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Vento sul Mare del Nord - Foto di Friedrich Haag, tratta da commons.wikimedia.org



Il vento soffia dove vuole




di Carlo Ridolfi

(Socio di Casa Alta)



Com’è possibile, mi chiedo, coniugare una situazione di ristrettezza, di smacco, di contenzione, con un anelito di futuro?

Potrebbe sembrare intenzione sovrumana, al di fuori delle nostre possibilità. O follia.

Eppure tornano alla mente parole concepite e scritte da Dietrich Bonhoeffer, a Flossenburg. O di Etty Hillesum, ad Auschwitz. O le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. O gli scritti, saggistici ed epistolari, di Antonio Gramsci, che certamente non credeva nel Dio dei cristiani né in nessun altro ente metafisico, ma che mantenne fino alla fine la tenacia per progetti di trasformazione della realtà. O la scelta estrema di Janusz Korczak, che dal ghetto di Varsavia volle accompagnare i suoi ragazzi fino a Treblinka, fino all’annullamento, apparentemente, totale.

Sto parlando di giganti.

E, tuttavia, noi ricordiamo loro, non i nomi dei loro carcerieri e aguzzini e assassini.

Un gigante della storia del cinema, Robert Bresson, realizzò nel 1956 Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé). Tratto dal racconto autobiografico di André Devigny, il capolavoro di Bresson descrive la vita in cella di un esponente della Resistenza francese, condannato alla pena capitale dai nazisti. Pochi oggetti della quotidianità reclusa – un cucchiaio, una matita, un fil di ferro, una coperta – gli serviranno per tentare la fuga.

E quale, forse oggi inarrivabile?, forza spronò Olivier Messiaen, internato nello Stalag VIII-A di Gorlitz, a riunire con lui tre altri prigionieri musicisti e a comporre, per clarinetto, violino, violoncello e pianoforte un grido di dolore e di attesa come il Quartetto per la fine del Tempo?

Forse, non è che una ipotesi, l’irriducibile convinzione che se l’orrore massimo può travolgere fino alla consunzione un Tempo che il delirio totalitario vorrebbe rendere immobile una volta per sempre, c’è un tempo degli uomini e delle donne e dei giorni e della natura che non ha fine, perché, come recita il sottotitolo del film di Robert Bresson, Le vent souffle où il veut.

Il vento soffia dove vuole, non nella direzione alla quale vorrebbero costringerlo i malvagi.

Un altro film. Un altro gigante della storia del cinema. E’ ancora il 1956. Alfred Hitchcock realizza negli Stati Uniti Il ladro (The Wrong Man). Henry Fonda è Manny Balestrero, un bravo contrabbassista jazz che viene arrestato perché una testimone ha creduto di riconoscere in lui l’autore di una rapina.

Disperato in cella, dopo aver perso il lavoro e la salute mentale della moglie, che non ha retto alla tensione, l’uomo guarda il crocifisso appeso alla parete e inizia a pregare.

La potenza del cinema come arte dell’evocazione (in questo caso, forse, anche dell’invocazione) trova in questa sequenza uno dei momenti più alti mai raggiunti.

Al primissimo piano di Balestrero si sovrappone, in dissolvenza lentamente incrociata, il campo lunghissimo di un uomo che inizia a camminare dal fondo di una via, avanzando fino a quando il suo volto sembra coincidere quasi esattamente con quello dell’uomo che prega.

Sarà lo scioglimento giudiziario della vicenda. Manny il contrabassista era stato scambiato per un altro che gli assomigliava fisicamente. Le tracce dell’errore dei testimoni non saranno cancellate – ogni scelta nostra o di altri nei nostri confronti ha delle conseguenze – ma, forse, si potranno trovare nuove aspettative per il futuro.

Il vento della speranza entra dai pertugi più inattesi.

Lo sentono probabilmente gli uomini e i ragazzi che sono a Bihac, arrivando dall’Asia, dal Nordafrica, dal Medio Oriente, che tentano, a volte per molte volte, quello che loro stessi chiamano “The game”, il drammatico gioco di attraversare il confine con la Croazia e di dirigersi verso quello italiano, spesso ricacciati indietro dalla polizia, con le botte e con la distruzione di scarpe e telefoni.

Possiamo non sentirlo noi, che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case?

Possiamo non respirarlo, accettando come normale l’ottundimento della nostra umanità?

Mario Lodi, vero albero maestro della cultura educativa italiana, ce lo ricordava in suo libro pubblicato nel 1963: C’è speranza se questo accade al Vho.

Se accadde nella piccola scuola di una frazione di un paesino della pianura Padana – come in una quasi diroccata chiesa del Mugello, come nella Partinico di Danilo Dolci, come nelle baracche romane di don Roberto Sardelli, come nella Recife di Paulo Freire – che possa esser stato compiuto l’atto generativo di educare, cioè di trarre fuori, quindi di liberare, non possiamo ignorare che la speranza può essere il cucchiaio del condannato di Bresson, il crocefisso di quello di Hitchcock, il quaderno di Gramsci o le scarpe gelosamente custodite da un ragazzo a Bihac per tentare il superamento del confine.

Abbiamo il dovere di rammentarcelo in ogni ora dei nostri giorni.