Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Matrimonio (poema inútil) - Óleo - lienzo. 140 x 120 cm., opera di Marcial Gomez, 1978, fonte http://marcialgomez.blogspot.com.es/, immagine tratta da commons.wikimedia.org

Anello al dito per un pornofago

di Stefano Sodaro


Commentando la pericope evangelica di Luca che la liturgia romana propone per l’odierna IV domenica di Quaresima (la cosiddetta domenica “Laetare”, dall’imperativo latino dell’antifona d’ingresso: «Lætáre Jerúsalem: et convéntum fácite ómnes qui dilígitis éam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis véstræ», ovvero «Rallégrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione.» Domenica, fra l’altro, in cui i paramenti potrebbero essere di “genderianamente” pericolosissimo color rosaceo), dunque, commentando Luca 15, 11-32, si dice abbastanza diffusamente e comunemente che personaggi femminili, nella struggente vicenda del “figliol prodigo”, o meglio del “padre misericordioso”, sono assenti. In realtà non è proprio così, ma si tratta di una presenza decisamente scandalosa e che fa tralucere qualcosa di un contesto comunque rigidamente patriarcale in cui anche i testi dei vangeli sono stati scritti. Fermiamoci al verso 30, riportiamolo in italiano e poi in greco – giacché i vangeli ci sono pervenuti in tale lingua antica -. Si adira il figlio maggiore davanti alla festa che il padre imbandisce per il ritorno del fratello scapestrato: “Ora invece che torna a casa questo tuo figlio che ha dilapidato i tuoi beni con le prostitute, per lui tu hai fatto ammazzare l’agnello grasso”. Il testo originale: “τε δ υός σου οτος καταφαγών σου τν βίον μετ πορνν λθεν, θυσας ατ τν σιτευτν μόσχον”, che più o meno si pronuncia “hòte de ho hyòs soù hoùtos ho katafagòn sou tòn bìon metà pornòn èlthen, ènthysas autò tòn siteutòn mòschon”. Di questo verso estrapoliamo soltanto per parole “ho katafagòn sou tòn bìon metà pornòn”, “costui che ha divorato – in realtà, letteralmente – la vita (tòn biòn) con le prostitute”, etc etc. Le prostitute sono, ahinoi, individuate nel testo greco con il plurale (in questo passo al genitivo, μετ πορνν, metà pornòn) “pornài”, parola la cui alliterazione con il nostro vocabolario, che comprende termini come “porno”, “pornografia”, “pornografico”, è di tutta evidenza. Le donne, dunque, nella vicenda sono menzionate, ma secondo il più trito e triviale canone moralistico, borghese e colpevolizzante, di tutti i secoli ed i millenni: le uniche presenze femminili a comparire nella parabola sono infatti le prostitute.

Eppure all’amarezza di simile constatazione testuale non è consentito bloccarsi rinunciando a degustare una ben diversa delizia esegetica. A questo “fagocitatore” di lubrici piaceri sessuali, il padre – stando al verso 22 – ordina di mettere l’anello nella mano (più che al dito: δότε δακτύλιον ες τν χερα ατο, dòte daktyùlion eìs tèn chèira autoù, che il latino traduce con un “date anulum in manum eius”, cioè “dategli in mano l’anello che va messo al dito”). Che razza di gesto è? Quali sono mai i meriti di tale “pornòfago” per ricevere dal padre un anello che, ricevuto in mano, forse sarà qualcun altro, o meglio - considerato sempre il contesto socioculturale del tempo assolutamente omofobo (almeno a livello istituzionale) - qualcun’altra a mettergli al dito?

Il padre rende quel figlio schedato come pornofago uno sposo pronto alle nozze. E con chi? Il testo nulla dice, ma quel figlio tanto indecente ed impresentabile forse avrà amato qualcuna di quelle donne dalle quali aveva ritenuto di poter trarre solo piacere e nient’altro, quasi fosse capace solo di uno sfogo bestiale. Forse alla festa sontuosa, che tanto fastidio dà al figlio maggiore, potrà giungere anche qualcuna delle donne, che il minore, ora con l’anello in mano, ha incontrato e conosciuto. E amato. Forse, anzi, tutte quante lo raggiungeranno alla festa. E la pornofagìa si trasformerà in gamìa, benché – chissà – forse in poligamia.

