Foto di Paola Cazzaniga




L’erranza

parte 3


di Miriam Camerini



L’erranza cresce e si moltiplica


“Non puoi dire che Genova è brutta, certo: Milano ha il mare, Genova no, però... va beh, c’è Milano Marittima.” Le conversazioni ormai sono al surrealismo spinto; d’altra parte, è quasi mezzanotte e il treno per il mare si è fermato subito dopo Pavia, cioè troppo vicino a Milano.

Io l’ho preso facendomi quasi venire un infarto, rincorso senza quasi nessuna speranza di prenderlo, avendo deciso dopo poco più di 48 ore che di Milano ne avevo abbastanza: da martedì a giovedì pomeriggio, nonostante la felicità di abbracciare amiche e amici che non vedevo da mezzo anno, la gioia di ritrovare luoghi amati lì dove li avevo lasciati: il signore gentilissimo della mia banca, il cui sorriso nessuno mai potrà convincermi a sostituire con la rigida e grigia chiavetta dell’home-banking, il “mio” parrucchiere, che mi fa ridere talmente tanto che non riesco a star ferma mentre mi spunta i capelli, la torrefazione / pasticceria della mia colazione, dove anche sei mesi dopo non è necessario sforzarsi di aprire la bocca prima di aver bevuto il caffè: quel che mi serve per tornare un umano di mattina lo ricordano anche dopo mesi, con mia consolazione; poi c’è la tintoria alla quale ho abbandonato cappotti e golf partendo in inverno e che ancora li ha lì…

Il baracchino dei frullati e delle insalate dove amo pranzare con mia madre, proprio a metà strada fra casa sua e casa mia, i Giardini di Porta Venezia, il Cinema dove un amico fa in tempo a invitarmi - nella mia unica serata milanese libera - per una bella commedia francese sui profumi, gli odori e la facoltà di percepirli, un film su un senso - l’olfatto - fra quelli da sempre a me più cari e che la pandemia, con il pericolo di perderlo, ci ha istruiti a non dare per scontato...

E poi la Corte dei Miracoli, il mio amatissimo teatrino/cineclub/baretto del quartiere, luogo di incontri tra i miei più belli di questi ultimi anni, momenti di pura bellezza. Insomma: sono passata due giorni e mezzo a sincerarmi che la “mia” Milano fosse sempre lì, dove e come l’avevo lasciata, anzi: molto meglio, riaperta e felice, quasi risanata, sicuramente pronta all’estate, zanzare e maleducati che fanno feste fino alle 4 di mattina con le finestre spalancate sul cortile compresi.

E allora, in questo miscuglio di gioia ritrovata e fastidio già in agguato, mi prende la voglia di ripartire e il bisogno di organizzare la nuova valigia sì da poterci stare fuori fino a settembre, almeno. Sono molte le tappe, tanti i lavori, gli spettacoli, le lezioni, gli articoli da fare, preparare, scrivere…

Ho bisogno di concentrarmi un paio d’ore buone per preparare il mio nuovo “baule”.

Verso sera è pronto, lo chiudo. Si è fatto tardi, forse troppo anche per l’ultimo treno, ma salto su un taxi e ci provo lo stesso.

Il treno lo prendo, ma dopo meno di un’ora è fermo fra Pavia, Voghera, Tortona... non capisco nemmeno bene, all’inizio. Purtroppo si parla di un ragazzo, forse straniero, appena ventenne, che si è buttato sotto. Come sempre avviene in questi casi le notizie arrivano a pezzi, col contagocce.

Penso alla mamma di quel ragazzo: chissà chi è, chissà dov’è, chissà se c’è? La mia di mamma - appena le scrivo che siamo fermi e chissà quando arriveremo e io, mannaggia a me, che non avevo nemmeno ancora cenato, contando sulle trenette al pesto di mezzanotte a Levanto - subito si preoccupa per la sua 38enne piccina digiuna... ah, le mamme!

Chissà se quel poveretto aveva una mamma che si preoccupava che non andasse a letto senza cena, mi chiedo.

Le persone attorno a me reagiscono come purtroppo spesso avviene: “Eh, ma non poteva buttarsi 5 minuti dopo, che intanto passavamo?”… sento.

Chiaro che si dice per dire, un modo di sfogare il disappunto e la frustrazione per i piani di viaggio saltati, il sogno di svegliarsi il venerdì mattina già sul mare in stand-by, ma ciononostante non riesco a non rabbrividire del cinismo del “milanese imbruttito”. A proposito di milanese, ci sono anche due ragazzi che rapidamente reperiscono il numero della pizzeria ancora aperta più vicina al paesello sperduto in cui siamo fermi e fanno arrivare pizze e birre per tutti, consegna direttamente… al binario! Ringrazio, addento, sorseggio, avverto la mamma che può andare a dormire serena, almeno lei: noi ne avremo, temo, ancora per ore, ma intanto lo stomaco non è più vuoto.

Passa di lì un mio amico dei tempi dell’università, non ci vediamo da tempo: anche lui era su uno dei treni fermi oramai da ore; abbracciarsi è un momento di felicità pura, come un pezzetto di casa e di tempi antichi donatoci dalla sorte fra la notte e le zanzare.

Arrivo a Levanto alle 6 del venerdì mattina, l’alba è già chiara, la focaccia è appena sfornata, ma in puro stile ligure per averne un pezzetto dovevi prenotarla, quindi per stamattina niente.

È difficile tornare al quotidiano, dopo tanti mesi così pieni, così “forti”… I mesi che verranno anche saranno belli, ma ora bisogna saper sostare. Non ho più il concetto di una casa, chi mi chiede: “Allora, sei tornata?” E: “Quanto stai?” mi innervosisce subito: mi viene da rispondere: “Tornata dove? Ora son qui. Poi andrò da un’altra parte. Punto”.

Un po’ di empatia ci vuole. E di pazienza.

Foto di Paola Cazzaniga