Foto di Paola Cazzaniga




The Rabbi is still in Weimar


di Miriam Camerini



Ancora una settimana di Weimar, la quarta, il quarto shabbat immersa nel klezmer, nello yiddish, nei manoscritti della collezione Kiselgof – Makonovetsky, ossia il risultato della straordinaria spedizione etno-musicologica guidata nei primi anni ’10 del secolo scorso (e interrotta dalla prima guerra mondiale) dal giornalista, rivoluzionario, etnografo e drammaturgo Shlomo An-sky assieme al compositore Joel Engel e altri intrepidi musicisti e intellettuali che si avventurarono nella Zona di Residenza – la regione fra Russia e Polonia cui era concesso risiedere agli ebrei e dove la concentrazione di questi era altissima, per registrare il maggior numero possibile di melodie, canzoni, brani liturgici, niggunim sul loro strumento a cilindri di cera. Per le vicende del ‘900 l’intera raccolta andò perduta fino a ricomparire di recente nella Biblioteca Verndasky di Kiev.

Avere tra le mani taccuini, note scritte al volo su carta di fortuna e con l’inchiostro che c’era: “Vi trascriverò e manderò tutta la musica che conosco a memoria”, scrisse uno degli interpellati, “ma non con inchiostro nero, perché qua non ne abbiamo più”.

Il pensiero che tanta musica che era fino ad allora stata tramandata oralmente, suonata di padre in figlio e di maestro ad allievo, imparata per strada, alle feste, nei matrimoni sia stata trascritta e registrata, archiviata e fortunosamente conservata proprio alla vigilia della catastrofe della Shoah e successivamente della sistematica distruzione della cultura ebraica in Unione Sovietica mi dà i brividi e mi porta immediatamente al paragone con la più grande opera di scrittura di una tradizione di tutta la storia ebraica: la Mishnà e successivamente la Ghemarà, i primi due testi rabbinici, redatti fra II e VI secolo d.C., che chiamiamo Talmud e sono la base e forse la ragione della sopravvivenza del popolo ebraico in due millenni di diaspora. Anche nel caso delle interpretazioni rabbiniche al testo della Torah, delle discussioni che si svolgevano nelle accademie rabbiniche e delle norme che si imparavano e tramandavano per strada e di maestro in allievo, l’intuizione di scriverle, di fissare su carta la Torah orale una volta per tutte fu la decisione di Yehuda Hanassì, presidente del Sinedrio, che comprese che di lì a pochi anni il popolo ebraico sarebbe stato disperso ai quattro angoli della Terra e l’unico modo per assicurare la sopravvivenza delle tradizioni era scriverle.

Così è per questa musica, che si è salvata, è sopravvissuta allo sterminio, alla assimilazione e all’esilio della stragrande maggioranza di coloro i quali la suonavano, danzavano, cantavano, ascoltavano e che per essa ridevano e piangevano, grazie a un’operazione provvisoria e traballante quasi quanto i carri che trasportavano il manipolo di intellettuali socialisti sognatori, incoscienti, idealisti, equipaggiati solo del proprio coraggio che queste melodie e queste musiche ci hanno consegnato.

Essere qui questa estate con musiciste e artisti di tutto il mondo a studiarle, ascoltarle, eseguirle è un privilegio immenso.


Foto di Paola Cazzaniga