Stiamo sproloquiando? Può essere.

Non è elegante citarsi, ma mi permetto di annotare che in un contributo all’interno del volume appena uscito per Claudiana, dal titolo Guardare alla teologia del futuro. Dalle spalle dei nostri giganti, a cura di Marinella Perroni e Brunetto Salvarani, il sottoscritto ha provato a ricordare il superamento della nuclearità della coppia nella testimonianza esistenziale e letteraria di Adriana Zarri (pp. 273-281, “Adriana Zarri. L’eremita laica e lo Shabbath di tutti”), non certo all’insegna di un attentato alla morale codificata o addirittura verso una specie di istigazione alla trasgressione, ma nella consapevolezza di un primato di coscienza che invera la legge tramite l’opzione di fede. Ciò che sbaraglia ogni moralismo è infatti la convinzione, di fede sì, che l’ortoprassi sia conformazione del nostro stesso corpo fisico a ciò che riteniamo dentro di noi vincolante, fregandocene altamente – absit iniuria verbis – di ogni istanza men che divina. C’è un Dio dentro di noi al quale soltanto sappiamo di dover rispondere, qualunque sia il Suo nome o sia pure, il Suo nome, assente ed impronunciato, oltre che impronunciabile.

È forse politicamente assai poco corretto – epperò rivelativo - accennare alla vera e propria maledizione della carità che pronunziò Martin Lutero, lasciando stupefatti ancor oggi pure i suoi più devoti ammiratori, quasi si trattasse di imperdonabile bestemmia. Ma quella “caritas”, ripudiata, anzi – diciamola come va detta – “maledicta” da Lutero era, per appunto, il perbenismo che mai avrebbe consegnato un anello ad un pornofago. Solo un gesto di fede, cioè di fiducia assoluta, fa scavalcare al padre, in lacrime davanti al figlio che torna, ogni convenzione che oggi aggettiveremmo come buonista. Prestiamo attenzione: il padre non trasgredisce alcun precetto nell’abbracciare il figlio pornofago mettendogli un anello in mano; anzi rivela ai farisei ed ai dottori, i quali – riporta polemicamente Luca al verso 2 – “mormoravano” (διεγόγγυζον, diegògghizon), cosa consegua dall’osservanza della Legge.

Che ha a che fare tutto questo con noi, con una guerra in corso oggi, adesso, domenica 27 marzo 2022? Che cosa c’entra?

Il moralismo è in agguato in ogni nostro pensiero, in ogni nostra parola, in ogni nostra reazione alle parole altrui, magari anche assai autorevoli, come quelle del Papa.

Bisogna difendersi con le armi, bisogna non difendersi con le armi (e dunque, realisticamente, immolarsi). Bisogna aumentare sino al 2% del PIL le spese in armamenti. Bisogna invece vergognarsi di un simile aumento.

Facciamo sosta un attimo. Che cosa importa, o dovrebbe importare a chiunque? Salvare anche solo una vita umana, perché – lo sappiamo, lo insegna il Talmud – “chi salva una vita, salva il mondo intero”.

E chi è disposto a morire per salvare anche una sola vita? Solo chi ha deciso – dunque non per conformismo moralista, ma per proprio irrinunciabile convincimento – di sposare quella vita, di avvertire la vita di quell’altro, di quell’altra, come propria, sentendola come propria carne e proprio sangue.

Esiste – senza dubbio alcuno – anche una pornofagia delle armi. Èros e Thànatos vanno insieme da sempre, il Cantico dei Cantici lo esprime stupendamente e terribilmente.

Manca però un padre – una madre – che metta l’anello nelle mani di chi ha sostituito il piacere dei sensi con il piacere del dare morte. Forse nessun padre e nessuna madre potrà mai farlo.

Ma il grido straziante, sotto le bombe, di quell’unica vita che va salvata, e che dunque va sposata - adesso, subito – resta ed è più forte di ogni ordine militare o ammaestramento etico. Non ascoltarla, o addirittura reprimerla, od anche solo non considerarla, è il sacrilegio – come ha tuonato oggi il Papa, affermando che i potenti decidono e i poveri muoiono – che non si può tollerare.