The Rabbi is in


La misericordia del raviolo


di Miriam Camerini


Ieri sera parlavo con un amico della “misericordia del raviolo”: eravamo per strada, a Dresda, lo Shabbat era uscito da poco e lui si era comperato alla pizzeria di un afghano delle sorte di gnocchetti di pane, o meglio: di impasto di pizza ripieni di formaggio e spinaci, come dei piccoli panzerotti al forno. Con il fornaio afghano, mentre la pasta della pizza si gonfiava in forno, avevamo avuto una conversazione interessante iniziata con il mio: “Tu sei musulmano, giusto? E mangi maiale?”.

C’erano salami e prosciutti sul menu, fra i vari possibili ripieni dei calzoncini e mi domandavo quale sia la norma per la vendita di cibo proibito nell’Islam.

Un ebreo non può mangiare maiale, ma non gli è proibito venderlo o trarne altro vantaggio economico, anche se non conosco nessuno oggi che lo faccia, mentre è proibito – per esempio – derivare alcun profitto dalla mescolanza di latte e carne, secondo la regola ebraica, che però l’Islam non ha adottato.

Il ragazzo ci ha risposto che – appunto – lui il maiale non lo mangia però lo può vendere e ci ha citato non il Corano, bensì l’esatto passaggio biblico che proibisce il maiale in Levitico, lasciandomi abbastanza sorpresa. Abbiamo salutato e ce ne siamo andati, mangiando i nostri panzerottini e parlando di come la pasta ripiena e calda sia uno di quei cibi che confortano a prescindere, come tornare nel ventre materno, in quel grembo o utero che in ebraico come in arabo si chiama rechem, ossia misericordia, che è a sua volta uno dei nomi di dio in entrambe le fedi e anche il nome dato dai Maestri ai loro rispettivi testi sacri, la Torah e il Corano.

Manuel Kanah e io eravamo a Dresda per presentare il libro di cucina e religioni che abbiamo scritto assieme, io le storie e lui le ricette, e che è da poco stato pubblicato in Germania, con il titolo di Rezepte und Gebote, tedesco per Ricette e Precetti. La sera precedente, su una grande barca ormeggiata sull’Elba, avevamo intrattenuto un’ottantina di ospiti curiosi di assaggiare challà, pane dolce del sabato, e humus, couscous e chraimi, pesce piccante al pomodoro, shershi di zucca tripolina e ceci piccanti al coriandolo per una cena dello Shabbat con cibo mediorientale ma musica yiddish, nigunim chassidici cantati assieme a due giovani uomini che hanno lasciato le loro comunità “ultra-ortodosse” rispettivamente a New York e a Gerusalemme per costruire una nuova comunità ebraica più “moderna” sulle rive dell’Elba, nella culla della Riforma, all’ombra della grande statua di Lutero e a due passi dalla sua chiesa.

L’ultima sera prima di Sukkot, la festa delle capanne che inizia fra appena un’ora al tramonto di questa domenica, alla luce brillante della luna piena del settimo mese dell’anno biblico, primo secondo il conto rabbinico, abbiamo benedetto lo Shabbat sul vino e spezzato la challà dopo aver lavato le mani, cantato e contemplato il fiume, le stelle e la luna, benedetto l’eterno per il vino e il pane, la terra, il Sabato e la Legge.

Mentre camminavamo pensavo che c’è davvero qualche cosa di materno e misericordioso in questa pasta calda e morbida che si ingravida di formaggio, di verdure o di carne e mi domandavo se è solo in occidente che il conforto derivato da questo cibo, pasta ripiena, fritta o cotta al forno che sia: borek turco-balcanico, tortello del carnevale italiano-svizzero-tedesco, raviolo e panzerotto italo-mediterraneo o knödel austro-tedesco è così immediatamente “materno”. Sul momento ho ripensato a una lezione che ho sentito un paio d’anni fa dal rabbino con cui studio a Gerusalemme, americano di nascita e polacco di famiglia, che trattava la teologia dei Krepelakh, involtini di pasta e carne trita di origine ebraica – aschkenazita, ossia esteuropea, che si preparano per Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, appena trascorso, festa del Giudizio divino e del “conto dell’anima”, in cui tutte le azioni, buone e cattive commesse durante l’anno appena concluso vengono passate in rassegna al suono dello shofàr, il corno di ariete che dà voce al nostro dolore, al rigore della giornata, alla consapevolezza della nostra difficoltà di esseri umani, ma anche alla certezza di poter sempre aspirare a far meglio.

Il suono del corno, in sinagoga e in casa, a Capodanno, segue una “partitura” che ne prescrive i suoni: la durata e la quantità, se sono continui o spezzati, lisci o tremolanti.

Il suono lungo e continuo, “liscio” è detto tekiah – ossia suonata, vera e propria – il suono spezzato e “tremolante” si chiama teruah, ossia “strepito, rumore fragoroso”, che dà anche il nome alla giornata.

Il suono di mezzo è quello diviso in tre e si chiama shevarim, cioè pezzi, cocci, frammenti. La tekiah, il suono liscio, rappresenta la misericordia che deve avvolgere sempre il giudizio, la legge, il rigore: nella partitura dello shofàr, infatti, i suoni frammentati sono sempre preceduti e seguti dalla morbidezza della tekiah, che li avvolge. Così nei krepelakh, crespelle del mio rabbino, la carne del ripieno – il padre, la legge, il rigore – è avvolta nella misericordia del femminile, della pasta che perdona: entrambe le dimensioni del rigore e della misericordia sono divine, tutte e due tengono in piedi il nostro mondo.

L’importante – come sempre – è la scansione e la posizione dell’una e dell’altro.

Musica e cibo, ancora una volta, ce lo rammentano.


Le belle bandiere, Teatrino Franco e Franca Basaglia - Trieste, 2 ottobre 2022 - foto di Gianni Passante









Foto, qui, di Stefano Sodaro durante il Concerto Caffè Odessa tenutosi a Matera il 19 maggio 2022 e durante la rappresentazione Le Belle Bandiere, tenutasi al Castello di Casalgrande (RE) il 7 luglio 2022.

Foto di Paola Cazzaniga