopo mesi di viaggio - alle amiche e agli amici più primari, quelli di sempre, che ho visto e che mi hanno vista in ogni salsa e pettinatura, con le lacrime agli occhi e un sorriso di incredula gioia, disoccupata o angosciata da troppo lavoro, sul palco felice a prendere applausi e incapace di alzarmi dal letto per la tristezza, delusa e innamorata, in pigiama e in abito da sera, felice e incavolata, speranzosa e disperata.

Ho cercato di vederne il più possibile, di amiche e amici: in un paio di giorni quasi una decina.

Con tutte e tutti ho tentato di parlare davvero, con sincerità e senza schermi, perché il tempo è poco e va usato bene: meno ci si vede e più lo scambio dev’essere autentico, senza fronzoli e convenevoli.

Mi sono sentita ascoltata e non giudicata, ho chiesto vicinanza e supporto, non opinioni, né pareri, non questa volta: la decisione era di quelle che si prendono da soli e basta, almeno nel mio caso.

Ho ricevuto affetto e vicinanza, aiuto e attenzione in abbondanza, quanto ne avevo bisogno e anche più: mi sono sentita – ancora una volta – fortunata. Ho pensato che fosse un buon momento anche per dare qualche cosa: un amico fra i miei più cari era a casa col morbo che sappiamo e non poteva dunque adempiere all’unico precetto del Capodanno ebraico: ascoltare in sinagoga il suono dello shofar, il corno d’ariete.

Mi sono incamminata da casa dei miei il pomeriggio del secondo giorno di Rosh-Hashana, mi sono fermata sotto il suo balcone al terzo piano e ho iniziato a suonare lo shofar finché si è affacciato: gli ho detto di recitare la benedizione sul precetto e poi ho dato fiato al corno per le 30 suonate di rito.

Il momento è stato di quelli grandi, a cui sai già che ripenserai a lungo. Siamo poi rimasti così a parlare per un’ora, lui dalla sua finestra e io dalla strada, a scherzare e ridere, ascoltarci e comprenderci come sempre o quasi sempre noi due facciamo, in ogni circostanza. Avevo anche una cosa importante che volevo dirgli e gliel’ho urlata così a tre piani di distanza, certa che le parole vere e i sentimenti onesti non temano in alcun senso la gravità (sono già gravi loro) e possano salire, volare... Così è stato.

Rosh-Hashana d’altra parte è il giorno in cui la luna è nuova, tutta coperta e invisibile, è un giorno del sentire più che del vedere: è la ricorrenza ebraica il cui unico precetto è “ascoltare”, sentire il suono dello shofar, quel verso animale che legittima la nostra sofferenza e le dà un canale, ci permette di dar voce a un verso primordiale che esce dalle viscere, che dai nostri budelli sale nella gola, passa per l’osso di un animale e sale in cielo, trasformato in suono e preghiera, con durate e pause, lunghezze e scansioni; suonare lo shofar significa organizzare in musica, in suoni rituali i versi animali che ci portiamo dentro, perché possano manifestarsi, esprimersi, uscire non repressi, bensì intellegibili, utilizzabili, sublimati in un suono che la divinità e la comunità possano comprendere, accogliere, medicare, redimere.

Dare spazio al dolore, alla fatica, alla domanda, all’incertezza, non reprimerla, non respingerla, forse darle un ordine, un tempo e un luogo, perché non tracimi, non travolga tutte e tutto.

Essere ascoltati e ascoltare: solo questo ci può salvare.

Foto di Paola Cazzaniga