Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

Dopo 14 anni, “for ever I care



di Stefano Sodaro

Editoriale

Quattordici anni di questo settimanale. Il suo numero 700.

Esattamente gli stessi anni dell’episcopato triestino dell’Arcivescovo Mons. Giampaolo Crepaldi, cui ora succederà il parroco cremonese don Enrico Trevisi, designato a Trieste lo scorso 2 febbraio.

Giovedì, in un tramonto che faceva impazzire di bellezza, la luce del rosone della cattedrale di San Giusto si rifletteva sulle sue mura interne plurisecolari. E proprio cremonese fu il Vescovo medievale Rodolfo Pedrazzani che volle riedificare il tempio, ancora cuore sacro della città giuliana (please, non “friulana”…), qualunque sia la fede di appartenenza, od anche l’estraneità a qualunque fede (https://cremonasera.it/cronaca/l-antico-legame-che-unisce-a-trieste-fu-il-vescovo-cremonese-rodolfo-pedrazzani-a-ricostruire-la-basilica-di-san-giusto-e-portare-soncinesi-e-robecchesi-a-servola)

Cos’abbiamo voluto fare, provare a costruire, abbozzare, in tutto questo tempo, in questi quattordici anni? Lo esprime, con parole che ci emozionano, il monaco di Bose Guido Dotti su questo stesso numero 700: «è proprio a “una vera comunità” che questo periodico ha dato vita, sostenendo e proteggendo sia i collaboratori che i lettori».

Sì, la sapienza monastica sa guardare in fondo ed è vero che dal 2009 in poi, sino ad oggi, si è creata una rete di relazioni, di amicizie, di frequentazioni che ha portato all’allestimento della cosiddetta “Casa di Rodafà”, in Via La Marmora 34, sempre a Trieste, divenuta poi sede dell’Associazione Culturale “Casa Alta” (https://sites.google.com/view/associazionecasaalta).

Il qui presente direttore de “Il giornale di Rodafà” ha avuto, lo scorso 18 gennaio, l’insperata ed inaspettata possibilità di recarsi a Barbiana, proprio laddove fu Priore don Lorenzo Milani, figlio dell’ebrea triestina Alice Belà Weiss, nato ormai quasi cent’anni fa a Firenze, il 27 maggio 1923. (Per la cronaca, ben due sono i consiglieri del Direttivo di “Casa Alta” concittadini di don Milani…). La commozione lo ha sopraffatto. Ardeva il fuoco nella stufa proprio dentro l’aula della scuola di Barbiana. Si confondevano le voci di coloro che furono suoi alunni. La piscina, voluta dal Priore, si riempiva, quel giorno di gennaio, dell’acqua di una pioggia continua, scrosciante, tale da impedire persino la visita al cimitero. Ma forse anche questo ha un senso: è davvero morto don Milani? No. È più vivo che mai. Ci sono, infatti, morti che sono più vivi dei vivi. Quel giorno di gennaio a Barbiana, inoltre, per una concomitanza del tutto singolare – il quinto anniversario della morte di Michele Gesualdi -, nella chiesa è stata celebrata pure l’Eucarestia. Il rito sacro di cui don Milani fu scrupolosissimo e devoto liturgo. Eppure.

«Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L'ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo». 

È quella “protezione” di cui parla fratel Guido riferendosi al nostro settimanale? Non osiamo, ovviamente, avanzare alcuna, neppure minima, comparazione, ma chissà.

Da dove veniva la passione di don Milani per l’educazione dei ragazzi? Perché vi si consacrò anima e corpo, in un tutt’uno con il suo ministero di prete che noi, riconosciamolo, fatichiamo a sciogliere, a comprendere sbrogliandone la matassa di intuizioni, ammonimenti, geniali indicazioni e fedelissime parole presbiterali? Perché? 

Perché – lo diciamo d’un fiato e poi vediamo se sia possibile spiegare meglio – il Priore di Barbiana non aveva paura di contrarre debiti d’amore. Che poi sono, se necessario, anche debiti proprio economici. Già.

