Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano

12.12.1969 - disegno di Ugo Pierri


Extra philosopham, hebraeistam et rabbinam de El Mozote, nulla salus


di Stefano Sodaro


Nel suo volume Tra due mondi. Studio sul concetto di libertà in Franz Rosenzweig (Vita e Pensiero 2011), Claudia Milani rileva, a p. 7, che

al contrario di quanto hanno fatto la tradizione storico-filosofica e la teologia negativa, Rosenzweig non assume tale nulla come un punto di approdo, bensì soltanto come un punto di partenza.

Nulla soltanto come punto di partenza.

Il titolo del nostro modesto editoriale di questa domenica può sembrare troppo – inaccettabilmente - criptico o forse addirittura una sorta di goffo omaggio ai titoli dei film dell’appena scomparsa Lina Wertmüller, oppure, ancora, una provocazione comunque incomprensibile, iniziatica, quasi esoterica. Meglio lasciar perdere e proseguire oltre. D’accordo, che nessuno si annoi. Eppure una ragione c’è. Tutta “rodafiana”, se si può dir così.

Due mesi e mezzo fa ci eravamo riproposti di darci appuntamento per il giorno anniversario dei quarant’anni dal massacro di El Mozote, in El Salvador (https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-627/stefano-sodaro-memoria-e-attualit%C3%A0-della-teologia-della-liberazione), che tragicamente si compì tra l’11 ed il 12 dicembre 1981, con la morte di più di 800 persone, tra cui moltissime bambine e donne, ad opera del Battaglione “Atlacatl” dell’esercito regolare salvadoregno.

Oggi, in Italia, ricorre il 52mo anniversario della strage di Piazza Fontana.

Senza intimoriti giri di parole, entrambe le carneficine sono da ricondursi a responsabilità neofasciste, secondo un’impostazione (sub)culturale attivissima dalla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo sia in America Latina che nel nostro Paese. Un capitolo oscuro di storia che sarebbe molto pericoloso ritenere chiuso per sempre, nel momento in cui ricompaiono, ad esempio, ristampe dei Protocolli dei Savi di Sion o strumentalizzazioni della stella di Davide sulle divise degli internati nei campi di sterminio per manifestazioni no-vax.

E dentro simile nube color pece allignano pulsioni antisemite, i cui presupposti ideologici si alimentano di frustrazioni, ignoranza, compensazioni psichiche di fallimenti esistenziali irrisolti e, in particolare, antagonismi anti-sistema assunti come farmaci ritenuti legittimi, “commerciabili”, per attuare devastazioni di sé e degli altri, soprattutto a livello interiore, profondo, sotterraneo. C’è chi, infatti, ha colto una stretta prossimità tra narcisismo ed antisemitismo.

Fare memoria del massacro di El Mozote, villaggio di un contesto geografico del tutto lontano dalla nostra sensibilità ed attualità, porta a guardare in direzioni di speranza che, per appunto, rovescino, capovolgano, il nulla della morte pianificata, trasformandolo, da punto di arrivo, in un drammatico – ma decisivo - punto di partenza per l’elaborazione di nuovi affondi culturali, inediti, freschi, giovani, serissimi, essi sì radicalmente alternativi.

La cultura giudeo-cristiana è storicamente il bersaglio al centro delle pulsioni neofasciste.

In Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo Emmanuel Lévinas scrive (alle pp. 24-25 dell’edizione Quodlibet del 1996):

Il tempo, condizione dell’esistenza umana, è soprattutto condizione dell’irreparabile. Il fatto compiuto, travolto da un presente che fu, sfugge per sempre alla presa dell’uomo, ma grava sul suo destino. Dietro alla malinconia per l’eterno fluire delle cose, per l’illusorio presente di Eraclito, c’è la tragedia dell’inamovibilità di un passato incancellabile che condanna l’iniziativa a non essere che una continuazione. La vera libertà, il vero inizio, esigerebbero un vero presente che, sempre al culmine di un destino, lo ricominciasse eternamente. L’ebraismo apporta questo messaggio magnifico. Il rimorso – espressione dolorosa dell’impotenza radicare di riparare l’irreparabile – annuncia il pentimento generatore del perdono che redime. L’uomo scopre nel presente ciò che trasforma e fa dileguare il passato. Il tempo perde la sua stessa irreversibilità. Si piega sfinito ai piedi dell’uomo come una bestia ferita. Ed egli lo libera.

