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Il Concordato, maschio, e la Chiesa, donna. Prima puntata

di Stefano Sodaro


I Patti Lateranensi - foto tratta da commons.wikimedia.org


Visto che è Carnevale, proviamo ad infilarci nel vicolo – apparentemente cieco ed invece ben illuminato e luminoso - di un gioco scherzoso (fino ad un certo punto): quello di ipostatizzare secondo genere sessuale concetti e nozioni. Con la premessa che, per appunto, qualsiasi gioco – come insegna una ragguardevole tradizione filosofica ormai consolidata, di cui è rappresentante anche il filosofo triestino Pier Aldo Rovatti – mantiene un’ambivalenza di significato e di direzione rivelativa, tra l’abisso nel nonsense e lo schiudersi di una verità nascosta perché, in fondo, notevolmente fastidiosa.

Proviamo, dunque.

Ricorrono oggi – proprio oggi – i 95 anni dai Patti Lateranensi, firmati da Benito Mussolini e dal Card. Pietro Gasparri, nel Palazzo della Basilica di San Giovanni in Laterano l’11 febbraio 1929.

Forse non è così noto, ma quegli accordi sono declinati al plurale, perché, oltre al celeberrimo Concordato tra Stato e Chiesa (Stato, al tempo, fascista, ma ci ritorneremo), essi ricomprendevano anche il Trattato Lateranense, istitutivo dello Stato Città del Vaticano e, in quanto tale, non messo più in discussione, a differenza del Concordato, da nessuna forza politica di età repubblicana, neppure dai partiti fieramente e decisamente laici e/o anticlericali.

Domenica prossima ricorreranno invece i 40 anni dalla firma degli Accordi di Villa Madama, tra l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Bettino Craxi e l’allora Cardinale Segretario di Stato Agostino Casaroli, che modificarono il solo Concordato, per appunto. Ne parleremo nel prossimo numero.

Qui, ritornando al gioco scherzoso carnevalesco e seguendo i generi della lingua italiana, partiamo dalla constatazione, di per sé inoppugnabile, che la parola “Concordato” è di genere maschile ed il sostantivo “Chiesa” invece, come ha ammonito di recente anche il Papa, di genere femminile. Ha affermato, la scorsa settimana, Francesco: «La Chiesa è donna, la Chiesa è madre, la Chiesa ha la sua figura in Maria e la Chiesa-donna, la cui figura è Maria, è più che Pietro, cioè è un’altra cosa. Non si può ridurre tutto alla ministerialità. La donna in sé stessa ha un simbolo molto grande nella Chiesa come donna, senza ridurla alla ministerialità. Per questo ho detto che ogni istanza di riforma della Chiesa è sempre questione di fedeltà sponsale, perché è donna.»

Si potrebbe, con ogni rispetto, parafrasare allora che la cosiddetta “Chiesa-donna” è anche più dello Stato, di per sé privo di fondazione ontologica (salvo non aderire a visioni corrispondenti alla configurazione di uno “Stato etico” che, in forza della propria essenza metafisica, disciplini e prescriva i convincimenti più profondi dei cittadini suoi sudditi). E la Chiesa-donna accetta, così, di unirsi in nozze concettuali con lo Stato-maschio decidendo quale sia il tramite, il ministro, di tale sposalizio.

Una sorta di matrimonio perfetto di simboli. Il Concordato “sposò” la Chiesa, o – se si preferisce – lo Stato “sposò” la Chiesa (e viceversa) tramite il Concordato. Simmetria mirabile e rispondenza di genere tra un Lui e una Lei del tutto armoniosa e compiuta.

Il problema, però, era che quelle nozze furono celebrate con una Dittatura – altrettanto “donna”, femminile -, o comunque (e sembra meglio scostarsi da omofilie anacronistiche per quanto simboliche) con il Fascismo nella sua massima espressione istituzionale: a firmare i Patti Lateranensi fu infatti lo stesso Duce.

Crollato il fascismo e nata, con il voto democratico popolare, la Repubblica Italiana, che cosa farsene di quegli accordi? Potevano transitare senza problemi nel nuovo ordinamento repubblicano? No. Ci volle l’art. 7 della Costituzione per sancire il principio che i rapporti tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica sono regolati dai Patti Lateranensi.

Questa volta era pertanto proprio un “Ente-Donna”, la Repubblica Italiana, a – per così dire – ratificare un matrimonio stipulato con altro soggetto, che non apparteneva però più, con simile decisione costituzionale, ad un diverso genere simbolicamente sessuato.

E le cose – in termini sessualmente ipostatici – non tornano proprio. Sembra un attentato al diritto naturale, stando ad alcune sue interpretazioni: Donna la Repubblica, Donna la Chiesa. L’omofilia simbolica non può di certo ancora essere rigettata – oggi, 11 febbraio 2024 – come impropria, se non abominevole. Un cortocircuito cui può condurre quel linguaggio ipostatizzante? Lo abbiamo premesso: è uno scherzo di carnevale, ma non è detto che per questo si possa stare troppo tranquilli/e.

Oggi ricorrono anche 11 anni dall’annuncio delle dimissioni di Benedetto XV.

Era un lunedì, non una domenica, e il calendario liturgico riportava la memoria facoltativa della Beata Vergine di Lourdes, indubitabilmente donna, ma – ma – la famosa Declaratio riporta la data del giorno precedente, 10 febbraio, non dell’11. Si trattava di evitare un imbarazzante affollamento di nessi simbolici – i Patti, la “Chiesa-Donna”, la Vergine Maria, il Papa-maschio come tutto il clero -? Non lo sapremo mai. Verrebbe da commentare, quasi in un sussurro pudibondo: povera Maria di Nazaret, messa sempre di mezzo.

Sappiamo però, tuttavia – merita ripeterlo ancora, solo perché è Carnevale -, che l’adozione di linguaggi sessuati per immagini anche teologiche non apporta alcuna chiarezza, anzi provoca buchi neri di implosione argomentativa.

Proseguiremo a rifletterci su pure domenica prossima, ma ormai sarà Quaresima e dovremo essere serissimi.

Intanto, buona domenica di Carnevale.