La nostra cultura è interamente all’insegna del credito. Ma don Milani, prete del Padre Nostro più ancora che del Vaticano II (cui diede un’apparente poca importanza tanto da sorprenderci ed inquietarci), conosceva e ripeteva in sé con intensità unica l’invocazione, ridottasi per noi a una sorta di giaculatoria priva di senso: “Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Per i cultori del diritto la remissione del debito non è un bell’affare, non è una pratica che si possa sempre e comunque raccomandare; il rischio di fallimento è dietro l’angolo.

Però: chi fallisce e chi no?

Il creditore non fallisce. Mai. Siamo sicuri e sicure?

Chi ama spessissimo fallisce. Fa – come si dice – “un buco nell’acqua”, non foss’altro che per la banale frequentissima assenza di ogni corresponsione. Altro che Amor ch’a nullo amato amar perdona: quando mai, caro Dante?

Banale da registrare oggettivamente, ma terribile da vivere soggettivamente. 

L’ “I care” della cultura americana, scritto sul muro di quella stessa aula a Barbiana, è d’altronde il capovolgimento del terror panico da fallimento.

Perché in effetti anche la croce è un fallimento. Anche la distruzione del Tempio con la scomparsa dei sacrifici.

Da un anno ormai restiamo sconvolti, basiti, annichiliti, davanti al fallimento di ogni umanità che corrisponde al mostruoso, atroce, conflitto armato in Ucraina.

La domanda, tuttavia, si affaccia subito: ma noi per chi e che cosa ci appassioniamo? Ed anzi, ancor prima: c’è qualcuno e qualcosa che ci appassiona fino a mettere in conto sconfitte e fallimenti, senza lasciarsi scoraggiare dal senso di perdita, di abbandono, di sopraffazione?

Tu hai dato tutto, tutto, ad una persona: le hai scritto lettere, le hai aperto l’anima, l’hai seguita dappertutto, hai “bevuto” le sue parole come balsamo, elisir, farmaco, l’hai additata agli altri, l’hai omaggiata di doni e riconoscimenti, eppure quella stessa persona ti concede mozziconi di parole, anche solo tre lettere o due – come un “wow, un “ok” -, e non rispetta quei pochi impegni che pur ha acconsentito di stipulare con te e nemmeno si scusa. Che si fa? Si aderisce alla scuola di tutta la psicologia dell’universo sul necessarissimo “no contact”? Troncare? Mettere paletti? Bisogna “freezare” l’amore?

Sembrerebbe di sì, stando agli insegnamenti più diffusi – vince chi scappa, evviva il maschio alfa -; ma sembrerebbe proprio di no lasciandosi interrogare dall’ “I care” di don Milani. 

Forse ripeterebbe ancora che “dobbiamo proteggerci” il nostro carissimo fratel Guido Dotti. E la protezione più efficace non è l’armatura, bensì la cocciutaggine amorosa. Mi difendo amando.

Possiamo dirlo in serenità: ne abbiamo prese di sberle in questi quattordici anni. Ma proprio tante e sonore e dolorosissime. Basta questo a fermarci? No. Un “no” però detto senza arroganza, senza presunzione, nella consapevolezza di limiti e mancanze gradi. Nonostante tutto, lo sussurriamo: sì, “we care”.

Il senso di questo settecentesimo del nostro settimanale, in questa domenica 12 febbraio 2023, lo si può cogliere, segnalando – è un fatto pubblico, dunque non si tradisce alcuna riservatezza – che cosa accade alle ore 10:30, proprio di questa medesima domenica, a Roma, nella chiesa di Sant’Atanasio, attigua al Pontificio Collegio Greco, in Via del Babuino, nei pressi di Piazza di Spagna, allorquando il liturgista di chiarissima fama Prof. Stefano Parenti (https://www.anselmianum.com/it/docenti?task=renderScheda&id=26) riceverà l’ordinazione diaconale in rito bizantino dalle mani dell’Arcivescovo Giorgio Demetrio Gallaro, Segretario del Dicastero per le Chiese Orientali. E noi ci saremo.