Il sentimento bruciante della naturale impotenza dell’uomo nei confronti del tempo costituisce tutta la tragicità della Moira greca tutta l’acuità dell’idea di peccato e tutta la grandezza della rivolta del Cristianesimo. Agli Atridi, che si dibattono soffocati da un passato estraneo e brutale come una maledizione, il Cristianesimo oppone un dramma mistico. La Croce affranca; e attraverso l’Eucarestia, che trionfa sul tempo, questa liberazione diventa quotidiana. La salvezza che il cristianesimo vuole portare vale come promessa di ricominciare il definitivo che si compie nel trascorrere degli istanti, di superare la contraddizione assoluta di un passato subordinato al presente, di un passato sempre in causa, sempre rimesso in questione.

In questo modo esso proclama la liberà, la rende possibile in tutta la sua pienezza. Non solo la scelta del destino è libera. La scelta compiuta non diventa un vincolo. L’uomo conserva la possibilità – soprannaturale certo, ma alla sua portata e concreta – di sciogliere il contratto nel quale si è liberamente impegnato. Egli può riacquistare in ogni istante la nudità dei primi giorni della creazione. La riconquista non è facile. Può fallire. Non è l’effetto del decreto capriccioso di una volontà collocata in un mondo arbitrario. Ma l’enormità dello sforzo richiesto equivale alla serietà dell’ostacolo, e sottolinea l’originalità del nuovo ordine promesso e realizzato che trionfa aprendo uno squarcio negli strati profondi dell’esistenza naturale.

Liberarsi dai vincoli di una naturalità che nulla ha a che fare con la passione ambientalista, ma che – al contrario – canonizza l’istinto in ogni sua dimensione, anche quella vendicativa, sopraffattiva, omicida, possessoria, proprietaria, non è percorso tanto semplice.

Anche eros vive di un reciproco necessario appartenersi, senza il quale sembra addirittura ingiuriosa la pronuncia del magico “ti amo”. E agápe è divenuto troppo evanescente, affare di devozioni mentali e di fervorini sulla buona creanza.

Dunque che ci resta? Qui il titolo del nostro editoriale forse torna utile per disegnare un sentiero: ci restano una filosofa, un’ebraista, una rabbina.

Che vuol dire?

Può essere il caso di richiamare ancora, come la scorsa settimana (https://sites.google.com/view/rodafa/home-n-638-5-dicembre-2021/stefano-sodaro-extra-ierusalem-nulla-salus-prima-puntata), un percorso teologico che portò la Chiesa Cattolica a transitare dal principio indefettibile dell’extra Ecclesiam nulla salus a quello decisamente più ecumenico e fondato dell’extra Christum nulla salus, oggi tuttavia ancora insufficiente.

Il Vangelo di Matteo – che potrebbe sembrare, sotto alcuni aspetti, non propriamente campione di filosemitismo, benché sia, all’inverso, considerato da molti come forse il più ebraico dei Vangeli – contiene, al suo capitolo 25 l’identificazione del Salvatore, del Messia, con “i più piccoli”, i dimenticati, gli abbandonati, gli indigenti, i bisognosi, i poveri. Da esaltazione individuale di un Dio Uomo da adorare, la rivelazione evangelica si fa così annuncio di un tempo nuovo – un nuovo eone, come si dice – in cui l’amore sia pratica (e non discorso o ammonizione morale), vita reale, concretissima, quotidiana. Fare. Ortoprassi assai più che ortodossia.

Il capitolo 25 di Matteo consente di identificare le vittime di El Mozote di quarant’anni fa – così come le vittime di Piazza Fontana di cinquantadue anni fa – con lo stesso Cristo. Cos’altro sarebbe la teologia della liberazione che venne proprio dall’America Latina solo un decennio prima di El Mozote?

Ma per giungere fin qui le omelie non servono.

Servono, invece, le testimonianze.

Ecco: una filosofa, un’ebraista, una rabbina – che hanno precisi nomi e cognomi, ma su cui ci riserviamo di tornare nel prossimo futuro, presentandole come si deve – fanno uscire la teologia dal recinto del già detto verso la pratica intensamente amorosa, appassionata, del mai osato. Un capovolgimento di prospettiva, di approccio, di metodo. E di contenuto.

Ed è proprio la professionalità, così negletta – ad esempio - negli ambienti cattolici quasi forse indice di scarsa motivazione, di chi studia dedicandovi la vita a contrassegnare la serietà di una memoria che libera e realizza l’utopia in cui crediamo.

Grazie, dunque, a quante e quanti, con il proprio semplice esserci - come accade con una filosofa, un’ebraista ed una rabbina – ci imparentano con mondi pure lontanissimi, ma che ci abitano.

El Mozote è anche il nostro villaggio.

Buona settimana.