“Il giornale di Rodafà” nacque, infatti, dopo dieci anni dalla discussione di una tesi in diritto canonico, presso l’allora Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Siena, avente ad oggetto: “L’ammissione al presbiterato degli uomini sposati nel diritto delle Chiese Orientali Cattoliche”. Da esse venne poi il libro “Keshi. Preti sposati nel diritto canonico orientale” (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1336160.html), di cui fu autore il direttore di questo nostro giornale. E controrelatrice di quella discussione di tesi fu la compianta Prof.ssa Anna Lina Ravà, che aveva partecipato alla lotta partigiana.

La configurazione istituzionale del fenomeno religioso è sempre stata al centro dei nostri interessi, e tanto più pare impegno necessario adesso, quando la piaga degli abusi ecclesiastici inghiotte ormai maestri, spiritualità, lezioni, persino opere d’arte. Anche a tale riguardo, “we care”, appassionandoci alle sorti, spesso ancora oscure e misteriose, di chi soffre ed ha sofferto.

Dunque, dopo 14 anni, dove possiamo cercare e trovare motivi di incoraggiamento, di speranza, di fiducia, di – usiamola pure la parola – “ottimismo”? Dove? Azzardiamo? Ma sì, dai. 

Questi motivi possiamo trovarli, almeno così crediamo noi, nella consapevolezza che amare – “we care” – vale sempre la pena, anche davanti alle porte che vengono sbattute in faccia. Nella certezza che chi è più povero ed ha meno – la tragedia della Turchia e della Siria nemmeno si riesce a definite con parole adeguate – è capace di un “di più” che a noi manca. “Nessuna casa è troppo piccola per grandi amici”, fu rivelato a Beirut, decenni fa, al sottoscritto.

Pauperismo? Benissimo. Nessun problema. Sono le nostre vite, tutte, ad essere essenzialmente “povere”, in quanto temporalmente limitate: merita dunque abbattersi per i fallimenti o non piuttosto ingaggiare una specie di lotta con Dio – del tutto simile a quella dell’angelo con Giacobbe – per vedere chi saprà amare di più, più a lungo e nonostante tutte le proprie deficienze? Vincerà Lui, o Lei, banale a rilevarsi, ma non è detto. L’amore umano è umano, appunto, mica si liquefa in quello divino.

Rodafà dunque prosegue, o almeno ci prova.

La sua “comunità” – come dice fratel Guido – di chi è composta? Ecco, siccome non lo sappiamo bene, sarà bello scoprirlo assieme. Ci potremo trovare, salutare, finalmente abbracciare - ad ognuno come gli va -: dobbiamo solo stabilire data, ora, luogo. Vi aspettiamo.

Buon numero 700!


Lo scorso 18 gennaio, nella chiesa di Barbiana, quasi all'ora di pranzo, è stata celebrata l'eucarestia per i 5 anni dalla morte di Michele Gesualdi ed ho avuto l'insperata fortuna di potervi partecipare perché ero lì.

E pensando di aver trovato il luogo meno in vista ed ingombrante, più appartato e defilato, mi sono seduto in fondo, su questa panca, in quest'angolo esatto della foto.

Ad un certo momento, prima che iniziasse la liturgia, mi si è avvicinato un ex alunno di don Milani e mi ha detto, con una dolcezza infinita: "Lei s'è preso un bell'impegno, sa?".

Io, sulle prime non ho capito.

"In quel posto esatto, su quella panca, si sedette il Priore appena arrivato a Barbiana nel 1954. Lasciò il camion con le masserizie più giù. Poi entrò. E si sedette proprio dov'è seduto lei. È impegnativo sedersi lì." E ha sorriso ancora.

Potete immaginare il subbuglio dei miei sentimenti.

A quel punto mi sono spostato di almeno due posti verso destra.

(Foto e testo di Stefano Sodaro)

Cattedrale di San Giusto - Trieste, 9 febbraio 2023, foto di Stefano Sodaro

La chiesa di Barbiana - foto di Stefano Sodaro del 18 gennaio 2023